di Valerio Evangelisti
Ormai il genere detto noir ha rimpiazzato larga parte della narrativa poliziesca tradizionale, di cui, pure, rappresenta un’evoluzione. Credo non sia un caso: è che anche nella vita reale, o perlomeno in quella sua componente non secondaria che è il crimine, il colore nero si è sovrapposto ampiamente al giallo.
Il dato è spaventoso, ma ne va preso atto. Se nel campo terroristico diventa sempre più difficile individuare ideologia e moventi dei suoi protagonisti, in quello puramente e semplicemente criminale si moltiplicano gli atti di un’efferatezza inspiegabile, gli omicidi insensati, le esplosioni gratuite di sadismo. Giovanissimi innamorati alla Peynet accoltellano genitori e fratellini; ragazzine si inventano dal nulla una setta satanica e compiono un sacrificio umano; adolescenti di quartiere appiccano fuoco a un barbone oppure violentano e uccidono una compagna di classe. Anche una “tradizionale” rapina in una villa può mutarsi nell’occasione per l’esercizio di una ferocia non necessaria, mentre, sul versante opposto, la difesa legittima dei propri beni rischia di degenerare nell’omicidio di un aggressore disarmato.
Intendiamoci, simili orrori sono sempre esistiti. E’ innegabile, però, che fino a un paio di decenni fa costituissero trasgressione rispetto a codici di comportamento che, occulti o meno che fossero, riuscivano in qualche modo a regolare persino il mondo sotterraneo del delitto. Oggi quei codici paiono tutti saltati. Il crimine patologico, abnorme, sfrenato, eccessivo — un tempo ricorrente solo nella società statunitense, e anche in quella con molti distinguo — si ripropone con frequenza quasi quotidiana. C’è poco da dire. Qualcosa si è spezzato.
E’ piuttosto logico che, in simile contesto, la narrativa “gialla” perda colpi. Se hanno ancora relativo successo narrazioni in cui il detective (pubblico o privato), guidato da rigore logico e capacità induttive, ricostruisce anello dopo anello le ragioni di un delitto, è essenzialmente per via della funzione consolatoria di storie di quel tipo. Non a caso, la loro fruizione maggiore è oggi quella televisiva, con il moltiplicarsi di marescialli e carabinieri, squadre e squadrette. Risolto il caso, estinto il problema.
Ma che dire quando il problema vero inizia subito dopo che il colpevole è stato assicurato alla giustizia? Cosa potrebbero dirci Nero Wolfe o Sherlock Holmes, Maigret o Poirot del caso di Erika e Omar o di altri simili? Persino Marlowe, nato per contestare gli investigatori di quel genere, si troverebbe in serio imbarazzo. Persino Sam Spade, che pure sa di vivere in una società marcia ed è capace di frugarne il marciume. Qui non si tratta di recuperare una statuetta che contiene un gioiello, sfidando un boss della malavita. Qui si tratta di capire perché il venire meno di norme intangibili abbia spalancato le porte alla schizofrenia, promossa, da malattia mentale dei singoli, a patologia sociale.
Origini del noir
Ecco spiegata la fortuna del noir. In Italia il termine viene impiegato alla leggera, e spesso applicato a comuni romanzi polizieschi, peraltro talora ben confezionati e non privi di qualità letterarie. Ma se guardiamo alle origini vere di questo tipo di narrativa, la differenza rispetto al giallo si avverte. Nei migliori romanzi di Dashiell Hammett — quelli che hanno a protagonista un anonimo agente dell’agenzia Continental — il male non è ancora patologia sociale. Però bande di gangster dominano città intere, la politica è sporca da cima a fondo, le leggi sono dettate da chi non ne vorrebbe.
Jim Thompson e David Goodies si spingono più in là. Scrivono storie tragiche di disperati e di emarginati, immersi in giungle metropolitane in cui non esiste uno straccio di giustizia che li difenda.
Più prossimo a noi, James Ellroy, pur non condividendo una virgola dell’ispirazione marxista dei suoi predecessori, finisce col riscrivere una storia degli Stati Uniti in cui società civile e mondo criminale si sovrappongono. Mentre altri autori, come il Thomas Harris dei primi romanzi, si concentrano sui serial killer quali figure emblematiche e vincenti, al punto che i detective che li combattono devono stare bene attenti a non lasciarsi imprigionare dalla loro psicologia contorta e affascinante, che un angolino della loro mente condivide.
In seguito, ahimé, è tutto un proliferare di assassini di massa, e ciò coincide con una crisi seria del noir. Lo stesso Hannibal Lecter (o Lector) di Harris, serial killer cosciente e compiaciuto, diventa protagonista a sé. Così finisce per apparentarsi a Fantômas, campione, ai primi del ‘900, del delitto gratuito, esercitato come un’arte e senza freni morali di sorta.
Proprio il Fantômas di Marcel Allain e Pierre Souvestre fonda del resto il noir francese, fecondato da una certa passione nazionale per il fuorilegge amorale e ribelle (cantato all’eccesso da Auguste Le Breton e Albert Simonin). Il senso profondo del noir sarà recuperato appieno, negli anni ’80, solo da Jean-Patrick Manchette. In lui la figura dell’investigatore si oscura per davvero, e la scoperta del “colpevole” esce quasi del tutto dalla trama. Abbiamo invece a che fare con assassini prezzolati, poliziotti corrotti e quasi più temibili dei nemici che combattono, vendicatori — anzi, vendicatrici — dai moventi incerti e incapaci di battere ciglio anche davanti a una strage. Qui sì che, volutamente, la chiusura del caso non chiude il problema.
Tutta una leva di scrittori segue in Francia le tracce di Manchette (come, in Inghilterra, quelle di Derek Raymond, autore sopraffino di romanzi angosciosi allo spasimo). I risultati variano, ma è in territorio francese che il noir soppianta per davvero il giallo, e non solo per via della copertina della più nota collana di genere, edita da Gallimard. Addirittura, il romanzo nero lancia la sfida alla letteratura “alta”, nei confronti della quale rivendica un maggiore realismo.
L’Italia si scurisce.
In Italia, dove un giallo autoctono esiste fin dagli anni ’30 del Novecento, e vanta antesignani risalenti alla fine del secolo precedente, la trasformazione è meno facile. Serie di romanzi “neri” vengono lanciate dagli editori Mondadori, Garzanti e Longanesi già negli anni ’60. Propongono le storie di gangster brutali e di poliziotti ancor più brutali, scritte alla meno peggio dall’inglese James Hadley Chase, dall’americano Mickey Spillane e dai loro epigoni. I tentativi di imitazione da parte di italiani sono però rare. Forse solo Giorgio Scerbanenco riesce ad addentrarsi in maniera persuasiva sulla stessa strada, mettendo in scena le periferie urbane create dal tramonto dell’economia rurale e traendo diretta ispirazione dalla cronaca nera. In quest’ultima, d’altra parte, i serial killer non abbondano. Ci si ricorda di Girolimoni, della Cianciulli. Sarà unicamente col “mostro di Firenze” che l’assassinio in serie per puro sadismo cesserà di essere visto quale fenomeno esotico, dalle scarse repliche locali.
E’ piuttosto il cinema che, nei Sessanta e agli inizi dei Settanta, prende atto delle modifiche che stanno avendo luogo nell’universo del crimine. Registi popolari come Mario Bava, Fernando Di Leo, Umberto Lenzi, Mario Caiano e tanti altri, provenienti dall’horror oppure dallo “spaghetti western”, reagiscono all’inaridirsi di quei filoni con un tuffo nella nuova fenomenologia del delitto. I loro gangster non somigliano per niente al Padrino, i loro assassini non usano né veleni né pugnali, i loro poliziotti condividono la crescente violenza della società che li circonda. Bava, più tardi imitato dal primo Dario Argento e da Lucio Fulci, compone ritratti di serial killer quali non si vedevano dai tempi di M. Gli altri, guidati dal loro istinto commerciale, intuiscono la voglia di una parte del pubblico di esorcizzare chi lo minaccia nella vita quotidiana. Non c’è dubbio che quest’ultimo abbia più le fattezze del teppista che di Diabolik.
La narrativa, seppure in ritardo, finisce per adeguarsi. Il capostipite è probabilmente Loriano Macchiavelli. Lo scrittore bolognese opera ancora nel campo del giallo, però ne trasforma dall’interno i contenuti. Il suo antieroe, il poliziotto Sarti Antonio, niente affatto brillante o perspicace, vive storie amare, “cattive”, in cui la soluzione dell’enigma raramente è consolatoria. Non a caso, una serie di telefilm tratti dai racconti di Macchiavelli viene sospesa dalla Rai perché ritenuta deprimente nei confronti degli spettatori. Ma Macchiavelli ha il merito ulteriore di radunare attorno a sé un manipolo di giovani scrittori — chiamati il “Gruppo dei 13”, anche se il loro numero varierà nel tempo — dai quali uscirà finalmente il vero noir italiano. Si chiamano Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Eraldo Baldini, Giampiero Rigosi, ecc. Con stili profondamente diversi, sondano paesaggi dell’anima scuri come il carbone. Ma è inutile soffermarsi sui loro romanzi, oggi nelle mani di tutti.
Storie analoghe, tutte calate nel presente più fosco, scrivono in altre parti d’Italia Andrea Pinketts, Michele Serio, Sandrone Dazieri, un poliziotto come Piergiorgio Di Cara, tantissimi altri. Andrea Cammilleri, che peraltro resta apparentemente legato al giallo, diventa un caso letterario nazionale. Tuttavia il fenomeno forse più significativo è che anche autori non confinabili entro etichette di genere, quali Niccolò Ammaniti, Simona Vinci e il collettivo Wu Ming, prendano a prestito dal noir alcuni dei suoi strumenti. E’ la conferma che, anche in Italia, il noir ha vinto.
Nel nome di niente
Preso atto di ciò, conviene ripigliare in mano le fila iniziali del discorso. Norme comunemente accettate sono venute meno, e a esse se ne sono sostituite altre confuse o di difficile decifrazione. Era relativamente semplice capire perché l’IRA piazzava una bomba in un pub di Belfast, o perché le BR (quelle “storiche”) assassinavano un poliziotto o un uomo politico. A ogni atto seguivano comunicati, giustificazioni sociali o geopolitiche tendenti ad attenuare l’aberrazione del delitto, confutazioni di interpretazioni sbagliate, richiami alla fase storica. Tale materiale era spesso definito “delirante”, ma il delirio vero doveva in realtà ancora cominciare.
E’ iniziato quando si sono colpiti innocenti a centinaia, addirittura a migliaia, adducendo ragioni tanto concise quanto forsennate: la lettura arcaica di una religione, la vendetta per un sopruso storico dai contorni imprecisi, la resurrezione di fratture etniche o tribali dimenticate per secoli. Tornano alla mente I demoni di Dostoevskij, animati da intenzioni diverse però accomunati da un’identica volontà di distruzione, sottilmente coincidente con l’autodistruzione.
E a proposito di demoni, mentre scrivo queste righe le cronache parlano di un gruppo di giovani “satanisti” colpevoli di una serie di delitti, alcuni accertati e altri da accertare. Le pagine di diario di una delle appartenenti alla setta non si limitano a evocare la propria devozione a Satana e a Lucifero; richiamano invece, con pari reverenza, Azathoth, Cthulhu, Yog-Sothoth, i “Grandi Antichi”: gli dei immaginari che lo scrittore H.P. Lovecraft mise al centro dei propri racconti horror, traendone spesso il nome, a scopo di burla, dalla deformazione di quello di qualche amico. Dubito dunque che ci sia davvero Satana dietro il sangue versato. Temo il peggio: che non ci sia nulla.
Allora alcuni degli episodi delittuosi raccontati in questo fascicolo, i più gratuiti, i meno chiariti, andrebbero interpretati quali primi sintomi di un male a venire. In questo senso sono preziosi, e la loro rilettura non è solo utile: è urgente. Bisogna interrogarsi sul perché la schizofrenia, nel senso di perdita dell’Io nei rapporti col prossimo, stia diventando male sociale; perché in giro per il mondo esplodano conflitti sanguinosissimi di cui è quasi impossibile ricostruire razionalmente le cause; perché la malavita del “Cerutti Gino”, e persino quella ben più temibile di mafia, camorra e ndrangheta, siano messe a riposo da loro varianti che praticano il culto della ferocia e rinnegano quello del malinteso “onore”.
L’istinto egoistico prevale su quello solidale, la competizione si trasforma in sopraffazione, la convivenza pacifica si fa guerra di tutti contro tutti. E’ in questo senso che il noir ha vinto: nelle sue espressioni migliori aveva anticipato e interpretato tutto ciò. Ma non è bello quando la letteratura si fa realtà, e là realtà letteratura. Non possono essere gli scrittori, per quanto bravi siano, a indicare soluzioni. Deve essere la società civile, avvisata di ciò che accade di chi sa colpire il suo immaginario (narrativa, giornalismo, il multiforme universo dei media), a cercare di colorare se stessa in tinte diverse dal nero. Salvo trasformarsi in ricettacolo di demoni che, prima o poi, reclameranno il loro sfogo.
Da L’Europeo n. 4 2004