di Marco D’Eramo (da il manifesto del 4 novembre 2004)
I repubblicani hanno vinto Casa bianca, Senato (+ 3 senatori, così la loro maggioranza diventa di 54 a 45) e Camera dei rappresentanti (la loro maggioranza diventa di 231 a 203). Ancora più significativo, a differenza di quel che era successo nel 2000, quando Al Gore aveva perso la presidenza pur avendo vinto il voto popolare, Bush ha conquistato nettamente la maggioranza dei voti: con 58 milioni e 490.000 voti sopravanza John Kerry di 3 punti percentuali (51,1 a 48.0%) e di 3 milioni e mezzo di voti (mentre scrivo è stato scrutinato il 98,4% dei seggi).
La maggiore affluenza alle urne ha così premiato Bush: hanno votato quasi 115 milioni di statunitensi (il 60 contro il 54%), 9 milioni e passa in più della volta scorsa, ma solo 2,5 milioni di questi voti in più sono andati a Kerry, mentre 6,5 si sono riversati su Bush. La maggiore affluenza è stata determinata da due fattori distinti: dai nuovi iscritti alle liste elettorali e dai vecchi iscritti che di solito non vanno a votare e questa volta invece si sono recati ai seggi (nelle elezioni precedenti votava in media solo il 30% degli iscritti). Il vantaggio di Bush significa così che è stata più efficace la martellante campagna repubblicana presso gli integralisti cristiani, di quanto sia stata quella dei democratici verso la propria base sociale: minoranze, donne, operai, dipendenti pubblici. Ha così avuto successo la strategia di destra radicale elaborata dal consigliere della Casa bianca Karl Rove, contro quella di centrismo moderato elaborata dagli strateghi clintoniani di John Kerry. Karl Rove aveva dichiarato espressamente all’inizio della campagna che il suo scopo era portare alle urne 4 milioni di evangelici integralisti che di solito si astengono. Ha avuto successo.
In questo successo non va trascurato il senso d’insicurezza e di paura che l’amministrazione repubblicana ha di proposito inculcato nell’opinione pubblica statunitense con ripetuti «allarmi arancione» di attentati: dagli exit polls risulta che il terrorismo costituisce la questione più importante per l’85% degli elettori che hanno votato repubblicano, mentre solo per il 15 di quelli che hanno votato democratico. Mentre il rapporto si ribalta sulla guerra in Iraq: la considerano il tema più importante nel determinare il voto il 75% degli elettori democratici e solo il 24% di quelli repubblicani. E l’87% di chi ha votato democratico disapprova questa guerra che è invece approvata dall’84% dei votanti repubblicani.
I democratici pagano così il prezzo di una campagna presidenziale a lungo suicida: quando c’è duello tra un presidente uscente e uno sfidante, la campagna diventa di regola un referendum sul presidente uscente: ha governato bene o male? le sue scelte sono state giuste? Ma i democratici con la loro convention di Boston sono riusciti a trasformare queste elezioni in un referendum su John Kerry: è stato davvero un eroe? Le sue decisioni in senato sono state coerenti? È un voltagabbana o no? A Boston i democratici non hanno mai attaccato né George Bush, né Dick Cheney, né Donald Rumsfeld. Nella loro Convention newyorkese i repubblicani li hanno ripagati con sberle sonore e devastanti. E solo a ottobre Kery si è deciso a restituire qualche colpo e a spostarsi «a sinistra», anche sul tema della guerra. Da allora la rimonta è cominciata, ma era troppo tardi. Come ho constatato in Ohio l’ammirevole sforzo dei militanti e dei sindacalisti non è riuscito a pareggiare l’efficacia della macchina repubblicana. E le elezioni, come previsto, si sono giocate in Ohio.
In molte circoscrizioni Kerry ha fatto peggio dei candidati democratici. In Illinois, lo stato di Chicago, ha vinto, ma con un margine minore del candidato al senato Barack Obama che ha ottenuto uno schiacciante 72%. In Wisconsin il democratico Russ Feingold ha vinto con 11 punti di distacco, mentre Kerry si è attestato sul 49.9 contro 49,1. Risulta infatti che il 9% degli elettori democratici ha votato Bush, mentre il solo il 7% dei repubblicani ha votato Kerry. Si conferma così la maledizione che da 44 anni colpisce i candidati della presidenza che sono senatori e/o del Nord est del paese.
Da queste elezioni esce un’America ancora più spaccata in due rispetto al passato. Sempre dagli exit polls, vediamo che hanno votato più per Bush i maschi (52%), i militari ed ex militari (55%), gli anziani (51%), gli sposati (54%), i bianchi (55%) i non laureati (50%), i protestanti e cristiani (56%), i cittadini che vivono nelle aree rurali (53%). Mentre l’America che ha votato per Kerry è costituita più da donne (54%), giovani (55%), neri (90%), ispanici (56%), asiatici (61%), le famiglie a reddito medio-basso, sotto i 50.000 dollari annui (58%), coloro che vivono in città di più di 50.000 abitanti (58%), i sindacalizzati (61%).
Esce così sconfitta da queste elezioni l’altra America, quella delle donne, dei giovani, dei neri, dei dipendenti, delle minoranze. Un’America che ha appoggiato Kerry, ma non abbastanza da farlo vincere, perché non è stata motivata a sufficienza. Il più importante messaggio politico trasmesso dal voto è perciò che nelle elezioni moderne, in un sistema bipolare, è più importante motivare l’afflusso alle urne della propria base estrema, del proprio zoccolo duro, piuttosto che andare a pesca di improbabili voti centristi, moderati, indecisi. Che il centro lo si conquista radicalizzando il proprio messaggio, non annacquandolo e sciapendolo.