di Slavoj Zizek
[da il Manifesto del 7 ottobre 2004]
Lo spettacolo enigmatico di un suicidio collettivo su larga scala è sempre affascinate – pensiamo alle centinaia di seguaci del culto di Jim Jones che presero obbedienti il veleno nel loro campo nella Guyana. A livello della vita economica, la stessa cosa sta avvenendo oggi in Kansas – e questo è il tema del nuovo, eccellente libro di Thomas Frank What’s the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America ( New York, Metropolitan Books).
La semplicità del suo stile non deve impedirci di vedere la sua analisi politica affilata come un rasoio. Concentrando la sua attenzione sul Kansas, la culla della rivolta populista conservatrice, Frank descrive opportunamente il paradosso fondamentale del suo edificio ideologico: il gap, la mancanza di qualunque collegamento cognitivo, tra gli interessi economici e le questioni «morali». Se c’è mai stato un libro che chiunque sia interessato alle strane torsioni della politica conservatrice di oggi dovrebbe leggere, questo è What’s the Matter with Kansas?.
Cosa succede quando l’opposizione di classe su base economica (agricoltori poveri, operai versus avvocati, banchieri, grosse società) è trasposta/codificata nell’opposizione di onesti lavoratori cristiani e veri americani versus i liberali decadenti che bevono latte (in italiano nel testo, ndt) e guidano automobili straniere, difendono l’aborto e l’omosessualità, si fanno beffe del sacrificio patriottico e di uno stile di vita semplice e «provinciale»? Il nemico è percepito come il liberal che, attraverso gli interventi federali (dagli scuola-bus fino a ordinare che vengano insegnate l’evoluzionismo darwiniano e le pratiche sessuali perverse), vuole minare uno stile di vita autenticamente americano. Il principale interesse economico è perciò quello di liberarsi dallo stato forte che tassa la popolazione che lavora sodo, per finanziare i suoi interventi regolatori: il programma economico minimo è così «meno tasse, meno regole»…
Attacchi evangelici
Dalla prospettiva standard di una ricerca illuminata e razionale di interessi personali, l’incongruità di questa posizione ideologica è evidente: i conservatori populisti stanno letteralmente votandosi alla rovina economica. Meno tasse e deregulation significa più libertà per le grandi società che stanno tagliando fuori dal mercato gli agricoltori impoveriti; meno interventi statali significa meno aiuti federali ai piccoli agricoltori; ecc… Agli occhi dei populisti evangelici americani, lo stato è una potenza aliena e, insieme all’Onu, è un agente dell’Anticristo: toglie la libertà al cristiano credente, sollevandolo dalla responsabilità morale dell’autodeterminazione, e così mina la moralità individualistica che fa di ciascuno di noi l’architetto della propria salvazione. Come combinare questo con l’inaudita esplosione degli apparati statali durante l’amministrazione Bush?
Nessuna meraviglia che le grandi corporations siano ben felici di accettare questi attacchi evangelici allo stato, se lo stato cerca di regolare le concentrazioni mediatiche, di imporre restrizioni alle compagnie energetiche, di rafforzare le regole sull’inquinamento atmosferico, di proteggere la natura, di limitare il taglio di alberi nei parchi nazionali, ecc. È un’estrema ironia della storia che un radicale individualismo serva come la giustificazione ideologica al potere senza costrizioni di ciò che la stragrande maggioranza delle persone percepisce come un grande potere anonimo che, senza alcun controllo pubblico democratico, regola la loro vita.
Per quanto riguarda poi l’aspetto ideologico della loro lotta, Thomas Frank afferma un’ovvietà che, nondimeno, va affermata: i populisti stanno combattendo una guerra che non può essere vinta. Se i repubblicani dovessero effettivamente vietare l’aborto, se dovessero proibire l’insegnamento dell’evoluzione, se riuscissero a imporre una regolamentazione federale a Hollywood e alla cultura di massa, questo significherebbe non solo la loro immediata sconfitta ideologica, ma anche una depressione economica su larga scala negli Stati Uniti. L’esito è dunque una debilitante simbiosi: anche se è in disaccordo con l’agenda morale populista, la classe dirigente tollera questa «guerra morale» come mezzo per controllare le classi inferiori, ossia per consentire a queste ultime di esprimere la propria rabbia senza disturbare i loro interessi economici. Ciò significa che la guerra culturale è una guerra di classe, ma con uno spostamento di piano – a dispetto di coloro che sostengono che viviamo ormai in una società senza più classi…
Questo, comunque, non fa che rendere l’enigma più impenetrabile: come è possibile questo spostamento? La risposta non sta nella «stupidità» e nella «manipolazione ideologica»; evidentemente, non basta dire che le primitive classi inferiori subiscono il lavaggio del cervello degli apparati ideologici, e quindi non sono in grado di identificare i loro veri interessi. Quantomeno, dovremmo ricordare come, decenni fa, lo stesso Kansas fu la culla di un populismo progressista negli Usa – e la gente certamente non è diventata più stupida negli ultimi decenni. Non basta nemmeno proporre la «soluzione Laclau»: non c’è un collegamento «naturale» tra una data posizione socio-economica e l’ideologia che l’accompagna, per cui non ha senso parlare di «inganno» e di «falsa coscienza», come se esistesse uno standard di «appropriata» consapevolezza ideologica inscritta nella stessa situazione socio-economica «oggettiva»; ogni edificio ideologico è l’esito di una lotta egemonica per stabilire/imporre una catena di equivalenze, una lotta il cui esito è del tutto contingente, non garantito da qualsiasi riferimento esterno come la «posizione socio-economica oggettiva».
La prima cosa da notare qui è che bisogna essere in due per combattere una guerra culturale: la cultura è anche l’argomento ideologico dominante dei liberal «illuminati» la cui politica è incentrata sulla lotta contro il sessismo, il razzismo e il fondamentalismo, e per la tolleranza multiculturale. La questione chiave è dunque: perché la «cultura» sta emergendo come la nostra categoria centrale sulla vita e sul mondo? Noi non crediamo più «veramente», ci limitiamo a seguire (alcuni dei) rituali e costumi religiosi in segno di rispetto per lo «stile di vita» della comunità a cui apparteniamo (ebrei non credenti che obbediscono alle regole kosher «per rispetto della tradizione», ecc.). «Non ci credo davvero, semplicemente fa parte della mia cultura» sembra essere in effetti la modalità predominante della fede abbandonata/dislocata caratteristica dei nostri tempi: anche se non crediamo a Babbo Natale, nel mese di dicembre c’è un albero di Natale in ogni casa e persino nei luoghi pubblici – «cultura» è il nome di tutte quelle cose che facciamo senza crederci veramente, senza «prenderle sul serio».
La seconda cosa da notare è come, mentre professano la loro solidarietà con i poveri, i liberal codificano una cultura di guerra con un opposto messaggio di classe: spesse volte, la loro battaglia per la tolleranza multiculturale e per i diritti delle donne segna la posizione opposta nei confronti dell’intolleranza, del fondamentalismo e del sessismo patriarcale di cui vengono accusate le «classi inferiori». Il loro modo di venire a capo di questa confusione è metter a fuoco dei termini di mediazione la cui funzione è offuscare le vere linee di divisione. Qui il modo in cui viene usata la «modernizzazione» nella recente offensiva ideologica è esemplare: dapprima viene costruita un’opposizione astratta tra i «modernizzatori» (coloro che sottoscrivono il capitalismo globale in tutti i suoi aspetti, da quelli economici a quelli culturali) e i «tradizionalisti» (coloro che resistono alla globalizzazione). in questa categoria di coloro-che-resistono vengono poi inclusi tutti, dai conservatori tradizionalisti e la destra populista alla Old Left (coloro che continuano a difendere il welfare state, i sindacati…).
Questa categorizzazione comprende ovviamente un aspetto della realtà sociale – pensiamo alla coalizione della chiesa e dei sindacati che in Germania, all’inizio del 2003, ha impedito la legalizzazione dell’apertura domenicale dei negozi. Comunque, non basta dire che questa «differenza culturale» attraversa l’intero terreno sociale, tagliando strati e classi differenti; non basta dire che questa opposizione può essere combinata in modi diversi con altre opposizioni (per cui possiamo avere una resistenza conservatrice basata sui «valori tradizionali» alla «modernizzazione» globale capitalistica, oppure i conservatori in campo morale che sottoscrivono in pieno la globalizzazione capitalistica).
Il fatto che la «modernizzazione» non abbia funzionato come la chiave per la totalità sociale significa che questa è una nozione universale «astratta», e la scommessa del marxismo è che c’è un solo antagonismo («lotta di classe») che «sovra-determina» tutti gli altri e serve così da «universale concreto» dell’intero terreno. La lotta femminista può trovare espressione agganciandosi alla lotta per l’emancipazione sociale delle classi inferiori, oppure può funzionare (e certamente funziona) come strumento ideologico con cui le classi medio-alte asseriscono la loro superiorità sulle classi inferiori «patriarcali e intolleranti»; e qui l’antagonismo di classe è come se fosse «inscritto doppiamente»: è la specifica costellazione della lotta di classe stessa che spiega perché le classi superiori si sono appropriate della battaglia femminista. (Lo stesso vale per il razzismo: è la dinamica stessa della lotta di classe che spiega perché il razzismo diretto è forte tra i lavoratori bianchi delle classi inferiori).
La terza cosa di cui prendere nota è la fondamentale differenza tra la lotta femminista/antirazzista/antisessista e la lotta di classe: nel primo caso, l’obiettivo è tradurre l’antagonismo in differenza (coesistenza «pacifica» dei sessi, delle religioni, dei gruppi etnici), mentre l’obiettivo della lotta di classe è precisamente l’opposto, cioè «radicalizzare» la differenza di classe trasformandola in antagonismo di classe. Perciò la serie razza-genere-classe offusca la diversa logica dello spazio politico nel caso della classe: mentre la battaglia antirazzista e quella antisessista sono guidate dalla ricerca del pieno riconoscimento dell’altro, la lotta di classe mira a vincere e sottomettere, e persino ad annientare, l’altro. Anche se non si tratta di un annientamento fisico diretto, la lotta di classe tende all’annientamento del ruolo e della funzione socio-politica dell’altro. In altre parole, anche se è logico dire che l’antirazzismo vuole che a tutte le razze sia consentito di affermare e dispiegare liberamente le loro battaglie culturali, politiche ed economiche, non ha evidentemente significato dire che lo scopo della lotta del proletariato è consentire alla borghesia di asserire in pieno la sua identità e le sue battaglie… In un caso abbiamo una logica «orizzontale» del riconoscimento di identità differenti, mentre, nell’altro caso, abbiamo la logica della battaglia con un antagonista.
Qui, paradossalmente, è il fondamentalismo populista a conservare questa logica dell’antagonismo, mentre la sinistra liberal segue la logica del riconoscimento delle differenze, del «neutralizzare» gli antagonismi facendo coesistere le differenze: nella loro stessa forma, le campagne della base conservativa e populista hanno fatto propria la vecchia posizione della sinistra radicale della mobilitazione e della lotta contro lo sfruttamento delle classi alte. Questo inaspettato rovesciamento è soltanto uno di una lunga serie.
Negli Stati uniti di oggi, i ruoli tradizionali dei democratici e dei repubblicani sono quasi invertiti: i repubblicani spendono soldi statali, generando così un debito pubblico record, costruendo de facto un forte stato federale, e perseguono una politica di interventismo globale, mentre i democratici perseguono una severa politica fiscale che, durante l’amministrazione Clinton, ha abolito il debito pubblico. Anche nella delicata sfera della politica socio-economica, i democratici (lo stesso vale per Blair in Gran Bretagna) di regola attuano l’agenda neoliberista che prevede l’abolizione del welfare state, la riduzione delle tasse, le privatizzazioni, mentre Bush ha proposto una misura radicale consiste nel legalizzare lo status dei milioni di lavoratori clandestini messicani e ha reso l’assistenza sanitaria molto più accessibile ai pensionati. Il caso estremo è quello dei gruppi survivalisti nell’Ovest degli Usa: anche se il loro messaggio ideologico è quello del razzismo religioso, il loro intero modo di organizzazione (piccoli gruppi illegali che combattono contro l’Fbi e altre agenzie federali) li rende un doppio inquietante delle Pantere Nere degli anni `60.
Dunque, noi dobbiamo non solo rifiutare il facile disprezzo liberal nei confronti dei fondamentalisti populisti (o, ancor peggio, il rammarico paternalistico su quanto sono «manipolati»); dobbiamo rifiutare i termini stessi della guerra culturale. Anche se, naturalmente, per quanto riguarda il contenuto concreto di gran parte delle questioni dibattute, un rappresentante della sinistra radicale deve sostenere la posizione liberal (per l’aborto, contro il razzismo e l’omofobia), non bisogna mai dimenticare che, nel lungo periodo, è il fondamentalista populista, non il liberal, il nostro alleato. Con tutta la loro rabbia, i populisti non sono abbastanza arrabbiati – non sono abbastanza radicali da percepire il collegamento tra il capitalismo e la decadenza morale che essi deplorano. Pensiamo allo scellerato lamento di Robert Bork sulla nostra «inclinazione verso Gomorra»: «L’industria dell’intrattenimento non sta imponendo la depravazione su un pubblico americano riluttante. La domanda di decadenza è lì. Questo fatto non scusa coloro che vendono materiale così degradato più di quanto la domanda di crack non scusi lo spacciatore. Ma dobbiamo ricordarci che il torto è in noi stessi, nella natura umana non costretta da forze esterne».
Su che cosa, esattamente, si fonda dunque questa domanda? Qui Bork mette in scena il suo corto circuito ideologico: invece di puntare il dito verso la logica del capitalismo stesso che, per sostenere la sua espansione, deve creare domande sempre nuove, e ammettendo così che, nel combattere la «decadenza» consumistica, sta combattendo una tendenza che insiste sul cuore stesso del capitalismo, egli si riferisce direttamente alla «natura umana» che, lasciata a se stessa, finisce per volere la depravazione, e richiede perciò un controllo e una censura costanti: «L’idea che gli uomini siano creature naturalmente razionali e morali senza bisogno di forti limitazioni esterne è saltata con l’esperienza. Esiste un mercato crescente bramoso di depravazione, e industrie lucrose dedite a fornirla».
Inversione liberal
Un simile punto di vista, comunque, rappresenta una difficoltà per i guerrieri della crociata «morale» contro il comunismo, dato che i regimi comunisti dell’Europa dell’est sono stati rovesciati dai tre grandi antagonisti del conservatorismo: la cultura giovanile, gli intellettuali della generazione degli anni `60, e i lavoratori che hanno continuato a credere nella solidarietà contro l’individualismo. Questo spettro ritorna in Bork: a una conferenza, egli «ha fatto riferimento, in tono di disapprovazione, alla performance di Michael Jackson che al Super Bowl si afferrò il cavallo dei pantaloni. Un altro oratore mi ha aspramente informato che è stato proprio il desiderio di poter assistere a simili manifestazioni della cultura americana ad aver fatto cadere il muro di Berlino. Questa argomentazione appare buona tanto quanto qualsiasi altra per innalzare il muro di nuovo». Anche se Bork è consapevole della paradossalità della situazione, è evidente che egli non ne vede l’aspetto più profondo.
Pensiamo alla definizione di Jacques Lacan della comunicazione riuscita: io riprendo dall’altro il mio messaggio nella sua forma (vera) invertita. Non è questo ciò che sta accadendo oggi ai liberal? Non stanno forse riprendendo dai populisti conservatori il loro stesso messaggio nella sua forma invertita/vera? In altre parole, i populisti conservatori non sono il sintomo dei liberal illuminati tolleranti?
L’inquietante e ridicolo redneck del Kansas che sbotta infuriato contro la corruzione liberal non è la stessa figura nella cui guisa il liberal incontra la verità della sua stessa ipocrisia? Dunque, noi dovremmo (per citare la canzone più famosa sul Kansas, da Il mago di Oz) andare oltre l’arcobaleno – oltre la «coalizione arcobaleno» delle battaglie sulle singole questioni, prediletta dai liberal radicali – e avere il coraggio di cercare un alleato in colui che appare come il nemico estremo del liberalismo tollerante.
Traduzione Marina Impallomeni