di Fabrizio Tonello
Per capire come mai il protagonista comico dell’ultimo film di Michael Moore sia stato rieletto presidente occorre, tra le altre cose, interrogarsi sui meccanismi di voto. A questo fine riportiamo alcuni stralci dell’articolo di Fabrizio Tonello apparso sul n. 55 de La Rivista del manifesto attualmente in edicola (e presto in libreria). L’articolo era precedente alle elezioni e non poteva prevedere alcuni dati: per esempio, che il numero degli elettori americani abbia, per la prima volta, superato di un poco la metà degli aventi diritto.
Questo numero della Rivista del manifesto si raccomanda anche per altri articoli. Segnaliamo, tra gli altri, lo splendido saggio di Susan Warkins sul governo Allawi, e l’intervento di Maurizio Matteuzzi su Lula e il Brasile.
Le elezioni americane saranno già avvenute, quando questo numero della «rivista» giungerà in edicola, ma anche senza conoscere i risultati si può azzardare qualche considerazione sullo stato di salute della democrazia americana. Prima di tutto la partecipazione: i due partiti hanno fatto sforzi enormi per convincere i potenziali elettori a recarsi alle urne, ma circa metà degli americani rinuncia volentieri al diritto di recarsi al seggio e, in generale, sembra interessata solo marginalmente al processo democratico, anche in elezioni definite ‘storielle’ come quelle del 2 novembre 2004.
Ci sono varie ragioni per questo comportamento, alcune del tutto pratiche: registrarsi come elettore non è automatico e, in molti Stati, dev’essere fatto un certo numero di mesi prima delle elezioni, al contrario dell’Europa dove il certificato elettorale arriva a casa quasi ovunque. Non solo: si vota di martedì, in una giornata che non è festiva, e a volte si devono fare lunghe code per votare, soprattutto se si va al seggio dopo il lavoro.
Tutto questo non è però sufficiente per spiegare la disaffezione degli americani verso la loro democrazia, disaffezione che ha concretissime ragioni: grazie alla combinazione di federalismo e sistema maggioritario si sa prima chi vince. Al contrario di quanto dicevano le televisioni e i giornali sulla suspense del 2 novembre, il risultato del voto (almeno per il Congresso) era perfettamente prevedibile e previsto. Non solo: in 40 Stati su 50 si conosceva con largo anticipo anche il risultato delle presidenziali. Poiché gran parte degli americani sono perfettamente coscienti di questa realtà, andare a votare è visto da molti di loro come un esercizio inutile.
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Questo meccanismo ‘federalista cumula quindi almeno tre difetti: permette la vittoria di un candidato che ha ottenuto meno voti del suo avversario, come avvenne nel 2000 con Bush, distorce la rappresentanza a favore degli Stati piccoli o rurali, ma soprattutto deprime il tasso di partecipazione al voto. Che incentivo ha, infatti, un elettore repubblicano ad andare a votare a New York, dove sa che il 60% circa voterà per Kerry? E un sostenitore dei democratici in Wyoming, a meno che non sia veramente eroico, perché dovrebbe fare molti chilometri per recarsi a un seggio dove oltre il 60% dei suoi compaesani voterebbe anche per un alce, se questo avesse una coperta con scritto Republican?
Quello fondato sul collegio elettorale è un sistema pessimo, che risale a un compromesso in sede di Convenzione costituzionale a Filadelfia, nel 1787: per convincere i piccoli Stati a ratificare la Costituzione si decise che il voto per il presidente sarebbe avvenuto in un collegio ad hoc, composto di tanti rappresentanti di ciascuno Stato quanti erano i deputati e i senatori di quello Stato insieme. Gli Stati sarebbero stati liberi di decidere come volevano nominare, o eleggere, questi delegati.
Due secoli e mezzo dopo, il risultato è una distorsione della rappresentanza a favore degli stati poco popolati. Le mappe colorate che i giornali pubblicano dopo ogni tornata elettorale mostrano un continente repubblicano (tutto il Sud e l’Ovest degli Stati Uniti, fino alle Montagne rocciose) con alcune roccaforti democratiche sulle due coste (California e New England). Gli Stati Uniti hanno 3.111 contee e nel 2000 George W. Bush prevalse in 2.434. Al Gore ottenne una maggioranza di voti in 677 contee. Gore ebbe 539.898 voti popolari in più, ma fu ugualmente sconfitto nel collegio elettorale (supponendo che i risultati della Florida fossero regolari), perché i repubblicani traggono vantaggio dal loro dominio negli Stati delle grandi praterie e delle Montagne Rocciose.
Il confronto fra le tabelle qui sopra ci mostra come circa 5,7 milioni di elettori di Gore abbiano prodotto 43 voti elettorali, mentre 5,2 milioni di voti di Bush si siano trasformati in 61 voti elettorali. Un vantaggio di 14 voti elettorali, assai superiore a quello con cui il candidato repubblicano si è imposto diventando presidente nel 2000 (271 voti elettorali contro 267 a Gore).
Già nel 1978, il Twentieth Century Fund, un centro studi di New York, si era preoccupato della possibilità che il collegio elettorale distorcesse la volontà popolare, proponendo un Rapporto che ipotizzava alcune riforme che avrebbero potuto impedire per il futuro quanto era successo nel 1876 e nel 1888, cioè l’elezione di presidenti che avevano ricevuto meno voti dei loro avversari. Allora, sembrava impensabile che un’elezione potesse giocarsi sul filo di poche centinaia di schede in un singolo Stato, come la Florida, e invece è accaduto. Come si è detto, alla vigilia del voto c’erano non uno, ma almeno dieci Stati dove occorreva contare fino all’ultima scheda in presenza di osservatori internazionali per accertare il vincitore.
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L’illustrazione è tratta dal sito www.madeyouthink.org.