di Paolo Chiocchetti
1. Il nuovo presidente americano è Gorge W. Bush. A differenza del 2000 questa volta il suo successo è chiaro e schiacciante. Nonostante la massiccia affluenza alle urne che secondo le speranze della vigilia avrebbe dovuto favorire i democratici, nel voto popolare Bush sopravanza il rivale Kerry di ben 3,5 milioni di voti (quando la scorsa volta ne aveva presi mezzo milioni in meno di Al Gore). Nel conteggio dei grandi elettori la vittoria è più sfumata e l’orientamento dei singoli stati si mantiene pressoché inalterato, ma Bush conquista nettamente la Florida e il conteggio in Ohio sembra lasciare un discreto margine di sicurezza.
Il suo partito rafforza la propria maggioranza sia alla camera che al senato. Infine, i referendum promossi in 11 stati per mettere al bando i matrimoni gay passano a grande margine (favorendo non poco l’alto voto cristiano a favore di Bush), sottolineando ulteriormente la scioccante sintonia dell’ideologia conservatrice con le pulsioni profonde degli elettori. Certo i repubblicani si sono ‘dati una mano’, con una gestione allegra delle liste elettorali e un ridisegnamento delle circoscrizioni texane che ha favorito alcuni successi al senato. Ma la vittoria è indubbia. E avviene in presenza di una mobilizzazione senza precedenti della sinistra in favore di Kerry, della sistematica ostruzione e intimidazione dei candidati minori progressisti, di una base di partenza finanziaria e mediatica non troppo squilibrata, e soprattutto di un bilancio del presidente pieno di ombre: un’economia in difficoltà, caduta per ben due volte in recessione e per il momento incapace di creare nuovi posti di lavoro; il palese fallimento dell’avventura irachena, con un’opinione pubblica avversa e uno stillicidio di morti americani; i continui scandali e critiche di alto livello intorno ai temi delle armi di distruzione di massa, delle motivazioni della guerra, della gestione dell’11 settembre, dei conflitti di interesse di Cheney verso l’Halliburton…
E’ una vittoria sulla quale bisogna riflettere attentamente.
2. Col senno di poi, la campagna Anybody But Bush si è rivelata un completo fallimento.
Le organizzazioni progressiste hanno rinunciato programmaticamente ad introdurre nel dibattito politico posizioni coraggiose sui temi economici, di politica estera, dei diritti civili e del conflitto sociale. La confederazione sindacale AFL-CIO ha boicottato la Million Workers March, organizzata da gruppi di militanti sindacali per portare alla ribalta il drammatico declino delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati americani, impugnando come giustificazione la priorità del finanziamento e dell’impegno militante al fianco di Kerry. I pacifisti del Partito Democratico hanno acconsentito a non sollevare la questione del ritiro dall’Iraq nella loro convention, dominata dalla retorica bellicista sul suo passato di veterano, e chi ha provato ad indossare spille o ad innalzare cartelli inneggianti alla pace è stato rudemente e senza clamore rimosso dalla platea. The Nation, la più prestigiosa rivista liberal statunitense, si è persino spinta ad implorare il movimento contro la guerra ad annullare la manifestazione di protesta contro la convention nazionale repubblicana, nella paura che eventuali incidenti danneggiassero la corsa del candidato di Boston. Il Partito Verde ha deciso di rendersi invisibile, a costo di perdere l’accesso futuro alle schede elettorali in molti stati e mettere una forte ipoteca sul proprio progetto politico complessivo, mentre decine di importanti ex-sostenitori di Nader nel 2000 hanno invitato con forza a votare per il male minore negli stati in bilico (senza peraltro dare un’aperta indicazione in senso contrario negli stati sicuri). Infine, i progressisti hanno accettato senza fiatare il lungo rosario di dichiarazioni scioviniste e conservatrici del loro candidato, sforzandosi di passarle sotto silenzio, di minimizzarle o di giustificarle con gli imperativi della campagna elettorale.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. I democratici hanno potuto condurre la loro campagna elettorale nella più completa indifferenza verso rivendicazioni progressiste largamente diffuse come il ritiro dall’Iraq o l’assicurazione sanitaria per tutti. Il dibattito politico è stato confinato a contorti distinguo e sfumature e alla delegittimazione personale. Il voto di Nader e degli altri candidati di sinistra è crollato sotto l’1%. E tuttavia… Kerry ha preso una sonora batosta. Contrariamente alle assicurazioni della vigilia, mai voto avrebbe potuto essere più sprecato.
3. I conservatori dispongono ormai di una consolidata egemonia politico-culturale nel paese, che data fino dalla vittoria di Reagan nelle elezioni del 1980. Gli otto anni della presidenza Clinton ci appaiono quasi un intermezzo eccezionale, dovuto alla felice concomitanza di fattori favorevoli (il successo del candidato indipendente Ross Perot nel 1992 tra gli elettori repubblicani, il carisma personale di Clinton, la congiuntura economica internazionale) ed in ogni caso profondamente condizionati dalla forza della contro-rivoluzione conservatrice (in quanto già nel 1994 i repubblicani riconquistano il controllo della camera, e in quanto si collocano oggettivamente su una linea di continuità con le politiche dell’amministrazione Bush sr.).
L’ideologia conservatrice è di fatto riuscita ad imporre al paese il proprio ordine del discorso e a costringere i propri avversari ad inseguire, sia il tema quello della libertà d’impresa e del capitale, quello della necessità del recupero dell’etica protestante del lavoro e della responsabilità individuale contro i ‘danni’ dell’assistenzialismo statale, quello della lotta spietata al crimine, alla droga e alle ‘classi pericolose’, o quello del recupero dei valori tradizionali di patria, famiglia e religione contro i movimenti emancipatori degli anni settanta.
Tutto questo a dispetto delle forti contraddizioni interne, ad esempio tra un certo solidarismo delle comunità religiose e rurali e il liberismo sfrenato, o tra l’odio verso il governo federale e l’enorme espansione delle dimensioni e dei poteri delle agenzie di sicurezza, o ancora tra il rigorismo fiscale e l’enorme deficit aperto da Bush. E a dispetto delle devastanti conseguenze delle politiche elitiste di Bush sulle condizioni economiche e di vita di lavoratori, poveri, contadini, settori di classe media e di piccola borghesia (come sui diritti di donne e omosessuali).
4. Il paradosso di una fetta consistente se non maggioritaria dell’elettorato popolare schierato con il Partito Repubblicano (in particolare negli stati ‘rurali’ del sud e del mid-west) in contrasto con i propri presunti interessi materiali, in nome di battaglie culturali a difesa dei valori tradizionali e dell’ostilità verso un Partito Democratico percepito come il rappresentante di una elite fredda, condiscendente e moralmente sovversiva, è stato illustrato diffusamente anche in Italia. Il Manifesto ha ospitato qualche settimana fa una strepitosa recensione del filosofo Slavoj Zizek sul saggio di Thomas Frank What’s the Matter with Kansas? How Conservatives Won the Heart of America e alcuni interessanti interventi sul tema. E’ altresì chiaro come questo non sia affatto un fenomeno solo americano, bensì l’espressione particolare di un meccanismo politico dalla lunga storia (es. le elezioni francesi del 1848) e sempre più apparente nel mondo contemporaneo (es. la struttura del voto israeliano fin dal 1977 o la montata nell’ultima decade in Europa di movimenti populisti di destra).
Perché gli strati sociali più sfruttati o emarginati votano spesso non già secondo criteri di interesse socio-economico, bensì in base a considerazioni morali e di valore? L’ipotesi di Zizek, scomoda e provocatoria, mi sembra costituire un valido punto di partenza per la riflessione e verrà ripubblicata domani su queste pagine. Non basta fare appello alle semplici categorie di ‘stupidità’ o ‘manipolazione’: bisogna scavare molto più a fondo.
In ogni caso è qui, nel cuore nero dell’America profonda (o di qualsiasi altro paese), che sta nascosto il segreto delle vittorie elettorali e dell’egemonia ideologica dei conservatori, e il grimaldello per una possibile riscossa progressista.
5. E’ estremamente dubbio, tuttavia, che tale riscossa possa prendere le mosse sotto l’iniziativa o l’ombrello di grandi organizzazioni del centro liberale come il Partito Democratico. Esso ha ormai ripetutamente fatto intendere di non essere altro che il contraltare dei conservatori, depurati dei loro aspetti più rozzi e fanatici (ovvero esattamente i loro aspetti più ‘populisti’). Si è rivelato ostile all’avvio di qualsiasi battaglia di lungo periodo per sfidare l’egemonia culturale conservatrice, preferendovi un lento e costante adattamento. Si è dimostrato incapace di dare una risposta qualsiasi al malcontento maldiretto dei ceti popolari, oscillando tra un malcelato disprezzo e un poco credibile corteggiamento sui temi della paura (del terrorismo, del crimine, dell’anticonformismo) e della tradizione (famiglia e religione). Infine, ha dato prova di essere strutturalmente perdente anche sul piano elettorale.
Forse la strada da prendere è un’altra. Forse bisogna cominciare a reclamare con forza un’alternativa di società contrapposta alle varianti neo-liberali o neo-conservatrici del sistema capitalistico. E forse bisogna provare ad intercettare l’insicurezza e la rabbia delle classi subalterne, oggi diretta contro i facili capri espiatori dell’immigrato, del terrorista, del criminale e dell’anticonformista, e aprirla a prospettive diverse.