Sugli autori italiani di genere non sono abituato a sbilanciarmi, però una cosa devo dirla: Sergio Altieri, in arte Alan D., ha da sempre conquistato il mio cuore di lettore di thriller. Per me è il Clancy italiano e bisognerebbe che un accorto editore decidesse di farlo emergere definitivamente come tale – non soltanto in Italia, intendo. Stimo moltissimo questo autore e riedito qui una recensione che scrissi, in tempi non sospetti, sul suo splendido L’uomo esterno, probabilmente il miglior action thriller mai scritto da un italiano e, in calce, un’intervista rilasciata da Altieri stesso al Maltese. Se inizio un romanzo di Altieri, non riesco a smettere, me lo bevo, tutto di un fiato: è una qualità talmente rara, al giorno d’oggi, che devo immensa gratitudine a questo autore schivo e appassionante, che mi incanta mentre aspetto sempre sulla riva del fiume il passaggio del cadavere di quel genere fintopolitico, ridicolmente noioso e pseudonero che certuni italiani tentano di pompare con adrenalina anche in fase postmortem (sul fiume, galleggeranno prima o poi pure loro). Alan, in realtà, si chiama Sergio, e oltre a essere un grande del thriller nostrano fa il traduttore di testi di genere e lo sceneggiatore. Se il genere thrilling in Italia ha una sua dignità, lo si deve soprattutto a questo ingegnere milanese, che andrebbe celebrato con immenso affetto. Qui posso limitarmi solo a poco: grazie, Alan D.!
“L’UOMO ESTERNO” DI ALAN D. ALTIERI
di Giuseppe Genna
Si offende Alan D. Altieri se dico che non sa scrivere? Si offende se dico che non importa più nulla se uno non sa scrivere? Secondo me, Stephen King scrive malissimo, ma probabilmente è il maestro della nostra attuale letteratura, uno dei pochi nomi che si salveranno dallo tsunami di oblio che si abbatterà prima o poi su questa perniciosa, saccente epoca di pura decadenza. E dire che Altieri non è nemmeno King, anche se recentemente ha avuto l’onore di essere ricordato da Enzo Siciliano nel Meridiano Mondadori dedicato ai racconti del Novecento (è sempre onorevole essere ricordati da uno che si chiama Enzo Siciliano). Ma non servono i Vecchi Argomenti per valutare i libri di Alan D. Altieri: servono i Nuovi Lettori e, almeno qui in Italia, non è che abbondino.
Però è sicuro che non passerà inosservato questo splendido L’uomo esterno, il capostipite dell’action thrilling globale made in Italy. Scritto malissimo e senza accortezza linguistica, questo libro porta con sé un vento potente che straccia ogni vela di ogni navicella mentale. La suspence a cui espone la struttura a plot intrecciati di Altieri è a dir poco prodigiosa. Un incantamento così non lo si attraversa con facilità, al giorno d’oggi. A incrementare l’effetto di portento causato da questa rapidissima, fluida e paranoide lettura, c’è un elemento che probabilmente gli stileuti dell’Accademia definirebbero extraletterario, e che invece è l’elemento più letterario della tradizione narrativa: è il colpo allo sterno che ci si attende e che inevitabilmente impatta su di noi, in modi che non avevamo previsto. E dire che Altieri non compie nemmeno l’operazione che è attualmente à la page: quella di contaminare i generi, di uscire e rientrare dalle case delle più diverse e improbabili letterature. No: questo è un thriller puro e (mi perdoni nuovamente, Signora mia) un thriller con le contropalle.
La trama. Chi è l’uomo esterno, che la mafia globale (in vista di attualissime nozze tra le sue componenti italiana ed ebrea) assolda e invia a Milano per uccidere un supertestimone accusato a sua volta di plurimi omicidi? Nell'”Eresia” di cui questo ex soldato speciale della US Army, probabilmente, si nasconde ben più di quanto possiamo immaginare. E al nocciolo di quell’eresia non arriverà nemmeno Andrea Calarno, incazzatissimo e disincantato boss della Squadra Omicidi milanese, sempre alle prese col doppiogiochismo della magistratura, un personaggio fortunatamente monolivellato, una figurina credibile, efficace, senza tanti vezzi da eroe noir anni Cinquanta.
La competenza tecnica di Alan D. Altieri è indiscutibile. La sua bravura nell’organizzare una struttura narrativa perfetta e coinvolgente è altrettanto indiscutibile. Però ciò che più conta è la sua capacità nell’immettere in un flusso indefinito e trascinante di lucida trasognatezza, che colpisce come un fendente di sciabola alla giugulare e fa stillare fiotti di sangue – sulla pagina e fuori. Una passione violenta, che strappa l’attenzione dal corpo e la calamita a colpi di parole irregolari e di storie perfettamente incastrate: impressionante disposizione di idee e strategie, che equivale all’irreprensibile freddezza con cui l’ultra-killer di Altieri colpisce al cuore la capitale immorale del nostro Paese.
Bravo Altieri: davvero, complimenti. Non ce ne frega nulla se non nascondi endecasillabi tra le fitte pagine di un thriller. La verità è che non ci sono molti libri italiani in grado di competere con la potenza affabulatrice della televisione. L’uomo esterno riesce in questa impresa. È davvero un risultato importante, per tutti noi.
Alan D. Altieri – L’uomo esterno – Corbaccio – 15 euro
INTERVISTA AD ALAN D. ALTIERI
di Roberto Rivetti
[da Maltese narrazioni]
Sei uno dei pochi scrittori di azione italiano e sei vissuto a lungo in America. Tra queste due cose ci sono dei legami o è solo una casualità?
Ammetto che il mio spostamento negli Stati Uniti fu un evento non necessariamente casuale ma di certo estremamente inaspettato.
In realtà, nel 1983 (anno in cui si verificò lo spostamento), avevo già al mio attivo tre romanzi (Città Oscura, Alla Fine della Notte, L’Occhio Sotterraneo), tutti di ambientazione extra-italiana, che di certo possono essere qualificati come romanzi d’azione.
Il mio primissimo editore, il grande Andrea Dall’Oglio inviò a Dino de Laurentiis Città Oscura. Dino, all’epoca di base a New York, trovò che l’autore avesse qualcosa da comunicare e mi fece la classica offerta che non si può rifiutare.»
In questo modo inaspettato, mi ritrovai nell’Olimpo della narrativa e del cinema d’azione, ma anche in Italia ero già «colpevole» in tal senso.
Più in generale che rapporti hai con l’America?
La domanda da un milione di dollari (o di euro). Il mio rapporto con l’America non può che essere un rapporto d’affetto e rispetto.
Senza però chiudere gli occhi di fronte a tutte le contraddizioni e tutte le minacce più o meno occulte intrinseche della società americana. E forse anche di tutte le altre società e/o consorzi umani.
Nel 1992, fui testimone oculare di Los Angeles messa a ferro e fuoco nei quattro giorni della sommossa successiva al caso Rodney King. Ero intrappolato nel libro sbagliato… e, dieci anni prima, lo avevo scritto io.
Al tempo stesso, libri d’azione o no, in questo scorcio storico ritengo che sia pressoché impossibile parlare e affrontare tematiche ad alto intrigo (più o meno internazionale) senza fare i conti con gli USA.
Il cliché è sempre lo stesso: se il disco volante atterra a Porto di Potenza Picena importa a ben pochi, se invece atterra ad Akron, Ohio, in due ore abbiamo già la Guardia Nazionale e la CNN schierate in pieno assetto di guerra.
Perché questo? Forse la risposta sta in quell’innegabile «mito americano» che, dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti è stato abilmente venduto a mezzo mondo, o anche a tutto il mondo. Per una qualche ragione, la skyline di New York (ora tragicamente mutilata) fa sempre più effetto di Place de la Concorde a Parigi.
Mito americano, sogno americano o incubo americano, ritengo che la questione sia ancora ampiamente aperta.
Ti dà fastidio essere considerato uno scrittore d’azione?
Al contrario. Usando un’espressione ingombrante, arriverei a dire che «ne vado orgoglioso».
Ritengo anche che la nostra sia un’epoca di «ibridi narrativi». Sono ormai rari i libri e i film «mono-genere». Questo perché ci troviamo in un tessuto sociale, in un apparato globale, a sempre più alta complessità.
Non così paradossalmente, diventa sempre più difficile raccontare una storia su una singola frequenza. Sono molti i libri qualificati come «d’azione» che sono al tempo stesso thriller dotati di risvolti politici, o futuribili, o horror, o fantascientifici, o a suspense.
Il lavoro di Tom Clancy esemplifica molto bene questo concetto. La sua intera serie con protagonista Jack Ryan è un lungo, ponderoso inno all’ibrido. Lo stesso vale per tutta una serie di grossi autori americani.
Da parte mia, agl’inizi senza nemmeno rendermene conto, anch’io ho fatto della mescolanza dei generi una specie di luce pilota. Il mio primo libro pubblicato, Città Oscura, 1981, è al tempo un thriller metropolitano, un romanzo catastrofico e un intrigo politico.
Kondor, che pubblicai nel 1997, è un duro apologo bellico, un’escursione sui campi di battaglia di un futuro fin troppo incombente e una discesa agl’inferi della colpa e della vendetta.
Sostanzialmente, nel grande contenitore della «narrativa d’azione», potrebbero entrare tutte le componenti di quasi tutti gli altri generi di narrativa.
Non si possono leggere sempre e solamente storie di ordinaria quotidianità e/o, sparando a zero, di soporifera mediocrità umana.
Raccontaci come hai iniziato a scrivere e che rapporto hai con lo scrivere.
Questa è la domanda da dieci milioni di dollari (o di euro). Da ragazzino, divoravo Urania, Giallo Mondadori e Segretissimo a centinaia. Ritengo che i miei primissimi tentativi al racconto (di genere fantascientifico) risalgano a tredici/quattordici anni di età. Il mio primo libro «grosso» lo iniziai a diciannove anni, completandolo tre anni più tardi.
Si tratta di una storia manco a dirlo sinistra e apocalittica ambientata in un’Italia prossima al collasso sociale. Ottenni addirittura un contratto di pubblicazione ma, per tutta una serie di vicissitudini complesse, alla fine quel libro non venne mai pubblicato.
Città Oscura uscì nel marzo 1981, da Corbaccio/Dall’Oglio. Nell’inverno del medesimo anno apparve Alla Fine della Notte. Oltre quel punto, well, the rest is history…
Definirei il mio rapporto non tanto con lo scrivere quanto con il narrare «onnicomprensivo», e decisamente totalizzante. Per me è importante farlo quotidianamente. Se non si tratta di scrittura vera e propria, è concettualizzazione e strutturazione del lavoro a venire.
A mio parere, narrare è come un virus, o se vogliamo una «possessione», di natura positiva, è chiaro. Al tempo stesso, soprattutto nell’ambito della narrativa d’azione o d’intrigo, è anche un procedimento mentale di calcolo e di premeditazione. La «macchina dell’intreccio» DEVE funzionare. Questo richiede l’applicazione delle leggi della logica e della ragione.
In sostanza, narrare è uno splendido ibrido (di nuovo questa parola) di tutte le funzioni della mente umana.
I tuoi libri hanno una estrema velocità, lasciano il lettore senza fiato, diventa quasi necessario saltare le parole per vedere cosa succede dopo. Parlaci un poco dei motivi per cui hai scelto di impoverire il linguaggio per privilegiare il movimento (se pensi che sia vero quello che ho scritto o se pensi sia sbagliato).
Apprezzo la considerazione sulla rapidità narrativa e sul lettore senza fiato. Al tempo stesso, mi auguro di non costringere il lettore medesimo a «saltare».
Inoltre, traccerei una linea di demarcazione tra linguaggio «impoverito» e linguaggio «essenziale». L’obiettivo di una storia d’azione e/o d’intrigo non è l’estetica fine a se stessa, né linguistica né concettuale. L’obiettivo di una storia d’azione è afferrare il lettore e dargli il desiderio di «vedere come va a finire».
In questo senso, la regola primaria viene da Alfred Hitchcock, l’uomo che probabilmente è stato il più grande maestro del suspense di tutti i tempi. Questa regola è «fare SEMPRE accadere qualcosa».
Che rapporto hai con i protagonisti dei tuoi libri?
Più che con i protagonisti, il mio rapporto è con tutti i personaggi.
Considerando che il motore primario di una storia – qualsiasi storia, arriverei a dire – è il classico triangolo «protagonista/antagonista/conflitto», penso che non sia possibile scindere i protagonisti dagli altri comprimari.
È vero, i protagonisti fanno scattare il meccanismo dell’identificazione. Per contro, cerco di rendere i miei protagonisti quanto più controversi e tormentati possibile.
Tutti loro si portano dietro una qualche nemesi interna, oppure la pietra sul cuore generata da un qualche evento traumatico nel loro passato. Qualche esempio:
– Solomon Newton, il poliziotto negro di Città Oscura, oltre che il problema razziale aveva sulle spalle anche la «sindrome del Vietnam»;
– Wolf Hellstrom, la spia coatta di Alla Fine della Notte, tentava di fare i conti con gli orrori di una missione nel Medio Oriente e con;
– Kurt Dehn, il fisico nucleare tramutato in macchina per uccidere de L’Occhio Sotterraneo, si porta addosso la mutilazione dell’identità;
– Alan Wolf, l’ex Berretto Verde di Città di Ombre, è costretto a coesistere con i fantasmi di una disastrosa missione in Cambogia e con l’irrisolto conflitto con il padre;
– David Stark, capo della squadra speciale antiterrorismo della polizia di New Phoenix in Ultima Luce, è un vero e proprio coacervo di nevrosi distruttive e autodistruttive.
Potrei continuare, ma mi auguro di aver chiarito il concetto: il rapporto con i miei protagonisti è sì d’affetto, ma è – anche e soprattutto – di analisi dei loro conflitti intrinseci.
Sei veramente così pessimista e hai veramente così poca fiducia negli uomini e nella scienza?
Lo sono. Ritengo che il fulcro della natura umana sia, statisticamente parlando, a un alto livello di tossicità. Ripeto: statisticamente parlando. Questo significa che esiste una percentuale, a mio giudizio piccola, d’individui costruttivi e positivi.
È sostanzialmente questa la genesi dei conflitti nei miei libri: pochi uomini, e donne, dotati di etica contro un enorme sistema malefico. Non possono sperare di abbatterlo, ma in un certo senso la loro sopravvivenza stessa è la vittoria.
Per quanto riguarda la scienza, ritengo importante fare una precisazione: la scienza NON È maligna, né tossica, né corruttrice. È l’uso che gli uomini ne fanno a renderla tale. Non c’è nulla d’intrinsecamente maligno nel cianuro di potassio, ma se lo spargi con piena premeditazione in un treno della metropolitana, bè…
Molti dei tuoi libri (quelli per Corbaccio) hanno in comune l’ambientazione, sembrano tutte parti di una storia più grande che li comprende.
Stai veramente scrivendo parti di un’unica storia che hai già definito o i collegamenti, seppur voluti, sono fini a se stessi?
Un’altra ottima domanda. I collegamenti tra un libro e l’altro sono emersi col tempo. Nella prima decade del mio lavoro, non avevo in mente un’unica super-struttura narrativa. Questa struttura esiste, anche se non tutti i miei libri ne fanno parte.
Il concetto, in forma di quesito, apparve con Città di Ombre, seguito di Città Oscura. Non avendo mai scritto in termini seriali – questo per non dare già al lettore la risposta finale sulla sorte del protagonista – riuscire a conciliare la serialità con la suspense fino all’ultima pagina, fu per me una sorta di sfida narrativa.
Tra Città di Ombre e Ultima Luce, il mio thriller metropolitano futuristico pubblicato nel 1995, l’idea della super-struttura narrativa prese forma più definita. Mi posi la domanda: «Perché non costruire un sistema di cui tutte queste storie, tutti questi conflitti, siano diversi aspetti spaziali e temporali?»
Lavorare nell’ambito di questa super-struttura presenta simultaneamente un grande vantaggio: potere saltare avanti e indietro nelle epoche narrative; e un grande svantaggio: essere costretti a dare risposte prima che le domande siano poste.
Ultima Luce getta le basi di Kondor, e Kondor suggerisce elementi per il libro che dovrà essere Città Oscura 3, a chiusura di quella che chiamo La Trilogia di Los Angeles.
Dal punto di vista della tecnica narrativa, queste connessioni si basano sulla presenza di personaggi ricorrenti e sulla menzione di eventi da un libro a un altro. Anche qui, un esempio:
– In Ultima Luce (1995), il protagonista David Stark rievoca la famigerata «Guerra dell’Energia» e i suoi catastrofici guasti ambientali e umani;
– In Kondor (1997), Stark è un comprimario che partecipa alla «Guerra dell’Energia» mentre il protagonista è Kurt Braden. Inoltre, il comandante in capo delle Forze Speciali è Alan Wolf, altro comprimario da un’epoca narrativa antecedente.
Questo metodo è applicato anche nella serie Sniper che sto scrivendo per Mondadori Segretissimo. C’è poi un’unica connessione che lega l’intero sistema: è il personaggio di Ben Yurick – il pilota che non può morire – visto per la prima volta nel racconto Phoenix, parte dell’antologia Scarecrow, pubblicata negli Oscar Mondadori nel 1991. Yurick continua ad apparire il libri diversi in epoche diverse. È una specie di testimone immutabile, e anche un po’ inquietante.
Che libri/scrittori ti hanno formato come autore e cosa ti piace leggere adesso?
Il mio maestro/mentore/idolo rimane l’immortale Raymond Chandler.
La purezza del suo protagonista Philip Marlowe, l’intelligenza delle sue storie, la prodigiosa perfezione narrativa e linguistica della narrazione, fanno di Chandler uno dei più grandi autori di tutti i tempi.
Altri autori che hanno certamente influenzato, con maggiore o minore intensità, il mio lavoro sono: John le Carrè, Frederick Forsythe prima maniera, Michael Crichton prima maniera, Arthur C. Clarke, James Hadley Chase e Wilson Tucker, autore americano di SF.
Scrivendo regolarmente, mi sono purtroppo reso conto di leggere meno di quanto mi piacerebbe. Continuo a leggere thriller e avventura, ma anche saggistica contemporanea e storia, in particolare storia bellica.
Ci parli del tuo lavoro come sceneggiatore?
In anni recenti, la scrittura per il cinema ha preso per me una posizione secondaria, avendo io privilegiato libri e traduzioni.
Rimango un membro del Writers’ Guild of America, il «Sindacato Scrittori Americani», un’entità che in Italia non ha equivalente e che negli Stati Uniti tutela il lavoro degli scrittori che si occupano di cinema, televisione e audiovisivi in generale.
Nei miei dieci anni come sceneggiatore di professione a tempo pieno a Los Angeles – 1987/1997 – ho scritto circa trentacinque sceneggiature in lingua inglese, tra sceneggiature originali (scritte direttamente per lo schermo), e «scripts for hire», quando cioè uno scrittore è incaricato di rielaborare lavori esistenti.
Da questa mole di lavoro sono stati realizzati tre film: Blind Fear (1988) canadese, diretto da Tom Berry; Hidden Lens (Obbiettivo indiscreto, 1992), franco-italiano, diretto da Massimo Mazzucco; Silent Trigger (1995), Canada/US, diretto da Russell «Highlander» Mulchay.
In Italia – 1997/2001 – ho collaborato al soggetto di Uno Bianca, lo sceneggiato Mediaset in due puntate recentemente diretto dall’ottimo Michele Soavi, e anche ad altri lavori Mediaset tuttora in fase di sviluppo.
Per Dino de Laurentiis, ho eseguito svariati drafts di un progetto attualmente di proprietà della RAI dal titolo (provvisorio) di La Furia, un dramma di attualità sociale.
Scrivere per il cinema rimane per me non solo una grande sfida narrativa (in un diverso formato) ma anche una strada che sono pronto a percorrere in qualsiasi momento.
Cosa ne pensi dei giallisti/sceneggiatori delle serie poliziesche televisive italiane?
Molti di loro sono ottimi scrittori, con una splendida padronanza della struttura della storia, del linguaggio filmico e della drammatizzazione delle situazioni.
Il team de La Squadra, lo sceneggiato sulla Squadra Mobile di Napoli prodotto da RAI 3, fa un eccellente lavoro.
Lo stesso vale per il gruppo dietro Distretto di Polizia, la serie di Mediaset incentrata su un commissariato romano.
Un posto d’onore merita per me Carlo Lucarelli, conduttore e «rais» di Blu Notte che, con coraggio, precisione e chiarezza, affronta i casi più spinosi della cronaca nera italiana presente e passata.
Il filone di cui onestamente sento la mancanza è quello di un valido «spaghetti thriller» o anche «spaghetti action-thriller», come esistevano negli Anni `70.
I registi e gli scrittori ci sono: dal leggendario Dario Argento al già citato Michele Soavi, per passare a Claudio Fragasso, Antonio Tibaldi e Marco Bechis – per quanto Bechis sia più interessato al dramma umano.
Si tratta di solidi professionisti che hanno tutti i numeri giusti per riprendere quella direzione. Rimane da vedere se la controparte produttiva è interessata.
Leggi narrativa italiana? E cosa?
Una cosa con cui si è costretti a fare i conti scrivendo di continuo – pur consapevole che questo possa suonare come un controsenso – è la carenza di lettura in senso lato.
Francamente, essendo i miei profeti in «storytelling» quasi tutti anglo-sassoni, sono sempre stato scarso in narrativa italiana. Una cosa che non può che farmi piacere, è la proliferazione di «autori di genere» che l’Italia ha visto negli ultimi dieci anni.
I reticolati di quello che in Italia per molto tempo è stato considerato una sorta di ghetto – la narrativa thriller/spionaggio/azione – stanno cadendo a ritmo sempre più serrato.
Sono questi gli autori/scrittori/narratori (scegliete il termine che preferite) che m’impongo di leggere abitualmente. Ritengo ce ne siano di bravissimi: Stefano Di Marino (alias Steve Di Marino, alias Stephen Gunn) è un’ottima firma nell’avventura esotica post-salgariana. Il Cavaliere del Vento, pubblicato da PiEmme, è un magnifico lavoro. La sua serie Il Professionista, Mondadori Segretissimo, può dare non poco filo da torcere al SAS di De Villiers o alla più recente produzione su 007.
Andrea G. Pinketts, con i suoi libri su Lazzaro Santandrea, ha creato un’intera Milano sotterranea, inquietante e anche crudelmente umoristica.
Carlo Lucarelli ha bisogno di ben poche presentazioni.
Marcello Fois è un narratore di prima classe di thriller ambigui e inquietanti.
Valerio Evangelisti ha riportato in primo piano i terrori dell’Inquisizione nel 14esimo secolo.
Giancarlo Narciso rivisita James Cain nei suoi noir decadenti.
A tutti gli effetti, sono questi gli autori italiani che mi piace leggere e che continuerò a leggere.
I tuoi libri sono stati stampati anche fuori dal nostro paese, e se sì come sono stati accolti?
Due soli miei libri (L’Uomo Esterno, Corridore Nella Pioggia) sono stati tradotti all’estero, udite udite, in Danimarca. Credo, e di certo spero, che siano stati accolti con favore.
Questa domanda è al limite della stupidaggine, ma vorrei sapere se e in che modo pensi che lo scrivere libri d’azione sia cambiato dopo l’11 settembre.
Questa domanda non solo NON è al limite della stupidaggine ma ha anche molto ma molto senso.
Considero la tragica giornata dell’11 settembre, che ho vissuto da lontano testimone a Los Angeles, come uno spartiacque storico. L’equivalente contemporaneo di Pearl Harbor, di Hiroshima e Nagasaki, della Battaglia di Stalingrado, della Crisi di Cuba, del crollo dell’Unione Sovietica.
Un evento a valle del quale «nulla potrà mai più essere lo stesso», ben al di là di quelle che sono le implicazioni belliche attuali. Ritengo inevitabile che anche la narrativa d’intrigo e d’azione finisca con il risentire questo mutamento.
Nel decennio degli Anni ’90 – epoca autolesionisticamente illusoria in cui alcuni hanno ritenuto i rischi globali fossero diminuiti, per non dire cessati – gli scrittori d’azione e di spionaggio si sono ritrovati a corto di «cattivi».
Dopo l’11 settembre, il mega-terrorismo (con tutte le connotazioni più o meno dementi e farneticanti che gli vogliamo attribuire) rientra alla grande anche sulla scena della letteratura. I termini secondo i quali gli autori affronteranno questo non sono ancora chiari, ma non tarderanno a emergere.
La minaccia della bomba nucleare «sporca» maneggiata da quel gruppo o da quell’altro, già peraltro affrontata in svariati romanzi, potrebbe diventare un classico. Lo stesso vale per complotti incentrati sull’uso di armi di distruzione di massa nelle mani di «rogue states». Vedremo.
La realtà comunque, almeno a mio avviso, è che all’orizzonte, di tutti, autori e non, si stiano ammassando nubi sempre più minacciose.
Ti chiederei di presentare il tuo ultimo libro, di spiegare il cambio di ambientazione e anche se il passaggio da storie «planetarie» a vicende più ristrette e quotidiane è momentaneo.
L’Uomo Esterno venne pubblicato per la prima volta nel 1989, da Mondadori, nell’ambito di un’interessante collana chiamata «Neri Italiani», dove il colore non è di natura politica ma tematica.
In questo periodo, quasi dodici anni dopo, Corbaccio ripropone il volume in un’ottica diversa. Ho apportato revisioni all’intero testo, sia allo stile sia al dialogo, e ho aggiunto un capitolo di apertura interamente nuovo.
In sostanza, ho voluto spostare la storia de L’Uomo Esterno in avanti nel tempo, adattandola alle realtà contemporanee. Il concetto di base è semplice e classico: un killer di professione e un poliziotto di quelli duri sono costretti a formare una «blasfema alleanza» per contrastare un potere criminale troppo forte per ognuno di loro singolarmente. Ogni riferimento a The Killer, il grande film di John Woo, è intenzionale.
L’ambientazione – Milano per la maggior parte del testo – si discosta solo in parte dalle mie scelte abituali. Il modo in cui tratto Milano è lo stesso che adotto per Los Angeles, o Phoenix o Berlino: il settimo girone dell’inferno.
L’elemento su cui ho cercato di calcare la mano in questo «nuovo»Uomo Esterno ha a che fare con la struttura del crimine organizzato. Mentre nella prima versione del libro i gangsters sono tutti nostrani, qui la manovalanza per il lavoro sporco arriva delle peggiori sentine dell’Est Europa e dell’Africa. Evviva la globalizzazione.
Hai dei libri in uscita o altri progetti?
Sono al lavoro su un grosso progetto (potrebbe essere addirittura articolato su due volumi), che segna una netta dipartita non tanto delle mie tematiche quanto nel tempo e nel luogo dell’azione.
So di essere volutamente fumoso, ma il lavoro in questione è ancora nelle sue fasi preliminari e preferisco limitarmi a queste poche nozioni.
Intendo poi completare Sniper, la serie che sto scrivendo per Mondadori Segretissimo. Fino ad oggi, la serie si compone di tre libri – Campo di Fuoco, L’Ultimo Muro, Victoria Cross – con al centro un tiratore scelto dello Special Air Service britannico, l’élite delle Forze Speciali inglesi.
Al termine del terzo romanzo, Victoria Cross, la serie può apparire conclusa. In realtà non è così. Conto di avere un quarto libro, che s’intitolerà Orizzonti d’Acciaio, entro l’autunno del 2002.
A questo seguirà un quinto romanzo di chiusura del ciclo, anche se la serie stessa e il suo protagonista potrebbero continuare in una diversa forma.
Un altro libro a cui tengo molto, e che è in fase di strutturazione, è il terzo volume della «Trilogia di Los Angeles», che chiude la terna iniziata con Città Oscura e continuata con Città di Ombre.
Ho visto che hai partecipato alla stesura di un libro su un regista francese, Autant-Lara; ci spieghi chi è, e di cosa si tratta? E di conseguenza, hai fatto altre cose di questo tipo?
Claude Autant-Lara è stato uno dei più grandi maestri del cinema del secolo scorso. Ha diretto film come Il diavolo in corpo e Il rosso e il nero.
Il discorso all’apertura del Parlamento Europeo, in cui Autant-Lara denunciò l’invasione e lo strapotere della cinematografia americana, suscitò un grande scalpore.
Il libro a cui fai riferimento nella tua domanda è Il caso Autant-Lara, una racconta di saggi brevi e articoli sul grande regista pubblicato nel centenario della nascita.
Il mio contributo al volume è un’analisi dei meccanismi interni dell’industria cinematografica degli Stati Uniti, basata sui miei quindici anni di esperienza dentro di essa. Non aspettatevi lanci di violette…
Rispondendo alla seconda parte della domanda: sì, ho fatto altre «cose di questo tipo», per quanto non molte.
Un altro mio articolo è apparso su Serbia ed Europa (Edizioni Graphos), una collezione di saggi brevi contro l’intervento NATO in Serbia e in Kossovo. Si tratta peraltro di una raccolta interessante, a cui hanno partecipato tra gli altri Henry Kissinger, Noam Chomsky e niente meno che Giulio Andreotti.
Infine, un mio pezzo intitolato Requiem: riflessioni sulla fine di un mondo, una testimonianza diretta della giornata dell’11 settembre e anche un tentativo di analisi delle sue implicazioni future, è apparso prima su Il Nuovo, giornale del Web (www.ilnuovo.it), e quindi ripreso da Urania Mondadori, in appendice al numero 1427 del novembre 2001.
In ogni caso, non sono, né voglio essere, un commentatore politico. È dal mio lavoro di narratore che il lettore può trarre, se proprio ha voglia di farlo, indicazioni sulle mie prospettive sia sulla politica sia su chi la pratica.