di Beppe Sebaste
Gilles Deleuze scriveva spesso, e non provocatoriamente, “Sulla superiorità della letteratura angloamericana”. La quale, scriveva, è un processo continuo di sperimentazione, e ha ucciso l’interpretazione. E’ legata agli orizzonti, alle linee di fuga, al deterritorializzarsi. Fuggire, evadere, non vuol dire fare dei viaggi di vacanza, portando in giro il proprio io, ma forse disfarlo. Soprattutto, si può fuggire anche restando sul posto, in un viaggio immobile, come l’erba. Tutto questo mi viene in mente a proposito di alcuni autori americani come Joe R. Lansdale, James Lee Burke e, per altri versi, Chuck Palahniuk.
Lansdale è ormai in Italia un autore di culto. Texano, tutti i suoi romanzi sono ambientati in quella zona degli Stati Uniti di cui conosciamo almeno un altro autoctono, l’ex governatore George W. Bush, celebre per l’altissimo numero di condanne a morte che ha firmato. Lansdale, che sul razzismo e la violenza degli uomini bianchi ha scritto racconti e romanzi bellissimi e struggenti, ci mostra tra l’altro che dall’Ottocento a oggi non è cambiato granché.
Ma accanto alla rappresentazione, tutt’altro che moralistica, della crudeltà dell’America profonda, di Lansdale si deve dire la beatitudine, l’incantevole disincanto del suo humour, che per molti versi continua a restare, sul piano dello stile, uno di quei misteri nascosti dalla loro evidenza. Si prenda per esempio L’anno dell’uragano, dedicato al mitico incontro di pugilato tra un nero povero, sorta di moderno gladiatore, e un bianco così cinico da essere in rotta perfino con la propria gente. L’incontro sarà interrotto dalla catastrofica inondazione di Galveston, Texas, di cui Lansdale non risparmia particolari raccapriccianti. La storia ha inizio “in un pomeriggio più caldo di due ratti che trombano in un calzino di lana”. E’ la prima frase del libro. E’ linguaggio parlato o scritto? L’uno e l’altro, perché condizione dell’incanto nel lettore è che nulla, nel fraseggio di Lansdale, costituisce impasse alla lettura, come invece accade spesso nei romanzi italiani con le reciproche interferenze tra registro orale e scritto, il più delle volte false e pedanti. C’è quindi molto lavoro artigianale dietro la semplicità di Lansdale. Il risultato è una purezza incurante che lega irresistibilmente il lettore alle sue pagine, fra suspense e sorriso. Insomma, uno di quegli autori capaci di rendere un pomeriggio uggioso e triste, che anzi butta peggio del solito, in una giornata luminosa. Anche se il dolore nelle sue storie non manca.
Rumble tumble, ultimo titolo uscito della serie degli strampalati detective Hap Collins, bianco eterossessuale, e Leonard Pine, nero omosessuale, entrambi saltuari buttafuori in locali notturni, ha il suo cuore in un dialogo della seconda metà del libro, quando un ex killer ed ex predicatore battista confessa al narratore, Hap, che “là fuori, nello spazio profondo, non c’è nulla”, in cielo non c’è Dio, ma solo le stelle, che non sono altro che luci morenti: “a volte guardo un albero, un cespuglio, e lo vedo per quello che è: una cosa morente. Tutto ciò che vive sta già morendo. Non è una grande rivelazione, lo so”. E tu, chiede l’ex killer, “ti senti mai così?” “A volte — risponde Hap —. Poi mi passa”. E spiega che lui è piuttosto, come dice l’amico Leonard, “come uno che esce di casa e pesta una merda di pony. Chiunque direbbe: ‘Cazzo, ho pestato una merda’. Io invece vado a cercare il pony”.
La storia, come al solito, è una fusione di tragedia e farsa, di dramma portato allo spasimo e di ironia capace di sospendere ogni sofferenza. Verso il culmine della vicenda, in una missione impossibile in cui vanno armati fino ai denti contro un’intera tribù di criminali, Hap guarda sé e gli amici dall’esterno: “Eravamo davvero un bel gruppo. Un buttafuori del Texas orientale, un nero frocio, una ex reginetta della Patata Dolce, un ex killer nonché reverendo in pensione alto un metro e novantacinque, e un nano dai capelli rossi con un carattere a dir poco particolare. Per essere al completo mancavano solo un paio di venditori di auto usate, una scimmia e un organetto a manovella”. Come dire, con umorismo anni ’70: sarà una risata che vi (o ci) seppellirà. Rumble tumble è la continuazione di Bad chili, altro romanzo che alterna violenza e humour in una trama pazzesca (perfino scoiattoli impazziti dalla rabbia che mordono Hap all’inizio del romanzo), e finisce con un uragano che scoperchia e disperde nella foresta le casa di Hap con tutto il contenuto, proprio quando aveva trovato l’amore. Il finale, lui che miracolosamente sopravissuto ritrova lei, pure incolume perché si era nascosta nella vasca da bagno trattenuta dai tubi interrati, è una scena di neoromanticismo esemplare: nel paesaggio devastato di macerie, i capelli coperti di intonaco e schegge, si baciano piangendo dentro la vasca umida, sotto le stelle, e si addormentano lì abbracciati.
A colpire e commuovere in queste storie è l’assoluto tempo presente delle vicende, presente e presenza iperreali come le crudeltà descritte, un presente senza futuro; e che, nel massimo dell’immanenza, o nell’apice della disperazione, trova in sé le uniche ragioni di speranza, quindi di trascendenza. Qualcosa del genere si respira nei finali di Chuk Palahniuk, per esempio in Soffocare. Qualcosa del genere dipende dall’alchimia di questi romanzi che sanno dire la verità a partire da personaggi realmente emarginati ed estranei a ogni normalità, a ogni circuito economico, fuori da ogni previdenza sociale, fondatori di una comunità stoica di individui (si pensi a Fight club, sempre di Palahniuk) la cui unica descrizione è finora quella, in lingua lirico-narrativa, “minore” nel senso di Deleuze, di questi romanzi esasperatamente veri. Una comunità che, già radicalmente antirazzista (e questo basta e avanza) ha il non piccolo vantaggio di essere immune da ogni ideologia.
Pressappoco lo stesso si può dire per i romanzi di James Lee Burke, nato a Houston e cresciuto tra il Texas e la Louisiana. Burke ambienta quasi tutte le sue storie in Lousiana, con qualche incursione nel Texas orientale. Di questi luoghi racconta anch’egli la storia sanguinaria, ma delle sue pagine ci colpisce la ricchezza sensoriale, e quindi lessicale, con cui restituisce la natura lussureggiante del territorio tra New Iberia e New Orleans: alberi di pecan e querce in mezzo a bambù, salici e paludi, bromeliacee e mimose, sequoia, cipressi e nebbie mattutine. “Le canne mosse dal vento lungo le rive del bayou erano secche e gialle e in alto sulla palude i falchi volteggiavano contro un cielo azzurro come ceramica”. “La luna sui cipressi secchi della palude era color del peltro. Il mio vicino aveva bruciato le stoppie di canna da zucchero nel suo campo e nell’aria aleggiava ancora un fumo che odorava di cannella”. Descrizioni di natura che intercalano le azioni crudeli e angosciose degli uomini: incredibili tramonti dal cielo incendiato, alternati a piogge improvvise e sentori di tromba d’aria, l’oceano il cui colore varia dal verdazzurro al borgogna, e ogni sorta di pesci e di crostacei, panini con gamberi freschi e baguette ripiene di ostriche fritte. Citavo da uno qualsiasi dei romanzi (in Italia pubblicati da Baldini&Castoldi) che hanno come protagonista il cajun Dave Robichaux: già tenente della polizia poi dimissionario e detective in proprio, alcoolizzato e frequentatore delle riunioni degli Alcoolisti anonimi, religioso a suo modo, pervaso da un senso di lutto e amante intenso e incantato, egli è spinto nelle sue inchieste dai risvolti di imprevedibile violenza da moventi gratuiti e sentimentali, come Philip Marlowe. Ed è proprio a Raymond Chandler che Burke è stato autorevolmente paragonato, e per la prima volta questo riferimento è del tutto giusto, se si intende una qualità letteraria così forte da rendere irrilevante l’appartenenza a un genere (poliziesco).
Di Burke, l’ultimo libro uscito in Italia è invece un western, Two for Texas, ambientato nel 1836 tra la Louisiana e il Texas. Narra la fuga e le peregrinazioni di due evasi, l’anziano Hugh Allison e il giovane Son Holland, tra banditi, pellerossa e il grezzo esercito di Sam Houston, che dopo la sconfitta di Alamo sbaraglierà i Messicani a Santa Anna. E’ il romanzo che dà inizio alla saga della famiglia Holland (da cui è stato tratto un film con Kris Kristofferson e Peter Coyote), storia della formazione del giovane Son, che il lettore abbandona dopo il guado del Red River mentre cavalca, in territorio indiano, sotto “un cielo di un azzurro così compatto che a sparargli una fucilata c’era da vederselo incrinare”.
Non so se sono riuscito a far capire e a capire io stesso che cosa ci affascina di questi narratori, e perché in Italia non esiste niente di simile. Una cosa mi colpisce tra le altre: il radicamento dei loro romanzi nei luoghi in cui vivono, la capacità quindi di raccontare la propria storia e per questo renderla universale: la Louisiana di Burke, il Texas orientale di Lansdale, l’Oregon di Palhaniuk (che, mi diceva una volta, non si sposta mai da Portland). E l’elenco potrebbe certo continuare. Agli antipodi di questo, leggiamo che il prossimo romanzo dell’autore italiano più celebrato dalle vendite, di provenienza televisiva, ha passato un mese o due a New York per conoscere e impregnarsi dell’atmosfera di quella città, in cui ha ambientato il suo nuovo “thriller” (il precedente si svolgeva a Montecarlo). E non c’è stato finora nessun recensore che abbia avuto qualcosa da ridire sull’ostentazione di questo provincialismo — vivere di modelli importati – ancora più forte del marketing intrinseco a questa scelta. Si è anzi elogiato il fatto che non abbia commesso errori nel raffigurarla. Ora, anche gli autori di cui abbiamo parlato scrivono gialli, thriller, western e storie che rivaleggiano col cinema di serie B. Ma poiché nel narrare non è mai il soggetto che conta, ma il tono e il modo e lo stile, forse l’insegnamento di Deleuze riportato sopra resta ancora il più esauriente.
Una versione più breve di questo articolo è apparsa su L’Unità del 16 ottobre 2004.