di Beppe Sebaste (da L’Unità)
Mentre ancora cercavamo le parole giuste per commentare il lungo articolo che Giuliano Amato e Carlo De Benedetti avevano dedicato (Repubblica del 12/9) alla cosiddetta de-industrializzazione dell’Italia (la parola declino non è più bello usarla), due eventi hanno attratto l’attenzione di noialtri che prendiamo il sole anche di lunedì (disoccupati e desoeuvrés): l’arrivo nelle sale del bel film applaudito a Venezia diretto da Guido Chiesa e co-sceneggiato dagli amici Wu Ming: Lavorare con lentezza, sulla storia di Radio Alice a Bologna nel 1977; e il discorso di Capri ai giovani industriali del presidente di Confindustria (e Fiat, e Ferrari) coronato dal grido “Togliamoci le cravatte!” (dicendolo, Luca Cordero di Montezemolo se l’è effettivamente sfilata gettandola per aria, imitato da alcuni imprenditori in platea, compreso un produttore di cravatte). C’è una contiguità tra queste cose che ci intriga.
Il discorso di Amato-De Benedetti ci faceva venire in mente la “fatalità” storica di eventi come l’abbandono del Mediterraneo dopo la scoperta della Terra (ma prima di quella dell’Universo e dell’Infinito), quando nel ‘500 i traffici commerciali si spostarono irreversibilmente lungo l’Oceano Atlantico: e fu il declino di Venezia e dell’Italia. Ma com’è che Francia e Germania, oggi, sono in pari nella bilancia commerciale con l’estremo oriente, e l’Italia no? Ed è possibile, come ha già osservato il verde Mattioli su questo giornale, che alla fine l’unica proposta utile sia l’istigazione al made in Italy inteso come produzione di beni di lusso dalla Ferrari in su? O non sarà piuttosto, il “made in Italy” propriamente inteso, qualcosa che richiama la memoria di tradizioni, anche umili, di lavori e prodotti in grado di produrre una “ricchezza secondo natura?” Dai e dai, alla fine sembra quasi che la storia del movimento di rivolta (riot per gli anglofoni) del 1977 a Bologna e non solo, contenga risposte adeguate alla domanda di nuove risorse, nuova concorrenza, nuovi orizzonti per l’economia italiana, di cui sono portatori tanto Amato-De Benedetti quanto Montezemolo – il cui gesto di scravattarsi non è estraneo ai simbolismi linguistici. Non è la lentezza il bene più di lusso di tutti?
Ma nell’articolo citato si indicava il “luddismo” (la rivolta contro le macchine della nascente rivoluzione industriale) come prototipo del nemico, senza preoccuparsi di analizzarne il linguaggio. Allo stesso modo, negli anni ’70 vennero additati come nemici estranei al corpo sociale i giovani, studenti, operai e disoccupati che animarono le nuove proteste fatte di paradossi, creatività, ironie e sabotaggi (per esempio, a Bologna, i semafori), contro l’opprimente accelerazione produttivistica: lavorare con lentezza, appunto. E anche se fa strano leggere oggi sulla Stampa (Lietta Tornabuoni), che “è bello rivedere ragazzi rivoltosi, creativi, mao-dadaisti “, quando all’epoca furono (fummo) caricati dalla polizia e a Bologna si videro i carrarmati come a Varsavia (e Radio Alice, matrice di ogni sperimentazione linguistica dal basso, fu chiusa per sempre), non è mai tardi per ripensare davvero a una redistribuzione delle ricchezze in termini di tempo e di sforzo. “Adagio adagio”, ha detto Romano Prodi nel lungo forum all’Unità. E’ la frase che mi è piaciuta di più.