di Jonathan Lethem
[da minimum fax]
Per un caso — per quel genere di stupendo arbitrio che rende il mondo un luogo non meno ma addirittura più ricco di senso — io che sono un americano bohémien e pateticamente apolitico, io che vivo a New York e che non ho mai viaggiato più in là dell’Europa Occidentale, sono strettamente imparentato con Saad Eddin Ibrahim [nella foto a sinistra], sostenitore della democrazia, in Egitto, che attualmente si trova in carcere. Io e Saad siamo entrambi membri periferici di una vasta e sparsa famiglia del Midwest degli Stati Uniti. Saad per via del matrimonio con mia cugina Barbara, io per ascendenza paterna. Il nome di Saad Eddin Ibrahim compare spesso nei notiziari di questi giorni, e negli editoriali dei giornali, se qualcuno solo lo cerca. Un anno fa il «New York Times Magazine» ha messo in copertina una foto di Saad, nella quale lo si vede sbirciare attraverso le sbarre della gabbia in cui è rinchiuso durante il processo.
Ma anche temi così rilevanti finiscono per confondersi in quello scoraggiante guazzabuglio che è la politica interna del Medio Oriente, davvero difficile da tenere d’occhio in mezzo a ben più sensazionali allarmi di avvelenamento da gas o a titoli dedicati a cecchini serial killer che convincono ancora di più noi occidentali, stupefatti dalla paura, che chiunque si chiami Muhammad nutra una generale predisposizione alla follia sanguinaria.
Forse un premio Nobel per la pace avrebbe potuto richiamare l’attenzione anche di profani come me che però non abbiano il vantaggio di un legame di parentela con la persona in questione (del resto pare che il nome di mio cugino fosse agli ultimi posti nella lista finale di candidati per il premio recentemente assegnato a Jimmy Carter a tardivo riconoscimento per il lavoro da lui compiuto al fianco di un vecchio amico di Saad Ibrahim, il fu Anwar Sadat, di cui Saad era consulente). Farò dunque io un veloce riassunto della situazione (la versione più estesa è consultabile sul sito www.democracy-egypt.org): Saad, professore di sociologia all’Università Americana del Cairo e titolare di doppia cittadinanza egiziana e statunitense, è il fondatore e direttore del Centro Ibn Khaldoun per gli Studi sullo Sviluppo, un’organizzazione che è stata la principale voce a sostegno di una società civile secolarizzata e democratizzata in Egitto. Famoso nei circoli egiziani per i suoi scritti controversi sulle minoranze e per la sua presenza come consigliere presidenziale e commentatore televisivo durante gli anni di Sadat, nello strisciante clima reazionario dell’era Mubarak Saad è diventato oggetto di attacchi sempre più frequenti da parte della stampa ufficiale.
Paradossalmente, la coraggiosa voce di Saad, che si è alzata con sprezzo del pericolo a difesa dei cristiani copti perseguitati e come monito contro l’erosione dell’autentica democrazia a causa di elezioni corrotte, appariva protetta dalla sua vicinanza alla famiglia di Mubarak: la moglie e i figli del presidente erano stati studenti di Saad. Tuttavia, con un colpo di scena degno di un dramma shakespeariano, Saad, come Falstaff, sembra aver conosciuto il suo Presidente-Sovrano troppo bene e allo stesso tempo non abbastanza. Quando annunciò pubblicamente il rischio che Mubarak stesse preparando suo figlio alla successione, venne arrestato; fu un modo per dare una lezione ad altri eventuali attivisti e ridurli al silenzio. Non è detto che sia stato Mubarak a iniziare l’incredibile sequela di persecuzioni subita da Saad Eddin Ibrahim, ma di certo con il semplice fatto di avergli tolto la sua protezione ha dato carta bianca a elementi reazionari, che da tempo chiedevano che Saad venisse messo a tacere.
L’arresto e i ripetuti processi sono stati quanto di più kafkiano si possa immaginare, purtroppo con atmosfere meno oniriche. Nel luglio 2000, dopo un’incursione in stile commando in casa sua e nel Centro Ibn Khaldoun, Saad e ventisette tra suoi studenti e colleghi sono stati accusati di aver ricevuto fondi stranieri allo scopo di diffamare la società egiziana, mediante un documentario e un rapporto sulle elezioni truccate (L’Unione Europea, che aveva fornito i fondi in questione, ne ha in seguito ratificato il corretto uso da parte del centro studi di Ibrahim con ben quattro diverse dichiarazioni scritte). Le leggi cui è ricorsa l’accusa per montare il processo erano state emanate, ironicamente, nel tentativo di bloccare il flusso di fondi islamici destinati ad attività sovversive. Di fatto, Saad è stato processato di fronte a una corte speciale costituita dopo l’assassinio di Sadat, intesa a combattere il terrorismo, ma sempre più usata dalla destra di Mubarak per perseguitare gli omosessuali, le minoranze religiose e i sostenitori della libertà di parola. Così, in una lettera indirizzata a me, mia cugina Barbara descrive l’aula del tribunale, che agisce come un teatro delle marionette manovrate dall’autocrazia:
«È una scena che si può solo sperimentare direttamente, è quasi impossibile da descrivere: una calca di giornalisti chiude la visuale tra gli avvocati e il banco dei giudici, ogni due minuti squilla un cellulare, gli avvocati sono vestiti con le palandrane che portavano una volta i loro omologhi inglesi, ma la tradizione è ora talmente superata che al posto delle gorgiere d’ermellino hanno delle palline di ovatta. Gli inservienti si trascinano in ciabatte di plastica fra strati annosi di mozziconi di sigarette e ci chiedono un backsheesh, una mancia — mentre il processo è in corso —, per «pulire» la stanza. Gli imputati stanno in piedi in una gabbia di ferro per tutta la durata dell’udienza, ma la griglia è talmente sconnessa che riusciamo a passare biglietti e caffè a Saad ogni volta che lo vogliamo».
Cinque fra studenti e colleghi di Saad Eddin Ibrahim sono stati arrestati insieme a lui; quasi tutti sono stati ormai rimessi in libertà dopo aver scontato nove mesi. Saad invece, come figura rappresentativa della classe media intellettuale, in prigione ricopre un ruolo ben preciso. Ho cercato di spiegarmi così la sua persecuzione: immaginatevi che il presidente americano, anziché ignorare le punzecchiature dei dissidenti sinistrorsi, Noam Chomsky, per esempio, o Ralph Nader, oppure Michael Moore, li facesse sbattere in prigione con accuse platealmente ridicole. Allo stupore in breve seguirebbe la paura di esprimere a voce o su carta stampata davanti a un vasto pubblico opinioni anche solo leggermente di parte. Se uno come lui può essere messo a tacere, si bisbiglierebbe, allora davvero le regole sono cambiate. L’incarcerazione di una sola persona, quella giusta, può essere un gesto della più spietata efficienza, e non bastano certo a neutralizzarla gli aspetti più caotici e pittoreschi dell’aula di tribunale. Perciò Saad, un professore di 67 anni e di salute cagionevole, rischia di farsi altri sei anni in galera.
Barbara Ibrahim, nata Lethem, la mia cara cugina, è ora il principale difesore di Saad nella infida arena dell’opinione pubblica egiziana, nonché la sua quotidiana fonte di sostegno durante queste tribolazioni. Barbara ha vissuto da piccola nel quartiere periferico di Palatine, a Chicago, e ha incontrato quello che sarebbe stato il compagno di tutta la sua vita quando era una sua studentessa, nel 1967, all’Università di DePauw, nell’Indiana. Si sono sposati nel 1971. Suo padre, come il mio, è cresciuto nelle fattorie dell’Iowa e del Missouri. Nostro nonno era un commesso viaggiatore di attrezzature e suppellettili agricole. Al Cairo, Barbara ha diviso le sue giornate fra i compiti di moglie e madre di due bambini, e quelli di direttore della ricerca al Consiglio Internazionale per la Popolazione, dimostrando così non solo la forza trasformatrice dell’amore romantico, ma grandi doti di coraggio e di immaginazione, nonché una vena di ottimismo visionario tipico del clan dei Lethem del Midwest: lo stesso ottimismo che negli anni Cinquanta, aveva permesso a mio padre di partire alla volta di New York e di Parigi per cominciare una cariera come pittore espressionista.
C’entrano qualcosa anche gli anni Sessanta. Tra i molti gruppi internazionali che hanno mandato rappresentanti a Washington il 25 ottobre di quest’anno per una marcia dedicata alla «Libertà per Saad Eddin Ibrahim» c’era anche «The Duck», l’Anatra, un gruppo di ex studenti di Saad e colleghi dell’università di DePauw, così chiamati dal Fluttering Duck, l’Anatra Volante, un caffè all’angolo tra Centre e Vine Street, a Greencastle, Indiana, dove il professore e i suoi allievi del Midwest erano soliti ritrovarsi. In una recente circolare via e-mail l’Anatra chiede ai suoi membri di mandare note di protesta all’ambasciata egiziana, per aiutare la famiglia Ibrahim a «continuare a resistere».
***
Quanto a me, ho conosciuto Saad negli anni Sessanta, quando avevo cinque o sei anni. Ricordo bene le sue visite alla nostra casa di Brooklyn già nel 1971, e poi ancora meglio le riunioni della famiglia Lethem che si tenevano in vari posti del Kansas, Arkansas, e del Missouri, per tutti gli anni Settanta. Di certo mi era chiaro il suo posto nella mia vita e nella nostra famiglia, attraverso un’ottica di «coscienza anni Sessanta» che ho ereditato dai miei genitori. Un’eredità ottenuta senza sforzo e, fino a tempi recentissimi, relativamente poco analizzata. Mia madre era un’ebrea di New York e, prima ancora, un’insolita mescolanza di alto-tedeschi integrati e di shtetl russo-polacchi. Mio padre un più comune protestante del Midwest, con le tipiche lontane radici anglo-scozzesi, diventato negli anni Settanta quacchero praticante, in parte in segno di protesta pacifica per la guerra in Vietnam. A casa nostra, comunque, la vera religione era la Bohème: arte, protesta e sentimento utopico internazionalista. Attraverso il Friends Service Committee e i nostri collegamenti con il «Guardian», un giornale comunista, la nostra famiglia ospitava pensionanti da tutto il mondo; i più esotici sono stati un tutsi del Rwanda e un giapponese di Okinawa. Sposare uno straniero a me sembrava un atto eroico, e fu un trauma, anni dopo, scoprire che che molti ebrei lo consideravano invece vergognoso. Barbara, con la sua famiglia egiziana, mi pareva davvero eroica. Così come la mia favolosa zia Molly, la pecora nera del matrilineato ebraico, che era fuggita da New York per sposare un messicano e si era poi trasferita in Arizona a fare l’artista folk. Perfino i Lethem del Midwest erano ossessionati dalla loro apparente traccia di sangue nativo americano. La leggenda familiare voleva che il mio bis-bis-nonno, di nome Brown, avesse preso in moglie una donna della tribù Sioux degli Oglala.
Io sono cresciuto in un quartiere di Brooklyn dove si vedevano in giro più facce brune che bianche. Era eccitante e allo stesso tempo consolante — non solo giusto in teoria, ma anche giusto in senso intuitivo — che ci fossero i miei scuri cuginetti egiziani, Randa e Amir, a sguazzare nella piscina del motel di Maryville, Missouri, insieme a noi ragazzini più pallidi, durante quelle riunioni di famiglia negli anni Settanta. E a bordo piscina, a discutere di politica con i miei zii, veterani della Guerra Mondiale e con mia madre ebrea radicale e senza peli sulla lingua, c’era il loro barbuto, burbero, autorevole e decisamente adorabile papà, Saad. Di fatto, per quanto potessimo sembrare, in base agli standard correnti, concettualmente «rivali», noi cugini mezzi ebrei e mezzi egiziani eravamo più simili tra noi di quanto lo fossimo alle diverse dozzine di cugini puri del Midwest che ci stavano attorno. Ciascuno di noi aveva portato un sapore nuovo alla famiglia Lethem, e un aroma del grande mondo, di città cosmopolite e oceani, a una tribù che era rimasta confinata nel suo territorio. Per quanto a New York io come ebreo fossi ben poco convincente agli occhi degli altri ebrei — non ero osservante, non avevo fatto il Bar Mitzvah e andavo al catechismo domenicale dei quaccheri — in Kansas ero un animale più unico che raro. Uno dei mei cugini una volta mi accompagnò per una strada di periferia di Overland Park, Kansas, per farsi bello con gli amici, tanto ero prezioso. Ma anche quella era una missione umanitaria: su su quella via abitava un bambino ebreo adottato, che tutti sapevano timido e vergognoso di essere il solo ebreo conosciuto nel quartiere. Avrà avuto sette o otto anni. Io ero la prova che un ragazzino come lui poteva diventare un normale adolescente: visto, gli ebrei sono gente a posto! Anche Chris Lethem ne ha uno in famiglia!
Lo ripeto: mi sentivo il simbolo di un mondo migliorato dall’ibridazione. A quel tempo andavo pazzo per Arthur C. Clarke, il cui socialismo mutuato da Stapledon si sentiva tamburellare appena sotto la superficie del suo lucido e brillante futuro. «Non dobbiamo esportare i nostri confini nello spazio,» diceva una sua famosa battuta. Quelle visoni allora mi sembravano solo l’ovvia estensione dei valori hippy dei miei geniori. Ricordo che una volta spiazziai mio padre spiegandogli, con l’assertiva certezza di un adolescente che tiene una lezione a un adulto, che la chimera del nazionalismo si sarebbe dissolta in un unico governo planetario entro l’arco della mia vita, se non addirittura della sua. Eravamo tutti destinati a sposarci tra persone di razze diverse, a diventare scuri di pelle, a tenerci per mano e a onorare la nostra essenziale parentela di esseri umani, o no?
Ebbene, il 2001 non è stato l’anno di Clarke. Se, mentre era seduto accanto a me, nel Missouri, a guardare le Olimpiadi del 1976, Saad ebbe il sospetto che la destra islamica, che di lì a poco avrebbe assassinato il suo amico Sadat, o la destra reaganiana, che avrebbe assassinato la visione della società americana a cui si ispiravano Franklin Delano Roosevelt e i miei genitori, stessero contribuendo insieme a tenere in gabbia le Anatre Volanti del mondo per un altro millennio o giù di lì, non disse niente che potesse danneggiare il mio speranzoso ottimismo. Di certo le sue previsioni saranno state più cupe delle mie o anche di quelle dei miei. Tuttavia è improbabile che possa aver previsto già da allora fino a che punto sarebbe arrivata la sua stessa cultura: al punto in cui le democratiche e istruite classi medie alle quali il profesor Ibrahim e i suoi studenti appartengono sarebbero state schiacciate da un lato dagli attivisti islamici e dall’altro da quello che Saad brillantemente chiama il «dispotismo orientale» del regime di Mubarak (altrove lo definisce «faraonico»).
Per la nuova edizione del suo Egypt, Islam and Democracy (American University of Cairo Press) Saad, dalla sua cella, subito dopo gli attacchi di New York, ha aggiunto un nuovo poscritto. Nel quale gentilmente ci ricorda che per gli egiziani l’undici settembre ha un precedente molto rilevante (in scala ridotta, s’intende), un precedente che si sente citare poco, in America, nelle discussioni sul disastro del World Trade Centre: gli attacchi al tempio di Luxor nel 1997, nei quali militanti islamici uccisero sessanta turisti, soprattutto svizzeri, britannici e giapponesi, più un certo numero di guide egiziane. Saad considera l’evento come l’«amaro raccolto dell’ultima decade»:
«È stato come un terremoto: veloce e devastante nell’epicentro ma i suoi effetti sull’economia e la politica sono stati più lunghi e più profondi. [I terroristi] hanno messo a nudo la vulnerabilità dello stato, la fragilità dell’economia e il ventre molle della società».
L’equazione è semplice: come gli abitanti di New York devono temere che Al Qaida sia appostata dietro l’angolo, così lo devono temere gli egiziani. Non sono soltanto i Lethem quelli che, potendo scegliere, preferirebbero starsene a prendere il sole sul bordo della piscina di un motel. Una maggioranza di americani assomiglia molto a una maggioranza di egiziani nel comprendere con mente pronta e sveglia le sottigliezze dell’esistenza umana post-Illuminismo, per quanto il risentimento degli estremisti abbia avuto via libera nel cancellare queste similitudini. Il genio dei terroristi è consistito nel separarci dalla realtà della nostra relazione di parentela con altri esseri umani ragionevoli, ben disposti e che la pensano come noi, i quali hanno avuto e dovrebbero tornare ad avere un ruolo centrale nel governo e nell’istruzione del proprio paese, e di costringerci a perdere speranza in qualunque tipo di azione che non sia una Crociata dell’Occidente contro una vasta e indifferenziata Jihad dell’Oriente. Ma non dobbiamo dimenticare che esiste Saad Ibrahim. Dovrebbe essere la nostra più grande speranza; eppure, tra le semplificazioni di un’Età del Terrore, non è forse più conveniente, meno disturbante, far finta che non lo sia, far finta invece che desiderare un Medio Oriente democratizzato sia una morta utopia?
D’altro canto, ogni volta che George W. Bush riesce a soffocare il dissenso verso la sua Crociata con sottili intimidazioni e costrizioni, dobbiamo chiederci se un giorno o l’altro non ci sarà anche un nostro Saad Eddin Ibrahim in qualche nostra prigione.
Anatra Volante quale io sono, voglio testimoniare che Saad ora, per dirla con Bob Dylan, «siede come Buddha in una cella di due metri e mezzo/un uomo innocente in un inferno vivente». Di fatto, come Rubin «Hurricane» Carter, anche Saad ha messo a punto un esercizio quotidiano per tenersi sano e in forma: sta scrivendo le sue memorie. Tuttavia, l’età e il concorso di diverse malattie mettono in pericolo il suo destino. Un’udienza d’appello, la prima settimana di dicembre, sembra l’ultima speranza (a parte un perdono di Mubarak) perché gli vengano risparmiati i sei anni che mancano a scontare la sentenza. Ha un fantastico sostegno in sua figlia e in suo figlio e soprattutto nella mia indomita cugina Barbara. I Lethem del Midwest a distanza stanno facendo tutto quello che possono. Per quanto non ci sia mai stata una causa così nobile o così cruciale come quella di Saad, alcuni di noi sanno già che cosa voglia dire sopportare la prigione. Insieme a quella vena di visionario ottimismo, nella mia famiglia c’è una semisegreta eredità carceraria, la quale include mio fratello, fra gli altri parenti che in diversi casi si sono fatti beffe della legge. E mia madre fu arrestata sui gradini del Campidoglio a Washington, quando protestava contro la guerra in Vietnam. Forse è il sangue dei Pellirosse o di qualche altro incrocio bastardo, a metterci sempre nei guai.
(Traduzione di Paolo Bianchi)