Potere e sapere: l’allegoria platonica
Nel VII libro della Repubblica, Socrate introduce l’allegoria – un racconto che ha un senso ulteriore rispetto a quello letterale – della caverna per spiegare a uno dei suoi interlocutori, Glaucone, la differenza fra paideia (educazione, cultura) e apaideusia (ineducazione, incultura). (Resp. 514a)
Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre. (514a ss)
Per un prigioniero, lo scioglimento e la guarigione dai vincoli e dalla aphronesis (mancanza di discernimento) sarebbe una esperienza dolorosa e ottenebrante. Il suo sguardo, abituato alle ombre, rimarrebbe abbagliato: se gli si chiedesse – con la tipica domanda socratica – di dire che cosa sono gli oggetti trasportati, non saprebbe rispondere, e continuerebbe a ritenere più chiare e più vere le loro ombre proiettate sulla parete. Per lui sarebbe difficile capire che sta guardando cose che godono di una realtà o verità maggiore (mallon onta) rispetto alle loro proiezioni.
Il dolore aumenterebbe se fosse costretto a guardare direttamente la luce del fuoco. E se fosse trascinato fuori dalla grotta, per l’aspra e ripida salita, e dovesse affrontare la luce del sole, la sua sofferenza e riluttanza si accrescerebbe ancora. Il suo processo di acclimatazione al mondo esterno dovrebbe essere graduale: prima dovrebbe imparare a discernere le ombre, le immagini delle cose riflesse nell’acqua, e poi direttamente gli oggetti. Il cielo e i corpi celesti dovrebbe cominciare a guardarli di notte, e solo in seguito anche di giorno.
Una volta ambientatosi, potrebbe cominciare a ragionare sul mondo esterno, sulla sua struttura, e sul luogo che ha in esso il sole. Solo allora il prigioniero liberato, ricordandosi dei suoi compagni di prigionia e della loro conoscenza, potrebbe ritenersi felice per il cambiamento. Ma se ritornassero nella caverna, i suoi occhi, abituati alla luce, sarebbero quasi ciechi. I compagni lo deriderebbero, direbbero che si è rovinato la vista, e penserebbero che non vale la pena di uscire dalla caverna. E se qualcuno cercasse di scioglierli e di farli salire in superficie, arriverebbero ad ammazzarlo.
Uccidere chi viene dall’esterno è facile, perché, essendo quest’uomo abituato alla gran luce dell’esterno, sarebbe costretto a contendere nei tribunali o altrove sulle ombre del giusto, con persone che la dikaiosyne (la giustizia come virtù personale) non l’hanno veduta mai. (515c ss)
Dopo aver narrato questa allegoria, Socrate ne chiarisce il significato pedagogico: alcuni sostengono che nella psyché non c’è episteme (scienza). Istruire, nella loro prospettiva, significa semplicemente informare, “quasi infondendo la vista in occhi ciechi”. [518b-c] Ma il discorso che abbiamo fatto ora, spiega Socrate, indica che la dynamis o potenzialità di imparare è insita nella psiché di ognuno, e richiede un coinvolgimento personale, perché si tratta di passare dal mondo di ciò che diviene alla visione di ciò che è e della sua parte più fulgida, il Bene. [518c-d]
L’insegnamento è una techne di conversione, nel senso letterale del termine: non si tratta di dare alle persone informazioni o capacità che non possiedono, ma di indurle a voltarsi dalla parte giusta, in modo da permetter loro di far uso di una facoltà che già possiedono. Mentre le altre virtù dell’anima, come quelle del corpo, si acquistano con l’abitudine e l’esercizio, la capacità di discernere è una dote personale che non perde mai la sua virtù, ma per effetto della conversione etica diventa utile oppure nociva. [518e-519a]
L’allegoria della caverna contiene anche la storia della vita e della morte di Socrate. Ma, soprattutto, affronta il problema della paideia in una prospettiva più complessa e meno ottimistica di quella di Pericle.
1. Dal punto di vista cognitivo, l’allegoria sostiene che l’ambito in cui ha inizio la nostra conoscenza non è quello della paideia come progetto consapevole, bensì quello della cultura nel nostro senso antropologico: nasciamo in un mondo di tradizioni, di luoghi comuni e di nozioni trasmesseci da altri. Ma una conoscenza che non mette in questione se stessa, interrogandosi sull’ambiente culturale in cui si forma, è destinata a rimanere provinciale ed esposta alla manipolazione. L’acquisizione delle idee e dei valori condivisi dalla comunità può avvenire anche in maniera inconsapevole e passiva, mentre si può ottenere una prospettiva autonoma e critica soltanto attivamente, in prima persona.
2. Dal punto di vista politico, le modalità della conoscenza determinano anche i caratteri della comunità: il mondo della caverna è un mondo chiuso e circoscritto, nel quale ha luogo una manipolazione tanto più efficace in quanto poco evidente. E’ possibile pensare a una comunità politica all’aria aperta, fuori dalla caverna? A questa domanda si deve rispondere negativamente: la cultura – nel senso antropologico del termine – è il luogo dove si forma la prima conoscenza, dove nascono le società e crescono le persone.
3. Dal punto di vista della teoria della comunicazione e della cultura, la paideia è una questione politica fondamentale. Per capire qual è veramente la vita politica di un popolo, occorre indagare su chi controlla il sapere, su come esso viene comunicato e sulla forma e sul grado della sua distribuzione. Il problema della pubblicità – cioè della natura dello spazio pubblico – è un problema filosofico-politico capitale.
Per Platone, a differenza che per Pericle, la comunità politica e la paideia non si identificano più, ma sono, anzi, in una opposizione che necessita di essere conciliata.