Papillon, detto Papi, è l’uomo della Fuga, l’oppositore irriducibile all’istituzione che perverte, l’eroe sovraumanamente alla ricerca della libertà. E’ la mitopoiesi fatta vita letteratura e cinema, in un gioco di specchi che folgora e annichilisce, in una corsa alla leggenda che raramente ha avuto simili rappresentazioni nel Novecento. Papillon è anzitutto uno scrittore e un carcerato spedito alla Guyana francese: si chiama Henry Charrière, il soprannome lo deve a un tatuaggio a forma di farfalla che porta sul petto. Charrière si darà a una lunga serie di fughe, che non otterranno l’esito finale della saga di Nick Manofredda, l’icona altrettanto mitopoietica interpretata da Paul Newman: Henry Charrière ce la fa a darsi alla macchia, dopo una serie di prove e di sconfitte che avrebbero schiantato qualunque essere senziente.
Papillon non è soltanto un carcerato, un uomo per cui la libertà e l’eversione divengono vocazione e norma: è il protagonista appunto di Papillon, uno dei romanzi che vendettero di più nell’arco del decennio settantino, romanzo autobiografico a cui Charrière lavorò con perizia salgariana e contrappunto tucidideo.
Tale fu il successo mondiale di Papillon, che esso fu tradotto su grande schermo. A interpretarlo, Steve McQueen nei panni di Charrière e Dustin Hoffman in quelli dell’amico Dega. Indimenticabile l’urlo prometeico del Papi di McQueen a fine pellicola: abbarbicato a un sacco di noci di cocco, in mezzo ai flutti dell’oceano, in fuga da un’isola di detenzione da cui è impossibile evadere, grida al cielo il suo memorabile “Sono ancora vivo, bastardi!”.
Per celebrare degnamente questo archetipo esistenziale e letterario, pubblichiamo due recensioni: al libro e al film.
IL MITO DELL’UOMO
di Eddy Felson
Omicida, ergastolano, fuggiasco, scrittore: queste le quattro tappe fondamentali della vita di Henry Charrière, detto Papillon.
Storia vera: nato in Francia nel 1906, condannato (ingiustamente? Si è sempre dichiarato innocente…) per omicidio ai lavori forzati a vita nel 1931, deportato immediatamente nelle terribili prigioni della Caienna, la Guyana francese. Dodici anni caratterizzati dall’alternanza tra gli orrori del bagno penale e gli innumerevoli, estremi e rocamboleschi tentativi di evasione (dalle atroci galere di Saint-Laurent-Du-Maroni, dell’Isola di San Giuseppe, dell’Isola del Diavolo, della Colombia, del Venezuela).
Disperato desiderio di libertà: è semplicemente questo che ha portato un uomo a rischiare quel poco che gli era rimasto (la vita, la salute mentale e poc’altro ancora) per fuggire alla carcerazione (vita come anticamera della morte, vita come assoluta mancanza di volontà, vita come costrizione insopportabile per uno spirito simile, una non-vita) e quindi guadagnarsi la possibilità di una NUOVA vita (rinascita assoluta ed abbandono di qualsiasi collegamento con il passato, avvenuta nel ’43). Relativamente alla libertà infine riconquistata Charrière scrive: “Ho trentasette anni, sono ancora giovane. Il mio stato fisico è perfetto, non sono mai stato seriamente ammalato, il mio equilibrio mentale, credo di poterlo dire, è completamente normale. Il marciume non ha lasciato in me delle tracce degradanti. Soprattutto perché credo di non averne mai fatto veramente parte”.
Autobiografia sì, ma parziale, poiché riporta gli avvenimenti relativi “solo” ai 12 anni di prigionia (la cosiddetta “strada della putredine”, così amava descriverla Papillon). Il crescendo delle emozioni, di pugni nello stomaco morali, di avventure costellate da numerose persone/personaggi alla stregua di un romanzo di appendice, fa di questo libro un cocktail esplosivo ed assolutamente unico, impreziosito dalle sorprendenti capacità narrative (sublimi) e da uno stile di scrittura (principalmente asciutto ed essenziale quanto basta, ma capace di divagazioni imperdibili) che suscita al lettore una autentica partecipazione alle vicende narrate; “Ciò che scrive è come te lo racconta, lo si vede, lo si sente, lo si vive” scrisse in merito Jean-Pierre Castelnau, il suo editore, il quale si fa anche completamente garante di tutti gli avvenimenti riportati (quindi, se non credete a ciò che leggete, sapete a chi rivolgervi).
A partire dalla data di pubblicazione (1969) questo “documento umano” si è trasformato in un caso editoriale, che è servito alla creazione del mito di Papillon, il re della fuga, il mito della Caienna, l’uomo d’azione, l’Uomo.
PAPI MCQUEEN
di Irene Bignardi
C’è nella filmografia di Steve McQueen una caratteristica quasi sempre presente, se si escludono le prime prove (tra cui non si può ignorare “Fluido mortale”, il celeberrimo The Blob immortalato come sigla della famosa trasmissione di Raitre). La caratteristica a cui accennavo è quella che vede McQueen interpretare sempre personaggi che si distinguono dalla media, animati da un desiderio di individualità e di libertà non comuni. Sia che interpreti il poliziotto di “Bullitt”, il bandito evaso di “Getaway”, il personaggio di Papà nel “Cacciatore di taglie” o il marinaio nell’epico “Quelli della San Pablo”, il pistolero nei “Magnifici sette”, il pilota ne “La 24 ore di Le Mans”, Steve dà ai propri personaggi una carica in più, quasi egli venga preso da un irrefrenabile desiderio di distinguersi, di affermare una individualità e una personalità propria e possibilmente in contrasto con le caratteristiche comuni, “medie” direbbe un sociologo o uno statistico. In questo suo modo di rappresentare i vari ruoli, molti per la breve vita e carriera che il destino gli aveva riservato (è morto all’età di 50 anni nel 1980) c’è spesso anche un gusto particolare nel dar vita sullo schermo a figure tese ad affermare un insopprimibile voglia di libertà contrapposta ad una situazione di coercizione che tale libertà invece nega.
Di questo se ne ha una viva rappresentazione in “La grande fuga”, da un episodio reale della seconda guerra mondiale sulla fuga di alcuni prigionieri angloamericani da un campo speciale di prigionia e dove McQueen dà vita ad uno dei personaggi più vivi. E poi “Papillon” che è l’apoteosi di un McQueen quasi libertario e anarcoide che non si adatta nemmeno alle terrificanti condizioni e regole dell’Isola del Diavolo, il famigerato campo di deportazione e prigionia della Guyana Francese, noto anche come Cayenna.
Nulla e nessuno riescono a piegare l’ergastolano Henri Charrière, detto Papillon (per via di un tatuaggio, una farfalla, che porta), nemmeno anni di isolamento e torture psicologiche e tormenti fisici di ogni sorta.
La storia del film “Papillon” è tratta dal romanzo autobiografico di Henri Charriere e narra la sua deportazione e il suo soggiorno alla Cayenna, oltre che i numerosi tentativi di evasione. Accusato di omicidio (e sempre proclamatosi innocente) Charriere venne condannato all’ergastolo. Dopo un primo tentativo di evasione in Francia viene deportato all’Isola del Diavolo (celebre anche per avere ospitato il famoso Capitano Alfred Dreyfuss, ingiustamente accusato di tradimento). Il film narra la storia dell’irriducibile azione che Charriere, contro tutto e tutti, metterà in atto per riconquistare la libertà. E narra la sua amicizia con Louis Dega (uno straordinario Dustin Hoffman), falsario mite quanto altrettanto tenace.
Una prova d’attore che vede Hoffman e McQueen rimpallarsi la scena come due autentici coprotagonisti in grado di oscurare o ridurre a contorno tutti gli altri. Che recuperano presenza e visibilità scenica solo quando i due non si vedono.
Del film bisogna dire che è abbastanza crudo e violento da giustificare il divieto ai minori (fasce d’età tra i 15 e i 18 anni) che molti paesi hanno imposto. Tra questi non figura il nostro dove il film è classificato per tutti.
Un altro particolare fa di Papillon un film non secondario, per quanto effettivamente il regista Franklin J. Shaffner si sia a volte lasciato andare a qualche eccesso, a momenti di ridondanza e di prolissità che sarebbe stato meglio evitare: la presenza come sceneggiatore di Dalton Trumbo, che interpreta anche una piccola parte sia pure senza essere citato nei credits. Dalton Trumbo fu uno dei “dieci”: il gruppo di personaggi del cinema più perseguitati dalla Commissione McCarty e a cui per anni fu letteralmente impedito di lavorare (cfr. il volume di Trumbo “Lettere dalla guerra fredda”) o furono costretti a farlo sotto falso nome e con gravi rischi per loro e per chi si prestava a coprirli.
Di Henri Charrière va detto che non riuscì a vedere questo film, tratto dal libro che aveva scritto nel 1969, perchè morì nel 1973 poche settimane prima che venisse terminato il montaggio e la postproduzione e il film uscisse nelle sale.
Di premi il film non ne ottenne alcuno: si segnala solo una nomination agli Oscar 1974 per l’autore delle musiche originali (Jerry Goldsmith e la nomination quale miglior attore per Steve McQueen ai Golden Globe.