di Giuseppe Genna
Reduce da una presentazione romana in cui, anziché parlare di thriller, ho dovuto a lungo interloquire sul tema ambiguo e scottante del terrorismo italiano nei Settanta/Ottanta, nottetempo sono stato assalito dalla più surreale delle emissioni di complottismo nella storia recente della cultura televisiva italiana. A muovermi l’attacco sottoculturale non era Claudio Brachino con i deliri cospirativoufologici di Top Secret, né Piero Vigorelli con apparizioni mariane, né Gabriele La Porta con arditezze new age. No: muoveva i suoi fendenti, in una sorta di resurrezione postuma ma anche posticcia del craxismo di base, l’imbiancato Claudio Martelli, che conduceva uno specialone tutto suo, su Canale5: un memorial Walter Tobagi, un monumento in forma di controinchiesta. Cioè: l’esplicitazione più allucinante del martiriologio socialista che cancella l’uomo, ucciso da Marco Barbone e dai suoi, per farne un santo laico, a scapito implicito di altre vittime meno illustri e garofanate. Il tutto, con una sorta di terzo grado penitenziale a cui si è concesso lo stesso Barbone.
Finito lo speciale, ho pensato che ha ragione l’amico che dice: l’Italia è un paese di merda.
La trasmissione era confezionata alla stragrande: regia bellissima, Martelli ex giovane che va in giro alla Michael Moore senza fare sorridere neanche un po’, Marco Barbone stempiato e contrito su sfondo nero come Peci al processo popolare o Nick Berg prima della decapitazione, Spataro messo sotto torchio che appare imbarazzato e gravido di escrescenze epidermiche. Montaggio veloce. Voce off di Martelli che fa la controstoria del processo e ambisce al ritratto emblematico del tempo. Immagini di repertorio di un allampanatissimo Giampaolo Pansa che stradice. Ex colleghi di Tobagi che, nel chiostro milanese di Santa Maria delle Grazie, accusano ex colleghi di Tobagi. Onnipresenza dell’ombra degli oscuri Mandanti, usciti da un incubo ridicolo alla Dan Brown. Direttori piduisti del Corriere che moraleggiano. Il povero Guido Passalacqua, gambizzato in casa dallo stesso Barbone, dipinto frettolosamente come “giornalista riformista” non essendolo mai stato. E, soprattutto, quest’aggettivo: “riformista”. Un santino al Riformismo, che nell’ermeneusi di Martelli sarebbe la pappa colloidale craxiana, esaltato a unica diga contro i terrorismi di ogni tipo, sola ricetta a uso del bon vivent da società civile che, a detta dello stesso Riformista, sarebbe l’unico esemplare umano a meritarsi l’aggettivo.
La trasmissione, un confetto zuccherino che non s’inghiotte ma si usa come supposta, riscrive in logica allegorica il periodo più tragico della già tragica storia dell’Italia contemporanea. Tobagi viene utilizzato come allegorema di tutte le vittime del terrorismo: una supervittima però, di cui si esaltano talenti e impegno sindacale prosocialista, illuminismo cattolico e cultura generale. Walter Tobagi ridotto a funzione , in pratica: il nostro caduto, di noi socialisti. Un cadavere apodittico. Colpirne uno per educare cento Garofani. Si dimenticano l’uomo, gli uomini, le storie. Si prende il volto della patrizia fidanzata di Barbone, Caterina Rosenzweig, e lo si manda in onda con un’espressione che nulla ha da invidiare a Mengele. Si mandano in onda segmenti inesplicati delle reazioni allucinanti alla sentenza Barbone, gli stridii da parte della gente in aula: le contestazioni a Barbone accusato d’infamia – ma senza contestualizzarle, un po’ come adesso fa Forattini nelle sue vignette dove si vendemmia l’uva immatura e si fa vestire Bin Laden con i colori della bandiera della pace.
A distanza di vent’anni, in pratica, l’uso esclusivo dei supporti mediatici dimostra scientificamente la sua insufficienza a raccontare la storia, le storie.
Il tutto viene condito dal compassato Claudio Martelli, molto casual in key-way, che insinua dubbi e ragionevolezze estremamente riformiste. Con un trancio craxiano doc: il segretario socialista, qualche mese prima di diventare premier, che tuona in un comizio che bisogna andare a fondo. Pochi mesi dopo, Tobagi non era più Walter, ma un Caso. L’uomo, ucciso, viene eliminato una seconda volta: la mutazione della carne in sostanza politica, la quale coincide sempre con un interesse politico, con una prospettiva politica – in questo caso, la prospettiva della mistificazione del Riformismo praticata dai socialisti negli anni Ottanta.
Qui però non si è trattato di una semplice esposizione storica – o parastorica -, venata da variabili complottiste. Qui si è praticata la verità di quel Riformismo forcaiolo. E lo si è fatto con il consenso dell’impiccando (mediale, è ovvio): cioè Barbone stesso. Era surreale vedere il volto penitenziale di Barbone che annuiva ai rilievi psicanalitici, storici, metafisici di Martelli. Martelli chiedeva il pentimento, esplicitamente: estorceva il pentimento, si potrebbe dire, con il placet del pentito. Un pentito che non lo era stato abbastanza, evidentemente. E’ grazie al pentimento che Barbone è stato ospitato solo per breve tempo dalle patrie galere. Ma il punto di vista riformista è un altro: a distanza di vent’anni si capisce che non bastava, quel pentimento, che era insufficiente, che bisognava completarlo con la performance giustizialista televisiva, l’aula del tribunale fattasi agorà Mediaset. E Barbone che diceva: non ho avuto persone che mi hanno insegnato da giovane l’amore verso il prossimo. Addirittura, l’allusione alla morte del figlio di Barbone, il che metteva, secondo Martelli, l’assassino di Tobagi sul piano della nemesi greca, accostandolo al padre del giornalista. E poi, il sottinteso: però tu hai fatto la vita, te la sei cavata, sei fuori, Tobagi no. Il lapso esposto a un pubblico ludibrio, a cui mancavano le risate in sottofondo come in Casa Vianello.
E dopo il pentimento mediatico? Ecco il nocciolo della questione, ecco il grande buco nero che scava dall’interno il processo di metabolismo storico di un’epoca italiana: il pentimento non basta. Non basta comunque. Non è sufficiente l’enunciazione catodica della colpa e del pentimento. Si vorrebbe di più. Si vorrebbe l’equiparazione al taglione del valore economico tra vittima e carnefice. Si vorrebbe un’onirica ricomposizione, l’eden della storia, l’algebra perfetta che azzera la somma delle colpe con la somma delle pene. Il che dimostra cosa succederebbe in ogni caso ad Adriano Sofri se si “pentisse”, come chiedono quelli di Alleanza Nazionale, del Giornale, di Libero.
Questo sogno disincarnato del benpensante – che non considera la storia qual essa è: storia. Che non riconosce il dolore e l’errore quali essi sono: dolore ed errore.
Questa incapacità del silenzio.
Questa aggressiva volontà di controllo sulla storia.
Questa laica ma gesuitica ipotesi di emendare lo sporco, lo sbaglio.
Questo perenne scrutare le cose umane come se fossero trattenibili nei confini geometrici degli stati centrafricani, per l’appunto imposti dal colonialismo di cui il benpensante è l’erede ultimativo.
E, in una simile disperata corsa all’equalizzazione astratta e fintamente emotiva della storia umana, ogni scusa diventa buona per entrare a gambe unite sull’uomo e sul suo dolore (si tratti di Tobagi o di Barbone, del dolore dei familiari di Tobagi o del dolore, certo diverso ma pur sempre dolore, dei familiari di Barbone). La scusa di Martelli era un’altrettanto astratta e anemotiva “verità”: la verità del Complotto. Caterina Rosenzweig fu lasciata fuggire in Brasile, scomparve: lei c’entra, i magistrati non furono metodici con lei. Spataro, un uomo che non mi muove nemmeno a un briciolo di pietà, faceva pietà per come veniva torchiato dai “sì, però” dell’ex vicepremier neopresentatore. E poi: perizie grafologiche segrete (uno scoop! L’ideologia dello scoop, altra appendice colonialista…) sul volantino che Barbone non poteva stendere in linguaggio tanto raffinato. E poi… E poi…
Mancava il silenzio. Manca il silenzio. Il silenzio di cui, comunque, la vedova Tobagi è stata capace, non intervenendo in questa traslitterazione allucinata di una vicenda umana. La vedova Tobagi ha motivato il silenzio dicendo a Martelli che dopo ventiquattro anni era ancora presto per poter parlare.
Che sia ancora presto dopo ventiquattro anni, è l’indice della devastazione intima e collettiva di questo paese di merda.