di Gioacchino Toni
Lo storico Eric J. Hobsbawm (1995), nella sua ricostruzione-interpretazione di quello che ha chiamato “Secolo breve”, il Ventesimo secolo, coglie, nella contemporaneità, l’idea diffusa che nel corso del Novecento si sia passati per una, seppur breve, Età dell’oro. L’autore individua nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e la prima metà degli anni Settanta l’apice di successo ottenuto dal modello capitalista su scala planetaria e, sul finire di quel periodo, la comparsa delle nascenti forme di quell’inquietudine che porterà dapprima alla contestazione e alla ribellione generalizzata, poi, con l’avvicinarsi agli ultimi decenni del Secolo, al senso di smarrimento e di disagio che si manifesta ai giorni nostri.
Gli anni ’80 sanciscono l’affermarsi di una serie di produzioni cinematografiche che “danno immagine” ad una problematica che inizia a diffondersi nell’immaginario collettivo occidentale: la mutazione. Sarebbe riduttivo restringere il campo di questo fenomeno a quel genere cinematografico che è stato definito New Horror degli anni Ottanta; le tematiche mutagene sono presenti con forza anche in film che col New Horror hanno ben poco a che fare.
«Mutazione è alterazione morfogenetica dell’organismo finalizzata all’adattamento dell’organismo all’ambiente. Nell’epoca presente la mutazione investe il corpo e la mente individuale a partire da una trasformazione delle tecnologie della produzione e della comunicazione sociale. (…) Il processo di adattamento dell’organismo cosciente all’ambiente sociale tecnologico ed infosferico non è lineare né previsibile; si tratta al contrario di un processo di microadattamenti che si molarizzano in forme contraddittorie e parziali. Questo processo non è né automatico né immediato, e non si può dunque spiegare in termini deterministici. Nel complesso, l’organismo vive questo passaggio con immensa sofferenza, con la sensazione di perdere la propria identità e di non sapere più riconoscere il senso del mondo, di non trovare più l’orientamento.» (Berardi 1991: 11-12)
La sensazione di perdere la propria identità è una delle problematiche più comuni e diffuse in questo scorcio di fine millennio che molto ha a che fare con la paura o, in misura minore, con la speranza della/nella mutazione. Si potrebbe dire che l’idea stessa di mutazione si sviluppa all’interno della forbice – post-moderna – della perdita dell’identità: resistenza alla, e bisogno della, mutazione.
Nei film degli anni ’80 e ’90, sembrerebbe possibile individuare alcune crisi di identità, e relative mutazioni in corso, all’interno del corpo sociale nordamericano. Crisi di quella che è sempre stata la classe cinematografica per eccellenza – la middle class -, in preda all’amaro risveglio post-reaganiano (licenziamenti, tenore di vita che si affievolisce fino ad avvicinarsi a soglie di povertà reale, immaginario e relativo mito americano disgregato…), crisi dell’identità, così come storicamente si è data, di gender (dei relativi ruoli nella società…) e quindi, inevitabilmente, crisi della famiglia, cellula-base della nazione e crisi dell’idea stessa di nazione, crisi dell’individuo nei confronti delle nuove tecnologie comunicazionali e dei relativi modelli di percezione delle realtà, mediatiche ed extramediatiche. Il cinema degli ultimi decenni, a modo suo, ha dato una rappresentazione di tutto ciò; compito nostro sarà di vedere come.
In queste pagine limiteremo la nostra analisi ad alcuni film di successo che, a cavallo tra anni ’80 e ’90, hanno, a loro modo, trattato la trasformazione postindustriale, trasformazione che ha comportato una vera e propria crisi d’identità in quella che, come abbiamo detto in precedenza, è stata la classe cinematografica per eccellenza; la middle class americana.
Il senso di crisi che ha investito la società americana è rappresentata dal cinema a volte come crisi temporanea di un modello fondamentalmente sano, ed altre volte come crisi totale, crisi dell’unico sistema sopravvissuto, o possibile, ormai in via di dissoluzione. E’ su questa doppia impostazione che si possono individuare due filoni, dai confini non del tutto marcati; uno nostalgico, teso a cullarsi sul mito di un passato felice, seppur duro, ed uno apocalittico – la “fine della storia” – supportato, però, da un innegabile fallimento di quanto è stato fino al momento sperimentato. «Non è stata crisi di una forma di organizzazione sociale, ma di tutte le forme.» Hobsbawm (1995: 24).
Negli Stati Uniti, tanto le istanze più progressiste, quanto quelle più conservatrici, hanno la tendenza ad individuare le colpe del degrado contemporaneo non nelle fondamenta stesse del modello americano, ma in sue maledette “deviazioni dalla linea retta”. Per la componente più reazionaria ora si sarebbe in balia di quanto ha prodotto la generazione della contestazione: la prima sconfitta militare della storia statunitense (Vietnam), la distruzione del nucleo-base dell’intera società (la famiglia), l’avvicinarsi minaccioso del disordine dei ghetti ai quartieri rispettabili (riot), il disordine sessuale (aids), la crisi dei valori (aborto)… Nelle letture più progressiste cambiano, parzialmente, le responsabilità, ma anche qui il male non è ritenuto endemico al modello, le colpe sono piuttosto ricercate in quella politica economica ultraliberista che, al potere, ha prodotto il cinismo individualista di uomini d’affari senza scrupoli (Wall Street) che distruggono quanto generazioni e generazioni di veri americani avevano pazientemente costruito. Anche qui torniamo, in definitiva, al mito dell’Età dell’oro, dei “veri valori”, della “vera nazione”, del “vero modello dell’american way of life” andati perduti perché traditi.
Insomma, quell’idea di vecchia-America socialmente unita e solidale, tanto di matrice conservatrice quanto progressista, vede nei mali dell’America contemporanea il crollo di tutti i suoi valori ad opera di elementi che hanno smarrito l’American way. La soluzione, in entrambi gli approcci, sta nel ristabilire l’ordine e la morale di un tempo. Come vedremo, la stessa struttura narrativa dei film su cui ci soffermeremo rifletterà un andamento narrativo classico del tipo: ordine infranto/ristabilimento dell’ordine iniziale, secondo le logiche consolidate della “redenzione”.
La tematica della redenzione – perlopiù della prostituta, da parte dell’eroe maschile – è infatti una tematica assai diffusa nel cinema hollywoodiano degli ultimi tempi. Degno di nota, su questa tematica, il saggio di Robert Burgoyne: «National identiy, gender identity, and the ‘rescue fantasy’ in Born on the Fourth of July» (1994). Un esempio su tutti, visto il successo al botteghino, il film di Garry Marshall Pretty Woman (id., 1991); qui ci troviamo di fronte alla vecchia favola che narra l’incontro tra una bella e sfortunata fanciulla ed un principe azzurro che finiranno per vivere insieme felici e contenti. Sappiamo, però, che le favole iniziano sempre con l’immancabile “C’era una volta…”; già questo ci induce a pensare ad un film pieno di nostalgia per, appunto, quanto c’era una volta… e, sembrerebbe, non esserci più. C’erano una volta, nell’America di un tempo, uomini che, grazie al loro spirito intraprendente ed a duri sacrifici, si facevano strada costruendo, giorno dopo giorno, un futuro per sé e per tutta la nazione. C’erano una volta, donne americane che amorevolmente si prendevano cura della casa paterna in umile attesa di incontrare l’uomo della loro vita, uomo che avrebbe offerto loro una nuova casa, ed una nuova famiglia, da accudire. Già, ma oggi cosa è restato di questa America? Yuppie rampanti e prostitute. Al successo dato dal duro lavoro quotidiano si è sostituita la ricerca del successo facile ed immediato, costi quel che costi, ed alle fanciulle tutta casa e famiglia in paziente attesa del loro uomo, si sono sostituite ragazze che vivono sulle strade vendendosi al primo venuto. Ecco i risultati del ’68, della generazione che voleva “tutto subito” e che si ribellava all’istituzione domestico-famigliare: una schiera di avvoltoi sempre pronti ad arricchirsi in pochi minuti del lavoro di una vita di onesti lavoratori, e ragazze sulla strada senza guida né casa. Tale lettura della contemporaneità statunitense è comune tanto ai film più smaccatamente reazionari, quanto a quelli – che si vorrebbero – più progressisti.
Un film su tutti si fa, invece, interprete dell’idea apocalittica di un’America in totale disfacimento, avviata inesorabilmente sul viale del tramonto senza alcuna speranza di salvezza; si tratta di America oggi (Short Cuts, 1993) di Robert Altman. Qui l’American dream ha lasciato il posto ad un vero e proprio American nightmare che nemmeno un cataclisma è più in grado di cacciare. Altman rappresenta, nel panorama cinematografico nordamericano, una sorta di lucido, distaccato e spietato giustiziere che, sulle strade di quell’American way of life (and dream), spara ad altezza d’uomo senza fare prigionieri; se in Nashville (id., 1975) prefigurava, nel finale del film, l’avvento del reaganismo con la sua carica di indifferenza e cinismo, ma lasciava aperta la porta a una generazione che ancora aveva voglia di vivere, «In Short Cuts, senza che Altman si erga mai a giudice, il paesaggio umano del postreaganismo risulta invece uniformemente desolato e desolante, squallido e depresso, infelice e miserando» (Bignardi 1996: 23). Soltanto un paio, in tutto il film, gli esseri umani che possono ancora dirsi tali, ma che pagano con la vita la loro innocenza: il bambino che muore in un tragico incidente accaduto proprio il giorno del suo compleanno (la ricorrenza del suo essere venuto al mondo, a questo mondo, si risolve nella sua esclusione dallo, e ad opera dello, stesso), e la giovane violoncellista che non riesce a resistere a tanta indifferenza e, consapevolmente, pone fine alla sua innocenza che rischia – è solo questione di tempo – di farsi complicità. E’ un mondo, quello narrato dal film, che non sembrerebbe lasciare spazio alcuno all’innocenza. Tutti sono complici, in un modo o nell’altro, l’innocenza non è ammessa, oltre che possibile.
Il film è ambientato a Los Angeles, ma come giustamente sottolinea Irene Bignardi (1996: 23) «più che un luogo Altman racconta una fascia sociale, l’America “trasversale” dei sobborghi, né ricca né, se povera, poverissima, sempre a rischio…». Insomma narra la tragica quotidianità di quella classe media americana alla deriva che vede il proprio tenore di vita, quando ancora esiste, insufficiente a dare un, qualsiasi, valore o semplicemente senso alla propria esistenza. Meschinità, cinismo, menefreghismo di una middle class, bianca, che vive all’ombra delle ville-bene californiane, che per oltre un decennio ha bleffato con se stessa caricandosi di sogni non in grado di realizzare – o di mantenere – che quello stesso mondo hollywoodiano – dal quale veniva lo stesso Presidente Reagan – che Altman aveva già “sistemato” l’anno precedente con I protagonisti (The Player, 1992), aveva creato ad arte.
Una società falsa, come falsa è la città ed i quartieri dove vivono – ad un passo dall’inferno dai ghetti in fiamme, e ad un passo dalle ville falsopalladiane patinate del mondo di celluloide -, falsa come le telefonate sexy-hard che una donna fa per lavoro da casa (i nuovi posto di lavoro americani…) mentre allatta il bambino, falsa come i convenevoli da tenersi in società o a letto tra perfetti sconosciuti. Short Cuts è, probabilmente, il film più cupo ed angosciante che l’America abbia prodotto dai tempi del Fritz Lang americano, ove nessuno è innocente e nessuno si salva, ove non sembrerebbero esserci vie d’uscita in vista; lo stesso terremoto finale non farà altro che rendersi complice degli eventi. Non c’è pietà alcuna, qui, per quella classe media americana uscita dalla sbornia reaganiana con qualcosa in più, o in meno, di un semplice mal di testa; una classe sociale totalmente priva di una propria identità, che ancora cerca disperatamente di restare aggrappata ai piani superiori, ma che, volente o meno, sta scivolando verso il baratro della povertà economica anticipata dalla già diffusa povertà sentimentale e morale. Il pessimismo altmaniano deriva forse dalla consapevolezza che la discesa di questa middle class non è, e non sarà, indolore, ma che procura, e procurerà sempre più, vittime tra chi si trova a passare sulla sua traiettoria, e che il contributo che potrà portare ai piani bassi della società americana, ha tutta l’aria di non essere dei migliori.
Hot soup on a campfire under the bridge
Shelter line stretchin’ ‘round the corner
Welcome to the new world order
Families sleepin’ in their cars in the Southwest
No home no job no peace no rest
The Gost of Tom Joad, Bruce Springsteen (1996)
Anche se le parole di Springsteen – che ci offrono l’immagine di un’America costretta a dormire nelle automobili sotto ai ponti, di un paese totalmente abbandonato a se stesso per il quale il nuovo ordine mondiale ha finito per significare soltanto “no home no job no peace no rest” – possono sembrare provocatorie ed esagerate per affrontare la rappresentazione cinematografica della middle class, eppure proprio queste sono le ossessioni con cui diversi film, direttamente o indirettamente, rappresentano la classe media. Il terrore di perdere quel lavoro che si era sempre considerato sicuro e la casa della quale non si riescono più a pagare gli interminabili mutui stipulati quando tutto sembrava andare per il meglio, il terrore di trovarsi improvvisamente all’interno di quell’ombra minacciosa di disperazione che dai sobborghi delle città sta, pian piano, allargandosi pericolosamente. La progressiva perdita di quella pace garantita da una giustizia che vale solo per chi può comprarsela, mentre in sottofondo dai ghetti cresce ritmata, e disperata, l’idea che non ci sarà pace fino a quando non ci sarà giustizia, “no justice, no peace!”, era lo slogan del riot di L.A. e di numerose altre metropoli nordamericane dopo l’impunito pestaggio poliziesco di Rodney King.
Di fronte a tutto questo la middle class rappresentata si trova smarrita; non fa parte di coloro che sono abituati (sic.) da tempo a fare i conti con la povertà, e nemmeno si sente più partecipe del “nuovo corso” americano. Di fronte a tale crisi d’identità, inevitabilmente, tende, spesso, a rivolgere il proprio sguardo al passato anziché al futuro. Così si sviluppa quella nostalgia per l’Età dell’oro di cui si accennava precedentemente, per quell’epoca ove gli uomini di successo erano persone comuni in carne ed ossa che avevano raggiunto il successo grazie al sudore del lavoro quotidiano ed ai valori della “vecchia America”, mentre oggi, qualche ombra dietro alle finestre di Wall Street in pochi istanti decide il successo (di pochi) e la sventura (dei più). Una generazione di americani cresciuta con sani valori che, improvvisamente, per chissà quale motivo, si trova a maneggiare tastiere di computer pericolose come i comandi delle testate nucleari, in grado di distruggere l’intero sistema costruito da generazioni di americani che si sentono ora traditi da quegli stessi figli che hanno messo al mondo.
Può il mito americano aver allevato un mostro? E’ possibile porvi rimedio, redimerlo dall’interno? O siamo di fronte ad un mostro che soltanto oggi inizia a mostrare anche alla middle class quanto milioni e milioni di individui, all’interno ed all’esterno del paese, conoscono già da diverso tempo?
Molti film che, in un modo o nell’altro, hanno affrontato questa crisi d’identità (economica e di immaginario) nella quale la classe media è venuta a trovarsi, tendono a rifarsi ad un’argomentazione che potremmo definire come la teoria del “corpo deviato di un sistema strutturalmente sano”. Il sistema americano, la sua logica e la sua democrazia, sono strutturalmente sane; è colpa di una deriva contemporanea se le cose non funzionano più tanto bene; «Ho paura che il tempo ci abbia scavalcato… di non conoscere questo nuovo contesto… Le cose sono cambiate…» argomenterà il titolare vecchio-stampo di una ditta in odore di serrata nel film I soldi degli altri (Other People’s Money, 1991) di Norman Jewison, ma, lo stesso film, suggerisce anche, per bocca dell’affarista senza scrupoli, che si tratta sempre dello stesso, vecchio, gioco: «potranno solo cambiare le regole, il gioco non lo fermeranno mai; io non abbandono, mi adeguerò».
Insomma, sono poi così diverse le logiche che guidano i giovani rampolli americani rispetto a quelle dei loro vecchi genitori? Se si dovesse giudicare dai presidenti che si sono avvicendati negli ultimi decenni, stando alle parole di uno dei più lucidi americanisti contemporanei, sembra proprio che le differenze generazionali non producano poi molte differenze pratiche; «se Jimmy Carter, eletto nel 1976 (…) aveva in buona misura anticipato le politiche sociali reaganiane, Bill Clinton sembra destinato a prolungarle dopo la sconfitta di Bush nel 1992.» (Cartosio 1995: 12); resta, comunque, il fatto che una profonda trasformazione si è comunque avuta comportando «la disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, vale a dire tra il passato e il presente» (Hobsbawm 1995: 28). In numerosi film assistiamo a questa frattura tra genitori, in qualche modo legati ancora ai valori ed ai modelli di un tempo, e figli che, paradossalmente, seppure cresciuti a base degli stessi valori dei genitori, oggi si trovano dall’altra parte della barricata nel contenzioso in cui la vecchia generazione si trova a dover fare i conti. Si pensi a film come Wall Street (id., 1987) di Oliver Stone, ove il successo – provvisorio ed effimero – del figlio si scontra con la rovina del padre, o come I soldi degli altri di Norman Jewison, ove la figlia, avvocato di successo, si troverà a dover difendere la famiglia, ed i relativi “vecchi valori”, dallo stesso ambiente che frequenta quotidianamente, e del quale fa ormai parte a tutti gli effetti.
C’è una parolina magica che, nel corso degli anni ’80, ha finito per far comprendere il suo vero significato anche a quei ceti medi che, finché non provano di persona, si rifiutano di mettere in discussione quella patina retorico-mediatica che riveste la “terminologia degli esperti”: ristrutturazione. Questo termine, anche per molti americani medi, ha significato un profondo peggioramento delle condizioni e dei rapporti di lavoro, se non, nel peggiore dei casi, il licenziamento vero e proprio. James Foley affronta tutto ciò con il film Americani (Glengarry Glen Ross, 1992) che – tratto da un’opera teatrale di successo di David Mamet, sceneggiatore dello stesso film -, narra le vicende di un piccolo ufficio di venditori di terreni (il titolo originale americano si riferisce proprio al nome di un lotto che sarà al centro della vicenda) per conto di una grande compagnia. E’ un film amaro, che non salva nessuno; non salva il giovane rampante che, parcheggiata la sua bmw rosso-fiammante in strada, viene a ristrutturare le modalità di gestione dei dipendenti dell’ufficio periferico, non salva il capoufficio insensibile a qualsiasi cosa che non finisca nel suo portafogli, non salva nemmeno i venditori che, quando non si incastrano a vicenda, si prestano in tutti i modi a rifilare, con ogni mezzo necessario, fregature a famiglie ingenue, contribuendo, non poco, a rovinarle levandogli anche gli ultimi risparmi messi da parte faticosamente in una vita di sacrifici. Non si salva nemmeno il venditore – della “vecchia scuola” – impersonato da Jack Lemmon che, disperato dal dover trovare i soldi per pagare le cure ospedaliere alla figlia, sarà costretto per cercare di restare a galla e mantenersi “competitivo”, ad affibbiare fregature ad ingenui cittadini. Quest’ultimo è però vittima dell’ingranaggio che lui stesso ha contribuito a creare – la “vecchia scuola” non lo ha reso di certo meno dannoso alla società e meno cinico dei giovani rampanti senza scrupoli, ed alla fine, oltre ad essere scoperto quale ladro – ruba, infatti, alla compagnia i contatti relativi ai nuovi clienti – viene a sapere che il suo ultimo successo professionale, la sua ultima ed ostentata vendita di terreni è stata fatta ad una famiglia di pazzi che si divertono da anni a prendersi gioco dei venditori come lui.
Nel frattempo piove. Piove sugli impiegati che sono alla ricerca disperata di qualche affare da concludere. Piove in continuazione. Soltanto quando, apparentemente, le cose sembrerebbero mettersi bene – qualcuno è riuscito a fare il colpo che progettava, qualcun altro a concludere un insperato contratto – splende per un attimo il sole. Le cose torneranno, però, presto a volgere al peggio, ed i primi tuoni di un nuovo, e forse peggiore, temporale iniziano a farsi sentire. Se sulla working class piovono pietre tutti i giorni, per rifarsi al detto inglese ripreso dal film Piovono pietre (Raining Stones,1993) di Ken Loach, sulla middle class non sembrerebbe però splendere, di questi tempi, il sole.
Le nuove regole del gioco si sono fatte spietate; o si vince – tutto – o si perde – tutto. Non c’è più spazio per la mediocrità, la guerra è totale, si è tutti contro tutti e, alla fine, soltanto uno sarà il vincitore. Le nuove regole della ristrutturazione sono sintetizzabili nel nuovo metodo di incentivi alla vendite adottati dalla direzione generale; si fa ancora riferimento alla classifica delle vendite degli impiegati dell’ufficio, ora però la distribuzione degli incentivi si è fatta cinica. Chi arriva primo si porta via l’ambita Cadillac, il secondo un semplice set di coltelli da tavola, chi arriva dopo riceverà il licenziamento.
«Le strategie ci arrivano dai capi», si difenderà il capoufficio di fronte alla ristrutturazione che avanza. La svolta che non fa che esasperare la competitività tra gli impiegati, viene, seppure ingenuamente, riconosciuta da un “venditore”: «adesso c’è la gara!», non che questa sia una novità, ora è però vissuta al suo massimo grado ed il venditore in questione fa parte di una generazione di impiegati che ha sempre abbassato la testa di fronte ai boss pensando di essere parte della mitica ed ostentata “grande famiglia”. «Sai qual è la parte più difficile? E’ smetterla di pensare come un fottuto schiavo!», riconoscerà amaramente durante uno sfogo con un collega.
Siamo di fronte ad una totale perdita di identità fondata sull’ “onesto lavoro quotidiano” svolto porta-a-porta, siamo di fronte ad una generazione che si credeva al sicuro da qualsiasi problema, una generazione che credeva di vivere l’American dream hollywoodiano, che era andata sulla luna insieme alla tv, che aveva battuto i “musi gialli”, vinto la guerra fredda, e che, in qualche modo, aveva persino preso parte, con il cinema, all’epopea western. Una generazione cresciuta con il mito della Cadillac – l’ambito premio riservato agli impiegati dalla sede centrale non è, infatti, una prestigiosa e moderna auto europea, la bmw dello yuppie che non ha, che non pensa di avere, tradizioni alle spalle -, del tritarifiuti e del frigorifero in cucina, delle due auto in garage e dell’abitazione di proprietà – con l’assillo dei mutui da finire di pagare – nei quartieri ancora, apparentemente, lontani dal divenire ghetti. Una generazione che non pensava certo che sarebbe stata licenziata da quella stessa società che avevano costruito e difeso quotidianamente e che ora, ingrata, li abbandona a se stessi. Qualche ingenuo barlume di speranza c’è ancora; si sogna di fare come il collega che, coraggiosamente, ha lasciato l’ufficio e si è messo in proprio, «…si è liberato» dalla schiavitù, ma oltre a dire di voler, prima o poi, seguire il suo esempio, non si va.
La fissazione di questi venditori sul viale del tramonto è quella di riuscire a mettere le mani sui “contatti” nuovi, quelli “buoni”. Questi contatti altro non sono che informazioni sui possibili acquirenti, nominativi selezionati accuratamente da qualche cervellone elettronico che ha fatto i conti in tasca alle famiglie, ha indagato sul loro tenore di vita, sulla loro disponibilità economica, sulla loro propensione all’acquisto e a farsi coinvolgere nella speranza di qualche buon affare che li elevi dalla loro condizione anonima e massificata. Di questi contatti, i nostri venditori, hanno bisogno come del pane, questi rappresentano ciò che impedisce loro di mettersi in proprio e svincolarsi dalle grinfie delle nuove strategie aziendali. Accapparrarsi, anche col furto, quelle informazioni, significa dotarsi degli strumenti necessari per potersi mettere competitivamente sul mercato. «Lavoriamo per il solo dieci per cento dell’affare… tutto il resto finisce in mano loro…», svincolarsi dai parassiti rappresenterebbe la possibilità di liberarsi dalla schiavitù, quasi che il mettersi direttamente, autonomamente, sul mercato rappresenti effettivamente una liberazione reale dalla dipendenza dal lavoro. Questa frenetica ricerca di informazioni – tanto segrete quanto preziose – rimanda alla sete di informazioni che gli agenti di borsa sperano di avere in esclusiva per battere in velocità la concorrenza. Altro elemento, la velocità, presente nel film che la spiccata derivazione teatrale riesce a rendere al meglio; la velocità è qui fatta di telefonate, di statici falsi-viaggi in aereo raccontati ai clienti, di dialoghi concitati, di coronarie a rischio, di frenesia nel solo attraversare la strada che separa l’ufficio dal bar all’angolo, di pioggia che cade e che costringe a correre per bagnarsi il meno possibile. E’ un falso movimento, un movimento virtuale, che, a suo modo, prefigura l’incombere della società contemporanea fatta di movimento di notizie, di informazioni e di staticità degli esseri umani. Questa velocità si associa anche ad un’accelerazione che il mercato si è dato, alla ricerca di profitti immediati che non conosce ostacoli di sorta.
C’è solo il tempo, per i nostri venditori, per qualche rimpianto, nemmeno troppo convinto, per un’epoca ove si doveva rispettare il cliente, in modo tale da riuscire a «vendergli cinque auto in quindici anni», mentre ora si tenta di succhiargli tutto in un sol colpo per poi andare a godersi il bottino sulle spiagge sudamericane. Il nuovo corso rampante non ha tempo da perdere e non pianifica nulla; morde e fugge.
A differenza di altri film, Americani non sembrerebbe concedere alcun credito nemmeno alla cara-vecchia-America, alla fase pre-reaganiana, prima che la ventata liberista portasse, sembrerebbe suggerire il film, soltanto un’accelerazione finale ad un’etica ed una pratica di vita che portavano già in sé – già nello sbarco in terra americana cinquecento anni orsono – il germe della competitività, della sopraffazione e, in definitiva, dell’autodistruzione.
(Segue)
Tratto da Cinéma — Rivista universitaria di studi sul cinema, Anno III, Nr. 5, febbraio 1997, Edizioni Kappa Vu, Udine.