Grande manifestazione per le due rapite. Tanti islamici in corteo
Nel corteo i musulmani d’Italia: “Simone libere e basta guerra”
Tutti d’accordo nel dire che i sequestri sono esecrabili e che l’occupazione dell’Iraq è stato un grave errore
di DARIO OLIVERO
Si muovono insieme alla gente che continua ad affluire affogati nell’odore della cera delle candele che si consumano nelle mani. Sono musulmani. Somale, curdi, tunisini, inglesi. Studentesse, medici, cassieri, camionisti. Sfilano nella grande manifestazione di Roma per solidarietà con Simona Torretta e Simona Pari, le due volontarie di “Un ponte per…” rapite in Iraq e delle quali non si hanno notizie da tre giorni. Ottantamila persone in tutto, secondo gli organizzatori. Tra loro associazioni di volontariato, Disobbedienti, Cobas, politici, sindacalisti, religiosi. Una fila di gente da Piazza Venezia fino a Piazza Vittorio dove ha sede “Un ponte per…”.
I musulmani presenti ripetono due cose: che chi ha rapito le due ragazze non è un vero musulmano, che quello che predicano i terroristi non ha niente a che fare con l’Islam. Gente che mostra coraggio a essere qui oggi. Che sente che le cose per loro potrebbero cambiare, che l’opinione pubblica potrebbe incominciare a vedere un terrorista dietro ogni musulmano, a considerare la religione di Maometto come un magma indistinto che mette insieme fanatismo e violenza. Per questo sono qui: per mostrare il vero volto della loro religione, la tolleranza.
Uno dei primi ad arrivare in Piazza Venezia dove sta per partire la fiaccolata è Hamidovic Nedzad, bosniaco, 46 anni, vive in Italia da quando ne aveva 37. Hamidovic è un Rom e sa a che cosa può portare l’odio etnico e religioso. Ha uno striscione fatto in casa: “Noi musulmani in nome di Allah chiediamo di lasciare libere le nostre due sorelle italiane”. Dice: “Siamo qui per testimoniare la nostra fratellanza. Noi non ci sentiamo sotto accusa per la nostra religione perché chi ha rapito due volontarie in nome di Allah non è un musulmano”.
Va bene. Ma basta dire questo? Basta dissociarsi? “Vorrei tanto sapere come si è arrivati a questo punto”, sospira Zeinab Ahmed Barahow, presidentessa dell’Associazione donne somale in Italia da 20 anni. Lei è le altre donne somale sono in testa al corteo. “Quello a cui assistiamo – spiega – i rapimenti degli occidentali, dei giornalisti, dei volontari sono un fenomeno nuovo che richiede una risposta politica. So che cosa vuol dire vivere in un paese in guerra e so che i governi occidentali hanno grandi responsabilità in quanto sta succedendo oggi in Iraq”.
E anche su questo punto i musulmani presenti hanno chiara un’idea: la guerra è stata un errore. Come dice Can Aslan, curdo, 35 anni, camionista da quattro anni in Italia. E’ lì con una decina di compatrioti. “La guerra di Bush non è stata dettata da motivi umanitari, solo da interessi economici. Nessuno più di noi ha conosciuto la ferocia del regime da Saddam Hussein, ma ora vediamo che l’Iraq è preda di delinquenti che parlano nel nome dell’Islam ma che non ci rappresentano”.
Ecco un altro problema, la rappresentanza. Quello che pensano i musulmani italiani presenti oggi sono maggioranza? Sono in grado di costituire un polo per il dialogo? Addes Attar, tunisino, 36 anni, da tre in Italia. Sociologo, frequenta un master all’Università Roma Tre. Si paga gli studi facendo il cassiere. Si affanna dietro al corteo appoggiandosi a una stampella, un regalo di un incidente d’auto di quando aveva 18 anni.
“La società civile araba – dice – è ancora debole. Ma negli ultimi dieci anni qualcosa si sta muovendo. L’Egitto ha fatto da apripista e i nuovi media come Internet e le tv satellitari stanno dando un contributo prezioso. Ora tocca ai grandi sapienti dell’Islam convogliare il desiderio di libertà. Il rapimento delle due ragazze non è solo un insulto alla religione, è un’offesa alla logica. E basterebbe un rafforzamento dei più elementari diritti civili nei paesi islamici a far crescere questa consapevolezza”.
Fatma (23 anni) e Imen (19) sono tunisine. Vivono in Italia da cinque anni. La prima studia lingue, la seconda economia. Sono un’embrione di futura classe dirigente. Sono qui con il velo, ma indossano jeans a zampa d’elefante e hanno una borsa di una nota marca di intimo. “Tanti vogliono capire la nostra religione”. Ma tanti non capiscono la vostra battaglia per il velo, una battaglia che è servita da pretesto per tenere in ostaggio due giornalisti francesi. Come la spiegate? “Quella legge è sbagliata, ma ancora più sbagliato è quello che hanno fatto i terroristi”. Non rischiate di suscitare la diffidenza degli italiani? “Gli sguardi della gente sono cambiati dopo l’11 settembre. Capita di sentirci chiamare terroristi”, ammette Imen.
Ormai è buio. Migliaia di candele strisciano nel cuore di Roma. Le portano gli amici delle due Simone. Tra loro si mescolano quelli di un’altra religione. Per loro potrebbero incominciare giorni difficili. Stasera sono qui per mandare un segnale.
[da Repubblica]