Cos’è?, il Darfur puzza? Centocinquanta bambini sequestrati a febbraio non meritano candele perché sono negri? Perché non servono a essere strumentalizzati dalla propaganda elettorale di Bush e della sua gang? Il Darfur è addirittura meno noto dell’Ossezia? Chi vince nell’allucinante partita a tennis della retorica occidentale? La quale interpretano, per primi, personaggi come le amiche di Marco Biagi, che hanno lanciato la catena per commemorare con una candela le vittime ossete, accusando sul ‘Corriere’ l’Italia tutta di anestesia emotiva. Anestetizzate saranno loro: del Darfur chi se ne occupa? Chi è rimasto choccato dalla disinvoltura dei bravi commissari UE, scesi a denegare che lì si sta consumando un genocidio, con migliaia di piccole indesiderabili vittime? Informatevi. O, vista la situazione della pubblicistica sulla tragedia immane del Darfur, controinformatevi. E, se non lo fate, ficcatevi una candela nel culo. [gg]
Le stragi non si fermano: il Darfur come il Ruanda?
di Daniele Bertulu
Il conflitto nel Darfur (nord-ovest del Sudan) appare sempre più insanguinato da atrocità di ogni tipo, commesse dai vari gruppi armati contro la popolazione civile. Secondo le dichiarazioni di alcuni operatori umanitari, si comincia a delineare lo spettro di un genocidio simile a quello che sconvolse il Ruanda nel 1994. Combattimenti, massacri ed abusi sono ormai all’ordine del giorno.
Le accuse più pesanti cadono sull’esercito regolare e sulle famigerate milizie filogovernative dei Jenjaweed.
Tuttavia, anche i ribelli del Sudan Liberation Movement/Army (SLM/A) e del Justice and Equallity Movement (JEM) non sembrano estranei a questa apparentemente inarrestabile spirale di violenza.
Gli ultimi e frammentari bollettini di guerra parlano di decine di morti tra i civili: fonti citate da Amnesty International e dalle Nazioni Unite denunciano raid di presunte formazioni paramilitari condotti nella prima metà del mese sul villaggio di al-Kureinik, in cui avrebbero perso la vita 15 persone, tra cui anche un bambino; ancora ai Jenjaweed sarebbe da imputare la strage di 9 adulti e 3 bimbi avvenuta a Aish Barra, non lontano dalla frontiera col Chad.
Sempre secondo l’ONU, l’aviazione regolare avrebbe bombardato i villaggi di Wad Hajar e Goweighin, nel Darfur meridionale, uccidendo otto persone e ferendone altre 20.
Gli Antonov governativi avrebbero anche colpito la città di Sherya, a quanto pare in concomitanza con un assalto dei Jenjaweed, come riporta un testimone all’agenzia Reuters; le vittime sarebbero almeno 7 (sei donne ed un bambino di appena un anno), ma un portavoce dell’SLM/A sostiene che “altri 15 ragazzini” risulterebbero al momento dispersi.
Il conflitto, intanto, continua ad estendersi oltre il confine col Chad: Amnesty parla di un civile ucciso nella città di Ouendalou e di un altro ferito ad Absogo, ad opera di una formazione di circa 35 Jenjaweed che avrebbero anche rubato un centinaio di capi di bestiame.
Le forze armate chadiane avrebbero reagito scofinando nella cittadina sudanese di Gogei, sulla base degli ultimi accordi intrapresi dai presidenti dei due Paesi allo scopo di assicurare una presunta “sicurezza” all’area.
Lo scorso 14 marzo i guerriglieri dell’SLM/A hanno attaccato la città di Buram (900 Km a sud est della capitale Khartoum), uccidendo “la maggior parte dei soldati che vi si trovavano”; il governatore del Darfur meridionale, Adam Hamid Musa, conferma la perdita di Buram, ma dichiara che vi sarebbero “solo due morti e tre feriti” tra la polizia.
Rapiti due cittadini cinesi
A circa 80 Km dal luogo del suddetto attacco, due cittadini cinesi che lavoravano per conto della North China Construction Company sono stati sequestrati dai ribelli; gli ostaggi, di 22 e 34 anni, erano di ritorno da un sopralluogo per la costruzione di impianti di estrazione idrica.
Nelle ultime ore, uno dei due operai è riuscito a fuggire ed a raggiungere una zona controllata dall’esercito sudanese, ma non sono stati rilasciati ulteriori particolari; appelli per la liberazione sono stati diffusi dal governo e dall’ambasciata cinese a Khartoum, oltrechè da varie organizzazioni umanitarie e dall’ufficio per gli affari Esteri degli Stati Uniti.
La tragedia di 100 donne a Tawilah
Il coordinatore delle Nazioni Unite per il Sudan, Mukesh Kapila, descrive ai microfoni dell’agenzia BBC il dramma consumatosi nella città di Tawilah, attaccata tra il 27 ed il 28 febbraio da militari sudanesi e Jenjaweed, che uccisero non meno di 75 abitanti.
Kapila afferma che più di un centinaio di donne sono state sottoposte a violenze sessuali da parte degli assalitori; in particolare, “sei di loro sono state stuprate di fronte ai loro padri, che in seguito sono stati assassinati”.
Al momento, Tawilah è stata quasi completamente distrutta; secondo l’ONU, durante la fuga i miliziani avrebbero anche sequestrato altre 150 donne e 200 bambini.
Scontri in un campo profughi a Khartoum
La guerra nel Darfur ha contribuito a far salire la tensione tra i rifugiati: la BBC dà notizia di feroci scontri esplosi in un campo profughi alle porte di Khartoum, che avrebbero provocato tre vittime, secondo quanto affermato dalla polizia; tuttavia, testimoni portano a 6 il numero dei morti.
Le violenze sarebbero iniziate in seguito alla decisione, da parte delle autorità, di far pagare una cifra pari ad un dollaro a tutti i rifugiati che si fossero recati nel vicino villaggio di Mayo per visitare i loro parenti.
Numerosi manifestanti avrebbero “dato alle fiamme un mercato, ed attaccato una stazione di polizia”; attualmente, almeno 2.000 rifugiati locali sarebbero stati forzatamente trasferiti in un accampamento limitrofo.
10.000 morti: la più grave catastrofe umanitaria mondiale?
Massacri a sfondo etnico, attacchi indiscriminati sui villaggi, fughe di massa, sparizioni e stupri: quanto basta, secondo l’ONU, per definire la situazione nel Darfur come “la più grave catastrofe umanitaria” vigente in questo momento nel pianeta.
Si parla di un vero e proprio disastro umanitario, in cui un numero di persone compreso tra 750.000 ed un milione è stata costretta ad abbandonare le proprie case; su tutto aleggia la minaccia di una vera e propria pulizia etnica attuata da governo e paramilitari contro alcune fra le oltre 90 tribù locali (tra cui Fur, Masalit e Zaghawa), di religione musulmano-animista ed africani neri, in contrapposizione alle caste arabe al potere.
Ancora Mukesh Kapila stima che dall’inizio della guerra (febbraio 2003) il numero di morti sia addirittura superiore a 10.000, molti dei quali civili; cifra contestata da Khartoum, che sostiene che le vittime siano “molte di meno”.
“Il conflitto sta entrando in un circolo vizioso, caratterizzato da gravissime violazioni dei diritti umani su scala comparabile a diverse situazioni storiche, ad esempio il Ruanda […] l’unica differenza con questo Paese consiste solamente nel numero di persone morte, assassinate, torturate o violentate”.
E mentre si avvicina la stagione delle piogge (che in genere comporta una riduzione degli aiuti umanitari), le Organizzazioni Non Governative non hanno ancora ottenuto la possibilità di accesso per centinaia di migliaia di profughi di guerra.
Se infatti sul confine col Chad qualcosa sembra muoversi (6.000 persone hanno ricevuto approvvigionamenti nella città di Bahai da parte dell’UNHCR), la costante insicurezza e le restrizioni governative non permettono il completo ingresso nel Darfur.
La situazione è a dir poco disastrosa ad al-Jeneina e nei villaggi circostanti, dove più di 100.000 civili si trovano senza acqua, cibo e medicinali. E secondo Amnesty, fame e malattie stanno mietendo qualcosa come 10 vittime al giorno nella cittadina di Mornay.
Solo 110.000 sudanesi hanno potuto raggiungere il Chad; altre centinaia di migliaia di persone vagano nei deserti o tentano di trovare riparo nei maggiori centri urbani, esposti tuttavia ai bombardamenti, agli attacchi ed alle scorrerie di esercito, Jenjaweed e ribelli.
Ancora violenze a sud. A rischio i colloqui di pace
Dopo i violentissimi scontri tra i ribelli ugandesi dell’LRA (Esercito di Resistenza del Signore) e la “coalizione” formata tra esercito di Khartoum e guerriglieri sudanesi del Sudan People’s Liberation Army (SPLA), le regioni meridionali del Paese non sembrano ancora tornate alla normalità.
A detta dell’ONU (che cita fonti del “dipartimento umanitario” dell’SPLA), forze governative e milizie alleate avrebbero sferrato una violenta offensiva nella regione di Shilluk, contro l’SPLA-United di Lam Akol, una fazione collaterale dei ribelli recentemente tornata sotto l’egida dell’SPLA propriamente detto.
L’esercito avrebbe attaccato numerosi villaggi, tra cui Alaki, Nyilwak, Adodo, Dinyo, Nyijwado, Obay e Pakang, costringendo alla fuga centinaia di persone; i morti e i feriti tra la popolazione sarebbero “numerosi”, ma non si hanno notizie precise a riguardo; sono anche stati riportati casi di violenze sessuali e rapimenti di giovani donne.
Le nuove violenze giungono mentre la situazione ai colloqui di pace tra governo e ribelli separatisti in Kenya (allo scopo di concludere la guerra civile che dura da oltre 21 anni) si sta facendo sempre più difficile.
Il controllo della contea di Abyei (rivendicata da entrambe le parti) resta ancora un nodo estremamente complicato, se si considera che il suo territorio ospita cospicui giacimenti di petrolio.
Oltretutto, emergono forti tensioni nell’ambito dei ribelli, sempre più divisi tra volontà secessioniste ed il desiderio di restare uniti al resto del Sudan; a tale proposito il governo degli Stati Uniti (che partecipa alla mediazione insieme ad altri Paesi confinanti) ha proposto di considerare Abyei come una zona “a statuto speciale”.
I nuovi combattimenti, le tensioni al tavolo negoziale e la tragica situazione nel Darfur stanno ritardando la firma di un accordo definitivo per il sud Sudan, che solo fino a pochi mesi fa era dato per imminente.
Il conflitto nel Sudan meridionale, in corso dal 1983, ha provocato oltre 2.000.000 di morti (soprattutto civili) e la fuga di altre 4.500.000 persone.