(da “La sindrome lunare e altre storie”, Robot speciale n.6, 1978)
Un pomeriggio, non si sa come, Liliana si trovò sola in casa. Per un po’ rimase a giocare con la vecchia bambola di stracci che era stato l’ultimo dono del nonno paterno, morto appena un paio di anni prima: la stiracchiò qua e là per la stanza, come era solita fare, e poi si stufò. Allora la raccolse da terra, la ributtò con violenza sul pavimento e vi saltò sopra con molta furia, quasi a voler decretare che quel giocattolo vecchio e logoro non l’interessava più.
Liliana non era una bambina particolarmente cattiva, ma andava soggetta a crisi di noia oltremodo irritanti. Suo padre le diceva spesso, da buon genitore di vecchio stampo, che proseguendo su quella strada non avrebbe mai trovato un marito, e forse sarebbe finita nella più assoluta miseria. Per rendere più chiaro l’esempio che le additava, quelle rare volte che uscivano assieme, una poverella magra magra che chiedeva la carità dietro l’angolo della loro casa; e nel lasciar cadere qualche monetina di poco conto nei sudici palmi della donna faceva una brutta smorfia, chiaro segno della sua disapprovazione.
La bambina non gradiva quel modo di comportarsi. Nonostante avesse solo dieci anni, intuiva vagamente che dietro il volto del’accattona si poteva nascondere un mondo di sofferenze che suo padre nemmeno riusciva ad immaginare. Per questo, o forse solo per puro spirito di contraddizione, elargiva splendidi sorrisi alla donna, sentendosi poi felice e quasi paga per un gesto tanto lodevole.
Ma quel pomeriggio Liliana era davvero cattiva. Che i genitori l’avessero abbandonata sola in casa era già cosa da farle perdere la pazienza: ma l’incredibile era che nemmeno la nurse si era presentata all’ora stabilita per tenerle compagnia. Tutto questo la rendeva quasi idrofoba.
Provò, per consolarsi, ad immaginare che la nurse fosse ammalata da morire, sepolta sotto mucchi altissimi di coperte, in un letto maleodorante; ma poi la fantasia le fuggì via da sola, e la vide in compagnia di un soldataccio sporco e rozzo che la frugava tutta con le sue manacce, facendole quelle certe cose di cui Liliana conversava a volte con le compagne, sottovoce per non farsi sentire dai grandi, che certo l’avrebbero picchiata.
Intanto il tempo passava, e lei si annoiava. Per quanto i pensieri sporchi sulla nurse col suo soldato fossero molto divertenti, capiva che era meglio abbandonarli, perché a Gesù non piace che i bambini immaginino certe cose, e un po’ perché, arrivata ad un certo punto, era costretta a fermarsi, ignorando completamente cosa poteva succedere dopo i baci e le carezze.
Così accadde che Liliana dovette cercare un’occupazione che la tenesse impegnata almeno per tre ore, fino al ritorno della mamma. E siccome le stanze della casa non offrivano nulla di particolarmente allettante, a poco a poco il desiderio di divertirsi la portò a pensare al solaio.
Una volta giunta a quella decisione, non stette a riflettere. Se appena si fosse messa a meditare, sarebbe stata costretta a rinunciare al progetto: era chiaro che la visita al solaio rappresentava un’aperta violazione alle proibizioni dei genitori, e delle più gravi. Non poteva nascondersi che almeno una volta al mese suo padre l’ammoniva, con faccia scura, sui pericoli che quel locale presentava, parlando di grossi topi affamati e di streghe a caccia di bambini. La mamma, dal canto suo, aveva addirittura composto una spaventosa poesia sul solaio, e talora gliela recitava appena prima che lei si addormentasse. Sembrava insomma che i grandi avessero paura di quel luogo, e volessero tenerlo ad ogni costo lontano da lei.
Il fatto è che Liliana non aveva mai prestato fede alle favole, allegre o tristi che fossero; e la prospettiva di quel pomeriggio solitario, tra quelle stanza che ormai conosceva a memoria, bastava a vincere quel po’ di rimorso dubbioso che la coscienza lasciava venire a galla. E se davvero fosse successo qualcosa, pensava, tanto meglio; avrebbero imparato a non lasciarla abbandonata a se stessa. Magari le avrebbero regalato qualche giocattolo in più per farle passare lo spavento.
Il problema fondamentale era trovare qualcosa per illuminare il buio di quella stanzona. Ricordava, dall’unica velocissima visita che vi aveva fatto in compagnia della nurse, che il solaio riceveva luce solo da una finestra triangolare posta molto in alto, proprio sotto la gigantesca trave che reggeva l’intera impalcatura dei muri. Era una luce molto debole, che riusciva a stento a filtrare tra gli strati densissimi di polvere sospesa nell’aria.
Cominciò a frugare nei cassetti dove il padre teneva la sua roba, guardandosi ogni tanto alle spalle per accertarsi che l’angelo custode o il diavolo non la stessero spiando; e dopo una mezz’oretta, quando già la speranza se ne stava andando, le riuscì di mettere una mano su una grossa torcia elettrica. Per sincerarsi che funzionasse bene l’accese e spense più volte, eccitatissima; poi rimise a posto, in fretta e furia, tutta la roba che aveva estratto dai cassetti, domandandosi se suo padre si sarebbe accorto del saccheggio.
Prima di partire fece un ultimo sforzo. Salì su una sedia, dopo essersi tolta le scarpe per non sporcare, e s’attaccò al bordo della credenza grossa, quella che teneva quasi tutta la sala da pranzo. Riuscì a leggere l’ora sulle lancette della sveglia: erano appena le quattro meno cinque. Aveva a disposizione tanto tempo, perché mamma non sarebbe di certo rientrata prima delle sette. Diede un colpetto di gioia alla credenza, e questo provocò una catastrofe. La sedia le sfuggì di sotto i piedi e lei precipitò a terra, urlando. Quando però si accorse che non si era fatta nulla di grave, e che nessuno dei mobili aveva subìto danni, tornò a rallegrarsi; e per una volta almeno riuscì a non piangere di rabbia.
Tutto era pronto. Bevve un bicchiere d’acqua, tanto per essere sicura di non dover morire di sete, e infilò nelle tasche della vestina un mucchietto di biscotti che si riprometteva di mangiare verso le cinque. Afferrò saldamente la torcia nella destra e, per quanto l’oggetto fosse abbastanza grosso e scomodo, riuscì a trovare la maniera adatta d’impugnarlo. Gettò una lunga occhiata a tutta la casa, agitando nervosamente la maniglia della porta d’ingresso, e le sembrò in quel momento che una voce e dicesse di desistere. Ma ripese presto coraggio, come accade ai bambini, ed uscì sul pianerottolo senza esitazioni, quasi trionfante.
Per arrivare in solaio le toccava salire una scala stretta e buia, costruita in un legno che minacciava in ogni momento di spezzarsi sotto i piedi. Era una prova di coraggio molto grande, per lei; infatti dovette recitare tre preghiere e farsi il segno della croce prima di tentare quegli scalini infidi. Pensò comunque che dopo tutto Gesù non avrebbe permesso che lei si uccidesse su una scala come un topo in trappola, e bastò questa considerazione, piena d’una fede incrollabile, a farla ripartire.
Reggendo la torcia in modo da avere un lungo fascio di luce davanti a sé, Liliana balzò con piglio guerriero sul primo scalino, alzando in modo spropositato la gamba; e mancò poco che non finisse col viso sul legno. Invece prese solo un leggero scivolone, come gliene capitavano tutti i giorni giocando e correndo con le amiche, e le venne da sorridere.
In seguito fu molto più attenta. Misurò compuntamente gli spazi tra un gradino e l’altro, s’aiutò con le mani, senza preoccuparsi della polvere nera e delle altre porcherie che s’annidavano intorno a lei. Pensava che tanto, in un modo o nell’altro, la mamma l’avrebbe picchiata e sgridata per quello che aveva fatto; e dunque era lo stesso presentarsi coperta di sporcizia.
Così fu che in capo a cinque minuti la bambina si ritrovò nel solaio. Aveva un poco d’affanno e si fermò a riguardare, sull’ultimo scalino, la difficilissima strada che era riuscita a percorrere. La scala era ormai tutta immersa in un’oscurità che nemmeno la torcia riusciva a diradare; ma non aveva paura perché sapeva che non c’era nulla in quel buio.
Adesso bisognava decidere da dove cominciare l’esplorazione. Il solaio era costruito secondo criteri piuttosto strani: c’era una grande stanza centrale, dove Liliana si trovava al momento; e da lì si dipartivano vari corridoi a circolo, in modo da formare come una grande ciambella. La finestra triangolare era nella stanza grossa; gli altri corridoi erano assolutamente privi d’illuminazione, per cui la torcia sarebbe stata indispensabile.
Dopo qualche istante di riflessione la bambina decise di osservare prima la stanza centrale, e d’infilare poi un corridoio a caso, il primo che le fosse capitato sotto gli occhi. Era sicurissima che non si sarebbe persa, per quanto nulla glielo garantisse; ma si sa come sono i bambini: quando credono in una cosa, sono disposti a tutto.
Cominciò a gironzolare attorno. Il suo unico desiderio era scoprire qualcosa d’interessante, magari vecchi giocattoli abbandonati lì da anni o giornali pieni di fotografie; e poi chi lo sa, un solaio è un luogo meraviglioso e può riservare quantità infinite di sorprese. Certo non voleva vedere scarafaggi o altre bestiacce del genere. Ricordava che suo padre le parlava d’un falco gigantesco, con gli occhi di fuoco, sempre in attesa di ghermire una preda per il pranzo. Ma Liliana era una bambina coraggiosa, e si ripromise che se lo avesse incontrato gli avrebbe ficcato in bocca la torcia elettrica e poi lo avrebbe riempito di calci e sputi, fino a farlo morire.
Sgranocchiando uno di quei biscotti che s’era portata, mettendo i piedi solo dove la luce diceva che non c’era pericolo, la bimba continuò ad aggirarsi per la stanza, fermandosi talora ad osservare con più attenzione gli oggetti che le sembravano interessanti. C’era ad esempio una vecchia pendola sventrata, con una sola lancetta e un cucù adagiato malinconicamente su una lunga molla, che di certo non avrebbe lanciato più richiami a nessuno; e c’era anche un cavallo a dondolo senza testa, che mostrava un mozzicone di collo tutto colorato a matita. Se ci ripensava poteva vagamente ricordarsene, anche se i particolari erano confusi: le sembrava di essere stata molto affezionata a quel giocattolo, di avergli dato un nome. Decise di riportarlo giù.
Fu in quel momento che successe qualcosa. Lei stava guardando, meditabonda, il cavallo, e d’improvviso da una delle casse che le stavano vicino schizzò fuori un topolino nero, molto piccolo, che si perse squittendo in uno dei corridoi laterali. Liliana fece un balzo all’indietro, spaventata; ma quando poi s’accorse che si trattava solo di un animaletto innocuo e simpatico provò a rincorrerlo, seguendo come traccia i suoi gridolini striduli.
Così arrivò senza volerlo, infilando un corridoio dopo l’altro, in un posto pieno di buio e d’odore; una specie di stanza rettangolare, piccola ma stipata di roba, dominata da un alto scranno di velluto dove la polvere sembrava non riuscisse a posarsi. Il suo cuore prese da solo ad accelerare i battiti, e lei tese invano le orecchie per raccogliere gli squittii del topolino: s’era fatto un silenzio mortale, carico di paura.
S’attaccò rabbiosamente alla torcia, stringendola con tutte e due le mani; ma pareva che lì dentro la luce annegasse nel buio. Provò ad avventurarsi fuori del locale, cercando di rintracciare la strada che aveva appena percorso; ma non ricordava assolutamente nulla, come se il suo cervello fosse stato una lavagna e ne avessero cancellato ogni scritta. Inoltre c’era il pericolo di perdersi anche più. Tanto valeva fermarsi lì e aspettare il ritorno dei suoi, che l’avrebbero salvata.
Ragionando a questo modo le riuscì di ritrovare un po’ di quiete, e rientrò docilmente nello strano locale. Avrebbe solo voluto, per non sentirsi così sola, rintracciare il topolino e tenerlo lì, magari insegnargli a fare qualcosa di divertente. Ma sembrava proprio che la bestiola si fosse persa nei meandri del solaio.
La stanza era piena di cassette e d’altre cose affascinanti, ma per il momento la bambina non se la sentiva di mettersi a cercare. Era stanca della corsa, desiderava riposare. Così le sembrò molto logico arrampicarsi sulla grossa sedia di velluto, attaccandosi caparbiamente agli enormi braccioli e spingendo con tutta la sua forza. Alla fine sedette, e per quanto si stupisse di trovare perfettamente pulita quella stoffa in mezzo a tanto luridume non stette a pensarci, per non creare altri problemi pericolosi.
Appoggiò la torcia sul velluto, in mezzo alle sue piccole gambe, e si concesse finalmente un sospiro di sollievo. Nonostante lo spavento e la terribile incertezza della situazione, il bugigattolo le dava una specie di conforto, come se da quelle vecchie pareti emanasse un fluido rassicurante. Stette anzi un momento per chiudere gli occhi, abbandonandosi ad un sonno forse inquieto e pieno d’angoscia; poi si riscosse e riprese a mangiucchiare un biscotto.
Gli occhi le vagavano intorno, scoprendo ombre nuove fra le cassette e i pochi mobili. Era come, pensò, trovarsi in fondo al mare e veder passare gli squali che non ti possono fare nulla: loro ti scrutano e desiderano la tua pelle fresca, ma tu stai tranquillo e puoi anche permetterti di sorridere alle loro spalle. Era davvero un posto magnifico.
E poi, d’improvviso, la paura la riafferrò. Stava silenziosamente ponderando gli usi che avrebbe fatto del cavallo a dondolo appena ritrovato; e, immersa in quell’atmosfera di tenero abbandono, udì gradatamente dei passi d’uomo farsi strada nei corridoi, avanzando con metodica precisione verso di lei. Il topolino, da qualche parte, riprese a squittire fortissimo, lanciando urla quasi deliranti che si spensero a poco a poco nel nulla, lasciando solo il rumore di passi pesanti.
Istintivamente chiuse gli occhi e si portò le mani alle palpebre, in un gesto difensivo che le era solito. Era ormai completamente circondata dall’oscurità, la stanza si faceva maligna e cattiva, precipitandola in un abisso di terrore. Immaginò velocissima una danza di streghe attorno alla sua testa, e il fuoco che le mordeva rabbiosamente il corpo fino a farlo morire.; e intanto i passi si facevano più vicini, sempre più vicini, finché non si fermarono sulla soglia.
«Ciao», disse una voce d’uomo.
Stava quieta quieta, come assopita, persa ormai sulle tracce degli incubi della notte, rivedendo in guizzi lampanti i volti dei mostri che aveva immaginato nelle lunghe sere d’ogni inverno. Quella voce non poteva essere reale, come non era reale tutto il resto; e tra poco si sarebbe svegliata urlando per correre dalla mamma a farsi coccolare, leggendo anche negli occhi di lei uno spavento che non aveva motivo d’essere.
«Liliana», sussurrò l’uomo, piegandosi, «guarda cosa ti ho portato».
Riaprì gli oocchi, e sussultando vide un altissimo uomo inginocchiato ai piedi della sedia. Gli stava nella destra un topolino, forse lo stesso che lei aveva inseguito, immobile, come toccato dalla morte. Ed era invece straordinariamente vivo, perché il so sguardo si puntava terrorizzato sulla bambina, quasi a chiedere aiuto.
«Lascialo andare», implorò Liliana. «Non ti ha fatto niente».
L’uomo scrollò il capo, ed era senza dubbio di quella schiera di esseri che bussano notte e giorno alle porte dei bambini per portarseli via e farli cuocere nei grandi pentoloni della magia, come le raccontava sempre suo padre. Quanto avrebbe voluto non aver disobbedito: a quell’ora si sarebbe trovata in cucina a spalmare di marmellata i biscotti, cercando di scacciare la noia con l’indifferenza.
L’uomo sedette dignitosamente su una cassetta a la fissò in viso.
«Adesso», fece, «ci divertiremo».
Sempre tenendo il topetto in una mano, con l’altra estrasse un sigaro dalla giacca, se lo infilò in bocca e l’accese. Il fumo volò via verso l’alto come una nube da temporale, restò sospeso sulle loro teste. Liliani lo osservò sperando di trovarvi un motivo di distrazione, ma inevitabilmente i suoi pensieri tornavano a quell’uomo cattivo.
«Adesso guarda», disse lui.
Afferrò il topo per la coda e lo fece roteare un paio di volte su se stesso, lasciando che squittisse a perdifiato. Poi lo tenne sospeso nell’aria, a testa in giù, e cominciò ad avvicinargli il sigaro, muovendo la mano in cerchio. La bestiola si dimenava come invasata dal demonio, e squittiva e gridava; ma l’uomo era implacabile. Presto avrebbe finito col bruciarlo.
«Ti prego», disse Liliana.
In un attimo il sigaro raggiunse il topo, e l’urlo si fece altissimo. La bambina si coprì le orecchie ma non le riuscì di chiudere gli occhi, che seguirono da soli l’agonia. La bestia continuò ad agitarsi per un po’ mentre un odore atroce si spandeva attorno, e poi finalmente giacque sienziosa e ricadde a terra come una piuma senza peso.
L’uomo la guardò e sorrise.
«Come preferisci morire?», chiese.
Liliana si rattrappì sulla sedia e cercò di contare fino a mille.
«Potrei legarti ad una ruota di tortura e farti patire per dieci ore. Oppure darti in pasto a certe bestie che so io. O strangolarti con le mie mani, come meriteresti».
Si alzò e le venne vicinissimo. Quasi le cadeva addosso. Sentiva il suo fiato nauseabondo sfiorarle il vestito, mentre una delle sue mani le carezzava malignamente una gamba.
«Guarda il mio collo», le disse.
Lei alzò gli occhi e guardò. Aveva il collo pieno di lividi violacei, profondissimi, che sembravano aver bucato la carne fino alle ossa. L’uomo sorrideva e continuava a risalire con la mano le sue gambe, dandole brividi.
«E’ stato tuo padre», sussurrò. «Io ero innocente, e lui mi ha condannato. Lo ha fatto per cattiveria, perché mi odiava. Un uomo infame, tuo padre. E così mi sono impiccato in cella, ma questo non importa».
Lei tentò di divincolarsi, di fuggire da quel contatto. Ripensò a tutte le storie che conosceva, a come potevano essere le fate, se davvero esistevano. Singhiozzò.
«Non avere paura», le disse l’uomo.
La prese in braccio, gettando a terra il sigaro. Sedette sulla poltrona di velluto con lei sulle ginocchia e continuò ad accarezzarla, da per tutto. La torcia si spense da sola. L’oscurità piombò su di loro dopo un poco.
«E’ quasi notte», sussurrò lui.
Fu come in un caleidoscopio: si guardano i vetri formare delle figure incredibili tanto sono belle, e dopo un attimo tutto è scomparso e qualcosa di nuovo acceca gli occhi, con lo stesso splendore di prima.
Lui fece balenare per un attimo un piccolo coltello, traendo da chissà dove tutti quei riflessi, e la guardò raggiante.
«Buona notte, dolce notte», le disse.