Il film di Jonathan Demme, presentato fuori concorso, è una scudisciata alla convention repubblicana.
Magico e militante, aguzza lo sguardo sugli Usa, si insinua nelle stanze
del potere, negli intrighi tra politica
e multinazionali
di Cristina Piccino
Lo scorso anno Jonathan Demme era arrivato sul Lido con The agronomist, un documentario magnifico dedicato al suo protagonista Jean Leopold Dominique, protagonista della resistenza a Haiti – paese che Demme conosce in profondità (ha prodotto anche un album di musica haitiana, Konbit e pubblicato quattro libri sull’arte a Haiti) – assassinato nell’aprile del 2000 sui gradini della sua stazione radio. Dominique cercava di produrre consapevolezze con la sua voce instancabile, parlava chiaro e forte, senza compromessi, ferocemente critico anche con le scelte attuali del suo ex-compagno di lotta Aristide, pure se poi gli «esiti» della sua parabola, la cacciata dal paese supportata ancora una volta da interessi stranieri (Francia e Usa), dimostrano quanto le cose siano ambigue e stratificate.
Poteri e politica. O meglio multinazionali e politica. Il nocciolo del contemporaneo, ce lo spiegano questi giorni sulla spiaggia no-global (e oggi arriva anche il film di Naomi Klein e Awi Lewis The take) e ce lo dice ancora una volta Demme nel suo ultimo, splendido The Manchurian candidate «remake» del film diretto da John Frankenheimer nel 1962, Và e uccidi, con Frank Sinatra nel ruolo che oggi è di Denzel Washington. Remake come lo era The Truth about Charlie altro film bellissimo passato in sordina. Tra i tre stessa tensione politica, stesso sentimento di una paura indistinta che produce manipolazione e perdita di memoria intesa come coscienza indipendente. E che nei giorni della convention di Bush e delle retate destinazione la «Guantanamo sull’Hudson» risuona ancora più forte.
Demme ha la faccia stanca quando arriva all’incontro stampa ma sorride, gentile e caloroso con tutti. L’applauso è lunghissimo, un’ovazione per lui e naturalmente per gli attori che lo accompagnano, Washington, Liev Schreiber e Meryl Streep. Il tempo purtroppo pochissimo, time-table rigido delle major che non concede margini. The Manchurian candidate uscirà in Italia probabilmente a novembre.
Negli Stati uniti si sta giocando la partita per la presidenza. Ieri Bush è arrivato alla convention, vedendo il suo film è inevitabile pensare immediatamente al presente…
Quando ho cominciato a lavorare a The Manchurian candidate avevo in mente un thriller, l’idea era di forgiare il film in una forma simile al Silenzio degli innocenti, partendo cioè dalle psicologie di personaggi che vivono una fortissima esperienza emotiva. È chiaro che qui siamo nell’ambiente politico, di dominio sul mondo, le incursioni legate all’attualità sono inevitabili. E anche necessarie, rivisitare film e sceneggiatura originali aveva senso se portati in una dimensione presente. Il romanzo di partenza (di Richard Condon, ndr) è stato scritto nel 1959. Già allora si parlava di torture, di lavaggio del cervello etc… Oggi si usa la tecnologia, si inseriscono dei chips nel cervello della gente. La motivazione è sempre la stessa, la paura del mondo esterno. Negli anni Cinquanta era il comunismo, oggi è il terrorismo a mettere in pericolo il popolo americano. Agendo su questa paura si può arrivare a un controllo del pensiero. La paura infatti porta la gente a accettare anche la guida di un governo nel quale non si riconosce pienamente, a tollerare leggi intollerabili perché fatte in nome della sicurezza e per il bene collettivo.
La Manchurian del titolo è una potente multinazionale che col suo denaro determina le scelte politiche. Investe in armi, tecnologie di guerra etc. Un po’ come le società controllate da molti esponenti del governo Usa, tra le prime a garantirsi gli appalti più ricchi in Iraq.
In effetti non avremmo potuto scegliere momento migliore per raccontare questa storia sulle dinamiche del gioco politico e sulle forze che cercano di destabilizzarlo. Negli Stati uniti si sta vivendo una grande tensione, sono in tanti che cominciano a chiedersi seriamente quanto il denaro influenzi la politica. La percezione diffusa è che sia così, che i giochi economici di pochi contino più degli interessi di tutta la società. Da americano penso che il nostro paese su questo punto ha un enorme problema. I nostri leaders politici sono andati nella direzione sbagliata, vogliono impossessarsi del mondo per avere degli utili senza fine e pensando che il controllo totale cancelli anche la possibilità di qualunque attacco. È una situazione comune anche a altri paesi, c’è molta gente che non ama i propri governanti perché sono persone troppo ricche, troppo legate agli interessi economici. Il loro non è un governo del popolo e per il popolo. Forse da noi la situazione è un po’ più grave e per questo in molti speriamo che si torni a una maggiore democrazia, dove sia possibile riconoscersi in senso ampio nelle scelte dei politici al governo. È la partita che si sta giocando questi giorni, e la posta in gioco tra due mesi.
Parlava di una costruzione emotiva. Al di là della lettura sul contemporaneo, cosa l’ha conquistata in questa storia?
La questione della memoria, ha un’enorme importanza nella vita di tutti che forse non riconosciamo. A volte anch’io cerco di ricordare cosa è accaduto, i fatti più insignificanti, mi capita di prendere appunti sul computer… È stata una delle prime cose che abbiamo discusso con Daniel Pyne (cosceneggiatore insieme a Dean Georgaris, ndr). La principale preoccupazione rispetto al romanzo di Richard Condon, era di rendere credibile al massimo il lavaggio del cervello subito dai protagonisti. Ci siamo documentati a lungo, avevamo dei consulenti medici e scientifici, dovevamo sapere per comprendere le conseguenze di simili procedure.
Era fondamentale che gli aspetti scientifici facessero riferimento alle effettive tecnologie in uso oggi, ma era altrettanto importante sottolineare i pericoli a cui tale progresso potrebbe condurci in futuro. La memoria è un terreno affascinante, scompare e poi pian piano riaffiora nei due amici. Cominciano a avere gli stessi sogni, le stesse folgorazioni che sono la lotta tra lo spirito umano e le tecniche del controllo a cui lo hanno sottoposto.
[da il manifesto]