di Luciana Sica
“Non aspettare di essere morto per lasciarti andare. Lasciati andare ora”: è una battuta di una qualche laica saggezza che ama ripetere Alexander Lowen, il fondatore dell’analisi bioenergetica, un signore nato a New York da una coppia di immigrati ebrei nel 1910. Oggi vive in una villa di campagna del Connecticut ed è stupefacente come continui a curare pazienti e a formare allievi, nonostante i suoi tanti anni: il prossimo dicembre ne avrà novantaquattro. Bioenergetica s’intitola uno dei suoi libri di maggiore successo, uscito in America nel 1975 e da noi per la prima volta vent’anni fa, che ora Feltrinelli ripubblica in un’edizione economica. È un libro che ha già venduto ventimila copie, e del resto anche altri saggi di Lowen – da Il narcisismo a Il linguaggio del corpo, a Amore e orgasmo – hanno conquistato un pubblico di lettori ampio. Un interesse piuttosto insolito per una produzione saggistica, e non solo di natura intellettuale se intanto, anche sul versante clinico, si vanno sempre più diffondendo le tecniche terapeutiche che si rifanno, seppure in forme diverse, ai modelli teorici di Lowen.
Modelli molto distanti dal celebre divano freudiano, da un’impostazione che tradizionalmente privilegia la parola e la tendenza a mentalizzare i conflitti. Qui l’attenzione si sposta e si concentra nettamente sul corpo, sulle sue posture, le tensioni, le rigidità, fino a certi blocchi muscolari che spesso producono malattia. Un corpo che non è vuoto, un puro contenitore, ma un “luogo” capace di esprimere l’identità, anche quella più profonda, di manifestare i segni più vistosi dell’Io come le tracce più sottili dell’Inconscio, non solo la coscienza ma anche la memoria di un passato più o meno felice, più o meno doloroso, in ogni caso mai sepolto una volta per tutte. Lowen è stato allievo di Wilhelm Reich, di un genio per molti versi, ma dalla personalità disturbata se nella parte finale della sua vita identificava sé stesso con un messia e l’energia sessuale con Dio. Quando Reich confidò a Einstein che molta gente lo considerava pazzo: “Davvero non esito a crederlo”, fu la risposta raggelante del padre della relatività che gli voltò le spalle. Famoso e discusso, il pioniere della “rivoluzione sessuale”, tra i discepoli (della seconda generazione) più brillanti di Freud, l’autore di Psicologia di massa del fascismo non meritava comunque di morire a sessant’anni in un carcere, dov’era finito dopo un’invenzione effettivamente pazzesca, la famosa scatola di legno che avrebbe dovuto funzionare come un accumulatore di vigore erotico, una specie di paradiso racchiuso in una cabina. è nell’autunno del ’40 che Lowen s’iscrive a un corso tenuto da Reich sull’analisi del carattere, e più precisamente sul legame tra la tensione muscolare cronica – definita body armor, armatura corporea – e la personalità nevrotica. Sono teorie nuove, eterodosse rispetto all’impalcatura complessiva del pensiero freudiano, e Lowen ne è così affascinato da intraprendere una terapia con Reich che durerà tre anni, dal ’42 al ’45. I rapporti tra i due, mai davvero stretti e mai apertamente conflittuali, non saranno comunque destinati a un lungo idillio intellettuale: mentre Reich si allontana dall’analisi del carattere, preso dai suoi esperimenti sull'”orgone”, Lowen prende le distanze dal suo antico mentore, si laurea in medicina a Ginevra, continua la sua formazione personale e nel 1956 fonda l’International Institute for Bioenergetic Analysis di New York.
Signor Lowen, che cosa deve a Reich?
Gli devo molto. È stato il mio maestro e il mio terapeuta. Non il solo, ma non sarei dove sono oggi, se non ci fosse stato lui. Alla fine della sua vita, non ci stava più tanto con la testa, su questo non c’è dubbio. Ma succede ai geni, e secondo me anche oggi ci vorrebbe un pazzo per vedere la follia della nostra cultura.
Direbbe che l’analisi bioenergetica sia stata il frutto del suo lavoro con Reich?
Reich rimane il punto di partenza, ma fondamentalmente la mia terapia è stato un viaggio di autoscoperta: ho sviluppato l’analisi bioenergetica per applicarla a me stesso prima che ai miei pazienti. In fondo i problemi che avvertivo non erano così diversi da quelli di tanti altri.
Problemi risolti?
Mai del tutto, ma progressivamente mi sono sentito sempre più in pace con me stesso.
Un buon risultato. Ma, per lei, è questo che vuol dire stare bene?
Non proprio, o almeno non solo. Per me, stare bene vuol dire soprattutto avere un senso di vitalità e di allegria nel corpo, sentirsi a proprio agio. Ma per ottenere un risultato del genere, occorre un lavoro molto lungo, e a volte non basta l’intera vita.
La clinica bioenergetica ha la caratteristica di non basarsi esclusivamente sulla parola, ma di coinvolgere il corpo. Lei come risponde ai critici che non considerano “etico” toccare il paziente?
La nostra è una terapia che ha la componente analitica verbale e il lavoro corporeo, e tende ad armonizzarli. Il terapeuta, per certi aspetti, rappresenta il sostituto di un genitore. Si può essere dei bravi genitori se si ha paura di toccare i propri figli? Io non lo credo, ma si può essere pessimi genitori, estremamente distruttivi, se toccare i figli assume connotazioni sessuali. Ecco, il terapeuta che non sa controllare il modo in cui tocca un paziente non dovrebbe mai farlo. Se i pazienti possono fidarsi di te, allora il contatto fisico non è una violazione della fiducia, se invece non possono fidarsi di te, non li toccare!.
Secondo lei, i terapeuti che fanno bioenergetica sono tutti ben formati e qualificati?
Sfortunatamente no, non è così. Uno dei motivi è che ci vuole metà della vita per imparare come si fa la bioenergetica: non sono consentite improvvisazioni. Servono diverse esperienze che si acquisiscono lentamente, innanzitutto con il lavoro davvero interminabile su sé stessi, sui propri problemi. In ogni caso, non potrei mai convincere i miei detrattori, perché in realtà nelle loro critiche proiettano un’ansia profonda, procurata dall’idea stessa del contatto fisico.
Magari non tutti si sentono votati a una teologia del corpo, non crede?
No, credo ci sia soprattutto una resistenza alla dimensione della corporeità. Per quanto mi riguarda, è importante parlare poco, quanto basta per capirsi, e concentrare gli sforzi sugli esercizi fisici, a cominciare dal modo in cui il paziente respira. È fondamentale che lo faccia correttamente, per il rapporto strettissimo che esiste tra le inibizioni psichiche e l’insufficienza delle funzioni respiratorie. Un paziente può raccontarmi la sua storia per anni, parlare a lungo delle sue difficoltà emotive, ma non è detto che comprenda mai quali siano realmente queste sue difficoltà, né che sia io a comprenderle, questo è il punto.
Qualcuno sta male e si presenta nel suo studio. Lei che fa?
Certamente non gli chiedo qual è il suo problema, non subito ad ogni modo. Osservo il suo corpo per capirne l’assetto, se è sano o malato, se è vivo e vibrante oppure no. è questo che faccio, durante la prima seduta. Quando viene da me, il paziente parla, e intanto io lo studio. Cerco di localizzare i suoi problemi guardando i suoi occhi, il viso, le spalle, o anche i piedi, il modo in cui stabiliscono il legame col suolo, con la terra, quella che noi chiamiamo grounding che è la base stessa della vita, come le radici per l’albero.
Ma perché tutta questa diffidenza per la parola, per il Logos che non sarà forse alla base della vita, ma certamente della nostra cultura, e non è poco, non le pare?
La nostra cultura non ci ha reso né più sani né più felici, e comunque se fosse possibile cambiare profondamente le persone con le parole, lo farei senz’altro, ma ho visto che le parole non bastano a trasformare le persone. Se stai male, puoi parlare quanto vuoi, ma è il tuo corpo che dovrà cambiare, con un lavoro che richiede molto, molto tempo. Solo se la tua energia corporea è più viva e forte, allora sì, è possibile un cambiamento.
L’ultima domanda è anche personale, ne faccia quindi l’uso che crede. Da qualche tempo lei ha perso Leslie, la donna che ha sposato a 32 anni, a cui ha dedicato molti dei suoi lavori. Siete sempre stati insieme. Le chiedo: cosa sorregge un essere umano di fronte a un lutto così grave? Insomma, che possiamo fare quando siamo davvero preda del dolore?
Possiamo piangere. Anzi, dobbiamo farlo tutte le volte che avvertiamo un dolore, sia fisico che spirituale, perché altrimenti non ci liberiamo neanche un po’ dall’angoscia, e nulla potrà rendere meno acuto il dolore. L’unico modo immediato che abbiamo per superare gli eventi tragici della vita è piangere, esprimere il sentimento della sofferenza, liberare la tensione che è in noi, aumentando l’energia del nostro corpo. Ma non voglio sfuggire all’aspetto personale della sua domanda: è stato difficilissimo elaborare la perdita di mia moglie, capire che non le avevo dato abbastanza amore e sostegno durante il nostro matrimonio. Il dolore permane, ma nello stesso tempo oggi mi sento più consapevole e riesco a lavorare meglio su di me, sui miei sentimenti.
[da “la Repubblica”, 9 aprile 2004]