Piero Barale, Il cielo del popolo del faggio, Sole Luna e stelle dei Ligures Bagienni, 183 pagine, Editore Associazione turistica pro loco La Torre Pollenzo
Piero Barale, le stelle pietrificate nel cielo di Cuneo
recensione di Giuseppe Brunod
Lo studio dell’archeoastronomia è una novità in Italia, ma è consuetudine in Inghilterra dove i primi studi iniziano dal settecento. Nell’isola c’è persino una cattedra di Archeoastronomia. Credo sia unica in tutta Europa. In Italia, al contrario, in certi posti ed in qualche Soprintendenza è persino proibito accennare di astronomia, ma la cosa non stupisce in un paese dove in certe Università è proibito parlare persino di Darwin.
Eppure, si tratta di una disciplina che può insegnare molto sulla storia antica del nostro continente; i molti manufatti preistorici costituiti da pietre disposte secondo forme geometriche potrebbe avere una ragione astronomica: essere orientati verso zone dell’orizzonte in corrispondenza delle quali, in origine, sorgevano o tramontavano oggetti celesti come Sole, Luna e stelle.
L’osservazione del cielo ha giocato un ruolo di primissimo piano nello sviluppo sociale e culturale delle civiltà antiche, partendo dal Paleolitico. Così, accanto alla osservazione delle cose del cielo i nostri antenati hanno costruito “osservatori” di pietra che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri. In queste tombe, pietre, allineamenti si trovano un bagaglio di informazioni congelate e codificate nei vari reperti archeologici di rilevanza astronomica.
I reperti che abbiamo a disposizione non si limitano ad allineamenti di monoliti o buche, in cui erano infissi dei pali. Esistono strutture più complesse quali monumenti, pozzi, templi e santuari pensati, costruiti e utilizzati tenendo ben presente la direzione del sorgere e del tramontare della Luna, del Sole o delle stelle più luminose visibili ad occhio nudo, in taluni periodi stagionali. Il che aveva anche importanti ragioni pratiche: Se la levata eliaca di una stella poteva essere associata ad un periodo in cui una determinata pratica agricola doveva essere eseguita, per esempio la semina, ecco che il fenomeno astronomico diveniva un indicatore temporale preziosissimo che avrebbe in futuro permesso di seminare nei tempi e nei modi ottimali ai fini di un buon raccolto.
Attualmente gli studiosi chiamano dunque Archeoastronomia la scienza che studia i reperti archeologici che ci tramandano il ricordo dell’attività di osservazione e studio dei corpi celesti portata avanti da individui appartenenti alle culture antiche.
Una disciplina affascinante, a cui Piero Barale ha dedicato il libro «Il cielo del popolo del faggio, Sole Luna e stelle dei Ligures Bagienni», dedicato all’archeoastronomia del cuneese.
Il fatto che studiare certi testi sia proibito non cambia di un millimetro che la Terra continui a girare intorno al Sole e non viceversa.
La verità resta tale e quale al di fuori dei cervelli balzani dei nuovi talebani nostrani o importati dall’estero. Il terreno dell’astronomia archeologica in provincia di Cuneo è stato dissodato da pochi coraggiosi studiosi tra i quali Piero Barale, tra i pochi che si sono fatti carico di passare i confini tra una disciplina scientifica come l’astronomia e una disciplina umanistica come l’archeologia.
Il volume è riccamente illustrato con disegni e foto in bianco e nero e ha 183 pagine. Il valore dell’opera consiste nella capacità dell’autore di mettere insieme dati astronomici e misure da lui stesse ricavate con la documentazione archeologica. Pero Barale raccoglie le sparse pagine del sapere per inserirle un una visione complessiva che oggi non pare più rinviabile. Essa consiste nel ricostruire il paesaggio attraverso i segni materiali, allineamenti di tombe, presenza di menhir, incisioni rupestri, e di collocare questi reperti in una eccellente ricostruzione delle credenze cosmologiche ed astronomiche che i popoli ben prima dei romani avevano.
Nel libro di Barale di incontrano, ben amalgamate, due culture. Quella scientifica astronomica e quella tradizionalmente umanistrica dello scavo archeologico che per troppi anni ha visto i Romani, anche per il nostro passato fascista, protagonisti assoluti dell’interesse della cultura archeologica, e non solo. Che cosa ci fosse prima dei Romani era lasciato a pochi studiosi come Gustavo Laeng e Giovanni Marro, che da Antropologo studiò per primo e in modo sistematico, le incisioni del Bego e della Valcamonica. Le incisioni sono un testo scritto di cui si è persa la grammatica e la sintassi. Ricostruirla, collocando nel pesaggio le incisioni, sarà il compito dei ricercatori di domani.
I Bagenni occupavano il territorio che oggi corrisponde grosso modo alla provincia di Cuneo. Dal Monte Bego ad Alba, dal Monte Viso a Garessio ai confini già con la Liguria, il territorio pedemontano è stato interessato da una presenza Neolitica che ha visto una colonizzazione delle terre coltivabili. La presenza ben documentata di insediamenti dell’età del Bronzo come il sito da poco scavato di Breolungi segnala, anche in provincia di Cuneo, con ampi reperti, la presenza di tecnologie innovative. Pensiamo ad Otzi, l’uomo di Similaun, che recenti studi hanno indagato in ogni direzione. Gli amici di Otzi erano anche a Cuneo, a cercare metalli. L’archeologia non è una disciplina con parametri propri. La vasta cultura classica degli archeologi del 900 non ha fatto molto posto, fino ad oggi, ad un ingresso della cultura scientifica nel recinto dello scavo archeologico. Come «masi chiusi» i Soprintendenti, forti del loro potere burocatico statale di unici custodi del patrimonio che esiste sottoterra e che, per definizione, appartiene allo Stato, resistono.
Manca un riflessione sulla confusione che corre spesso tra scavo, custodia, protezione, studio. Ne nasce così un mostro burocratico in cui reperti e scavi sono di fatto sottratti all’uso ed alla godibilità dei cittadini. Ma quello che è peggio alla comprensione di chi voglia capire senza indagare per dieci e più anni come ha fatto Barale. Pezzi sparsi di notizie sono disseminati in mille opuscoli. La sola raccolta di documenti richiede anni di lavoro. Ad una tutela dei beni dei cittadini esasperata e del tutto impropria corrisponde poi un uso del territorio del tutto disinvolto da parte di qualsiasi scavatore o costruttore di case o strade. Da una parte non si può toccare nulla; dall’altra si demoliscono complesi tombali, interi villaggi, persino mosaici. Il caso di Benevagienna è significativo. L’intero scavo della città romana di Pollenzo è finito di nuovo sottoterra senza lasciare nemmeno un piccolo campione di muro per le vie cittadine. Il passato non deve certo mangiarsi il presente; i morti non devono sovrastare i vivi. Ma come hanno bene visto recentemente i commercianti pollentini il passato ed i morti nutrono ancora i vivi, visto l’immenso afflusso di visitatori; in occasione delle feste tutte basate sulla romanità e sul recupero del passato.
Alba rappresenta il territorio più ricco di beni culturalmente riferibili al Neolitico. Innumerevoli sono ospitate nel bel Museo di Alba accette di pietra verde levigata; pietre che i nostri antenati agricoltori già trovavano in parte lisciate dalla impetuosa corrente dei fiumi e torrenti.
La scelta del materiale litico avveniva passando in rassegna le numerose pietre che i torrenti e i fiumi portavano a valle. La caccia poi ai pesci fatta mano nei «tumpi» (dicitura piemontese che indica le fosse circolari che il fiume scava nei sassi del fondo) è cessata solo negli anni 60. Mi ricordo che quando i fiumi erano puliti si andava da piccoli a caccia di trote e si pescavano a mano. I bambini neolitici facevano di certo le stesse cose che facevamo noi da ragazzini. Bottino di carne integrato dalla raccolta di frutta spontanea e caccia con arco e frecce.
La tecnologia del Bronzo fu una conquista tecnologica e mercantile. Gli studiosi del passato pensavano in termini di conquista materiale con assalti e stragi. Secondo questa visione guerriera, tribù a cavallo assogettavano i popoli che non avevano le spade e le lance in bronzo. Troia cadde sotto i colpi di guerrieri del Bronzo: gli stessi Achei che terrorizzarono l’impero egizio. Sono quelli che lasciarono in tutta Europa massi incisi, dette con dicitura impropria, Statue Stele. Fino a pochi anni or sono si pensava rappresentassero solo guerrieri divinizzati, semidei come Achille, antenati da venerare; la teoria antropologica era l’unico paradigma indiscusso per spiegare le raffigurazioni di questi monoliti traspontati dai fiumi o raccolti sul territorio e disposti secondo assi astronomici.
Oggi una piccola parte di questa cultura è stata decifrata dagli studi di archeoastronomia e si riesce a capire meglio come queste culture avessero a disposizione una complessa tecnologia osservativa del cielo ed una cosmologia empirica, in alcuni casi anche sofisticata. Molti grafici prima muti sono stati decifrati come restituzioni sul piano bidimensionale dei complessi moti celesti tridimensionali.
La civiltà del Bronzo con accette, lime, raspe, seghe, bulini, scalpelli è in realtà la civiltà del legno lavorato da attrezzi in bronzo. Le Alpi, da Est ad Ovest, furono passate in rassegna dai colleghi di Otzi che si inerpicavano per i monti alla ricerca del prezioso metallo. Sul Monte Bego ne trovarono tanto allo stato nascente. La Vallecamonica fu frequentata anche per quello. Le rocce del Bego erano ricche di affioramenti superficiali di rame . Fa piacere leggere nel libro di Barale il parallelo tracciato con le Ziqqurat in Mesopotamia. Corretto luogo di individuazione della lezione astronomica che fu elaborata in quel posto (la terra tra i due fiumi) e fu trasferita in Occidente dai cultori della tecnologia del Bronzo. Una struttura elevata rende possibile, in pianura, superare le cime degli alberi per individuare con maggiore chiarezza il punto più lontano dell’orizzonte come semplice linea. Più che una invasione di popoli, quella del Bronzo fu una invasione tecnologica. Abili mercanti vendevano prodotti e conoscenza tecnologica. Non a caso l’autore pone in primo piano le conoscenze astronomiche degli incisori del Bego sottolineando uno studio che individua nel Capo tribù una stele o masso inciso orientato. Barale cita gli studi di C. Jègues-Wolklewicz sull’orientamento delle figure incise sul masso detto «capo tribù» oggi conservato nel Museo di Tenda e sostituito da una copia identica in loco. Il toro inciso compone, come un puzzle, la figura umana rappresentante della costellazione del Toro che ha nell’occhio Aldebaran la stella più luminosa.
Barale acutamente collega la leggenda tendasca di Fontanalba ad una trasposizione antropologica di un mito cosmico, sorprendentemente affine al mito di Endimione, anche lui pastore addormentato in una grotta e visitato dalla Luna nei giorni in cui essa è assente dal cielo. Attenzione ai fenomini celesti era già presente dai Paleolitici che forse gia bene conoscevano le fasi lunari e facevano i primi esperimenti di geometrizzazione del corpo femminile. Sicuramente il calendario lunare con dodici lunazioni mensili a rappresentare un anno con le suddivisioni di Luna crescente, mezza, piena e calante erano le più facili ed intuitive per una suddivisione del tempo.
Come dice spesso Barale il cielo lo avevano sulla testa e di notte era la cosa più visibile e facilmente contabile sulle dita della mano. Pastori ed agricoltori, nelle notti non inquinate da luci elettriche, potevano osservare il cielo con estrema facilità. In Mesopotamia osservare il cielo era un mestiere che si sommava alle misure dei campi e all’esercizio del diritto per dirimere le contese civili. Astronomo, giudice di pace, geometra. Questo era il campo di intervento dell’astronomo reale. Luna e stelle facevano compagnia ai pastori e agricoltori neolitici.
Un sapere che si accumulava in migliaia di tavolette nei palazzi reali e che venne, poco per volta, trasferito in tutta l’attuale Turchia dall’impero Ittita. Forse questa raffinata cultura astronomica migrò con gli esuli da Troia, i cui abitanti, sconfitti dagli Achei, la leggenda vuole fondatori di Roma. Ma migrazioni verso l’Italia avvenirono forse ancora prima degli Etruschi.
Quanto sapere è passato con le persone da Oriente ad Occidente? Infatti oltre al DNA i popoli portano con loro conoscenze, credenze, culti e dei.
Le figure degli dei sono molto più stabili dei popoli che li adorano. Luoghi di culto antichissimi hanno continuato ad essere frequentati e riconsacrati a nuovi culti. Spesso dove era un culto di Minerva si impianta un culto della Madonna.
I Neolitici segnarono in linee piane i complessi moti lunari. Nascono così gli chewron, gli zig zag, le M che non in tutti i casi rappresenta Cassiopea. La scoperta del codice astronomico ha portato molti astronomi a leggere con una certa rozzezza tutti i segni incisi su ceramica o dipinti in grotta o incisi su roccia come costellazioni e riassunti di moti lunari.
Il codice astronomico può essere solo uno dei codici da sovrapporre ai grafici neolitici o calcolitici per la decifrazione. In realtà i Neolitici usano diversi codici antropologico, territoriale, astronomico, spesso tutti impilati, uno nell’altro. La grafica consente questo uso non sequenziale ma contemporaneo ed impilato. Un grafo può rappresentare una sequenza temporale ripetiva molto meglio di discorsi orali o scritti che, per lora natura, sono sequenziali. Scritto o parlato un discorso o una frase iniziano e finiscono in una unità di tempo.
Un grafo può illustrare un moto complesso come quello del Sole sull’orizzonte e nello stesso tempo rappresentare un tempo che può essere lungo un anno. Ecco nascere la spirale che molti interpreti pensano ormai in termini astronomici come sequenza illustrante il percorso del Sole nel cielo con la caratteristica di passare da Est ad Ovest ma anche di segmentare l’orizzonte in spazi discreti e sempre ripetuti. Altro che primitivi!
La traduzione di un moto complesso in uno spazio sferico tridimensionale con doppia rotazione da Est ad Ovest e da Sud a Nord in tempi che racchiudono o lo spazio di una giornata o l’intero ciclo annuale si può, con una ardita sintesi, racchiudere in una spirale. Se poi la spirale è doppia si ha il ciclo in crescita verso l’estate, il punto di massima crescita del Sole in altezza e di spostamento verso Nord. Poi il ritorno verso l’inverno con il punto di minima altezza verso Sud. Il pendaglio ad occhiale è si una chiara rappresentazione del «pene» in una lettura antropologica; ma se adottiamo solo il codice antropologico ci penalizziamo castrandoci per una lettura a doppia chiave che comprende anche l’aspetto astronomico che non è meno importante dell’antropologico. Esso fu per primo decifrato in quanto di evidente e facile leggibilità. Passare da un codice astronomico ad uno antropologico doveva essere facile per i gestori della grafica antica.
La lettura a doppia chiave interpretativa doveva essere «normale» per chi si esercitava in «scrittura» grafica. Come lo è per noi leggere un grafico alla luce della collocazione di due valori numerici sull’ascissa e sull’ordinata.
Due numeri per un solo punto. Due codici per un solo grafico. L’Apollo di Veio è si un Sole antropomorfizzato, ma al base reca il ciclo lunare in due simboliche volute. Altro che «orror vacui». Di vacuo c’è solo il cervello di chi ritiene gli artisti antichi ossessionati dal vuoto. In uno spazio ristretto l’artista doveva collocare tutto il sapere formattato in una forma. Primitivi sono solo i lettori della cultura classsica come un enorme rappresentazione letteraria ed estetica. I lettori dell’estetica leggono solo la forma senza sospettare nemmeno esista un codice nella forma e la stessa sia usata per comunicare un messaggio.
Un grave errore sarebbe dunque chiudersi nel ghetto di un codice unico caratteristica che capita spesso ai cultori di una materia. Per gli astronomi sarà più facile vedere l’aspetto astronomico, mentre per uno psicoanalista sarà più facile vedere l’aspetto antropologico-sessuale.
La lettura monotematica se poteva essere giustificata agli esordi della interpretazione, oggi non può essere giustificata se non come analfabetismo di professori universitari che, oppressi da una cultura lineare, non riescono a capire e neppure ad ammettere che esista un altro modo di leggere il passato. La scrittura grafica si capisce meglio alla luce delle recenti letture astronomiche che aprono la cultura archeologica enigmatica del Neolitico a nuova luce. La chiave offerta dall’astronomia per aprire il tesoro grafico del Neolitico e del Bronzo non può tuttavia diventare il grimaldello che apre tutte le porte. «Est modus in rebus» dicevano i latini per indicare che ci vuole moderazione.
Qui la saggezza degli antichi non ci soccorre. Alla moderazione, concetto di tipo morale e psicologico, dobbiamo sostituire il sapere, la grammatica e la sintassi che viene articolata in parole grafiche. Ovvero i grafi preistorici acquistano significato non applicando un unico codice di lettura ma soltanto ricavando il significato dal contesto. La rapida apertura del nuovo paradigma ha dischiuso un mondo sconosciuto. L’ingresso del mondo scientifico nella archeologia classica, datazioni al radiocarbonio, analisi pollinica, analisi dei reperti di ceramica per la datazione in base all’orientamente degli atomi ha ridotto il cantiere archeologico ad un cortile aperto dove le varie scienze, botanica, geologia, zoologia, l’iconografia e finalmente l’astronomia la fanno da padroni. L’archeologia che non ha uno statuto epistemologico proprio è divenuta come la filosofia medioevale che era definita dai teologi «ancilla theologie» ancella di molti padroni, tutti egualmente prepotenti. Il più potente è proprio la disciplina astronomica che passando da un potente apparato matematico lascia poco spazio all’archeologo che subisce una sorta di estraneamento, per non dire una vera e propria espropriazione. Spesso la cultura dell’archeologo non ha spazio per pensare all’astronomia, scienza matematica spessa non compresa.
Fatto che porta l’archeologo ad una chiusura per rifiuto di quello che non comprende.
La disciplina archeologica a questo punto punto rischia di chiudersi su se stessa diventando burocratica procedura di scavo. La pratica burocratica di porre tra lo scavo e l’oggetto da scavare una procedura in assenza di un pensiero: cooperative di scavo considerate competenti, ma in realtà mancanti di qualunque conoscenza teorica adatta a forgiare veri scavatori, rischia di trasformare la disciplina di scavo in una orgia di pratiche normizzate e normalizzate ma del tutto cieche e sorde ai problemi teorici e pratici che uno scavo pone. Senza una circolazione delle idee, senza il metodo del dubbio e tempi lunghi di scavo e riflessione sullo scavato non si produce sapere ma devastazioni programmate del passato.
Come può e con pochi strumenti teorici, perché i nuovo concetti non sono ancora apparecchiati alla bisogna ma con la bussola di un sano e robusto buon senso, Barale procede con rara intelligenza nel territorio minato dell’interpretazione. Il pensiero pare sia stato espulso dalla pratica burocratica dello scavo cieco e sordo al territorio e alle sue problematiche. Piero Barale restituisce pensiero al fare e riconquista territori perduti da scavatori occasionali ciechi e sordi alle problematiche teoriche.
Occorrerebbe una scuola di interpretazione che insegni come le diverse discipline possano confluire per poter dare origine ad un dubbio metodico ed ad una interrogazione continua con procedimento circolare: ma non autoreferenziale come la circolazione del sapere universitario ormai decotto. Trattasi di porre una interpretazione sulla bilancia del dubbio per pesare i pro e i contro di quello che offre il mercato delle idee correnti e di quelle nuove idee che ogni anno si propongono. Mancano gli «esperimenta crucis» di Bacone ma specialmente l’arte di mettere in dubbio con controesempi efficaci le interpretazioni proposte. Non tutte le interpretazioni proposte reggono se vengono gettate loro contro le ipotesi proposte con esempi controfattuali.
Ad esempio le “scale del paradiso”, reticolati a forma di scala non hanno senso se vengono considerate solo nel loro lato simbolico. Lo stesso tipo di grafema si trova ad esempio sulle rocce di Pescarzo in Vallecamonica ed una recente ricerca condotta da Brunod, Gaspani, Ramorino, hanno dato come risultato essere divisioni catastali di appezzamenti agricoli.
Chi dice che sul Bego non si usasse la stessa consetutudine di cartografare sentieri e corsi d’acqua, prati e campi nel più minuto dettaglio? Dato il clima caldo ed asciutto che si produsse nel Calcolitico (pressappoco analogo all’attuale) non è impensabile che gruppi di agricoltori coraggiosi colonizzasse la parti alte del Bego per micro produzioni di segala. Il Bego era anche interessante luogo di raccolta superficiale di rame. I campi erano piccoli orti e le produzioni in quota non erano quantitaticamente rilevanti. Spiegare tutto con il simbolismo rischia di tagliare fuori spiegazioni legate ai processi produttivi, alla mappatura delle risorse dell’acqua disponibile, alla certificazione sociale di nuovi campi messi a cultura. Gran parte delle mappe si stanno rivelando in Valcamonica come esatti ritratti del territorio. La demolizione del paradigma antropologico restituisce al territorio le mappe. Gli «idoli» di Sellero e di Sonico saranno restituiti ai legittimi proprietari. Ovvero ai camuni che hanno mappato le divisioni territoriali e l’assegnazione dei fondi di proprietà. E qui entriamo nel vivo della questione astronomica. A cosa serve guardare il cielo?
Un passatempo ozioso per contadini intelligenti oppure un primo tentativo di collegare raccolti e semine con il ciclo celeste?
Alcuni potrebbero attribuire questa propensione ad una specie di curiosità estetica ma irrilevante dal punto di vista pratico. Il calcolo delle stagioni, i calendari delle semine che solo fino a pochi anni orsono era affidato per i contadini italiani alla lettura del Barbanera, libretti che riportavano le posizioni della Luna e i tempi di semina dei fagioli dei piselli, delle fave e di tutti i frutti della terra con consigli e quanto altro servisse per coltivare la terra furono seguiti anche nella più remota antichità sin dal Neolitico ma forse anche prima.
La Luna fu uno dei sistemi più comodi per calcolare il tempo e le sue sottodivisioni. Barale indaga specialmente i modi di dire come residui di antiche concezioni cosmologiche. Nel Queyras i cristalli di quarzo sono detti «pietre di Luna» Alcuni rilievi alpini sono detti «Lune rotonde» ad indicare sia la sagoma dell’astro sia i punti estremi (lunistizi) di nascita e tramonto del luminare notturno. Il richiamo poi alla via Sacra del Bego come sentiero legato a qualcosa di celeste con incisioni potrebbe dare, se preso sul serio come suggerimento di ricerca, nuovo impulso ad una progettazione di ricerche astronomiche che colleghino sentieri di risalita, incisioni e transito di astri e costellazioni. In questo modo agendo in unità di territorio bene delimitato si potrebbe dare origine a vere e proprie scoperte ed il libro di Barale apre nuove piste di indagine mai, fino ad ora, esplorate.
Il passo successivo sarà quello di progettare esperimenti, prendendo un sito come la via sacra o le incisioni dei pugnali del Bego per sottoporli a stringenti misurazioni astronomiche, per vedere se i pugnali indicano oppure no una direzione astronomicamente significativa. Per i burocrati del conteggio numerico e ragionieri della coppella sino ad oggi il pugnale segnala solo un modello di produzione materiale e data un periodo in cui è stata incisa la roccia. Per quelli più attratti dall’aspetto simbolico il pugnale indica potenza, ampliamento della mano e testimonia un sacrificio di animali. Due spiegazioni estreme che non spiegano nulla. Il pugnale calcolitico infatti veniva usato con modalità «a spinta» tenendo il manico tra il medio e l’anulare: la semiluna chiusa nel pugno e la lama sporgente dalle dita. Pertanto il manico può essere corto, talvolta cortissimo, e non può essere impugnato come un normale coltello.
L’interpretazione, per un archeologo finisce qui, dove invece comincia per Barale un punto problematico. Il pugnale sarà forse orientato sulla roccia o disposto a caso? Se fosse orientato sul solstizio e sulle direzione Est-Ovest allora la disposizione dei pugnali sulla roccia sarebbe di per se evocativa di un mondo di sapere perduti, collegati con l’osservazione astronomica e con un mondo di saperi che nemmeno si sospettava esistesse.
Qui abbiamo una arma potente per la decifrazione. Anche perchè gli astronomi sono poco inclini a fantasticare e bene disposti a misurare. Effettuata la misura, solo allora si potrà dare inizio ad una interpretazione che tenga conto dell’aspetto astronomico di segnaposto che un’arma può assumere nel contesto ove sia posata.
Solo in questo modo e con questa rigorosa procedura scientifica si potrà sapere qualcosa di più del mondo culturale degli uomini del Bronzo. Il resto sono fantasie, spesso il simbolico è la tomba del buon senso e il bidone della spazzatura dove la razionalità della ricerca viene gettata via degli archeologi. I più seri preferiscono non dire nulla su un territorio troppo spesso minato da interpretazioni fantasiose, qualcuna al limite della follia. Solo sottoponendo ad un sistematico crivello ogni ipotesi proposta, solo le più valide sopravvivono e superano la doppia prova della coerenza interna e della verifica con i fatti. Nella scienza non si butta mai via nulla.
Sta di fatto che dei coraggiosi pionieri non appartenenti al mondo accademico propongono lavori sempre più fitti di attenzione al mondo dei segni ricontestualizzando sul cielo e sul paesaggio visibile i segni prima decontestualizzati. Per fare questa operazione si è dovuto rompere con il vecchio e nobile paradigna antropologico. Non certo da buttare nella spazzatura ma da usare solo dove ve ne sia necessità. Senza fanatismo, nessuna teoria o ipotesi precedente viene ghigliottinata. Solo viene esclusa l’ipotesi che una sola intepretazione sia possibile. Recentemente l’osservazione del cielo antico che si può compiere con le macchine può restituirci il ciclo visto dagli antichi incisori o costruttori di dolmen e menhir. Questo intenso programma di misurazioni dovrà sfociare nella costruzione della cosmologia antica che non essendo contenuta in testi o trattati scritti rimane racchiusa nella forma delle opere orientate e/o nella grafica astratta. Per la discussione teorica sul tema della informazione contenuta in un stringa codificata rinvio alla lettura del capitolo VI del volume Gödel, Escer, Bach (D. R. Hofstadtler, 1984)
Rimane ancora la pessima abitudine in certi libri e pubblicazioni di presentare le incisioni fuori contesto ambientale trattandoli alla stregua di oggetti che io preferisco chiamare «parole grafiche» «oggetti grafici» privi della sintassi che ne consente la lettura, ovvero l’ambiente, il codice che ne consente la lettura e ne fornisce l’ambito grammaticale.
Ma le rivoluzioni non nascono tutte perfette come Minerva dalla testa di Zeus, e nascono inquinate di elementi del passato che spesso attarda la conquista del nuovo.
Oggi sarebbe impellente ricostruire la mappa delle costellazioni usate come traguardi per i Celti: ricordo i «nemeton» santuari all’aperto orientati su stelle come Aldebaran e le costellazioni guida dei Minoici come ci ricorda lo stesso Barale. Cassiopea, il Carro erano sicuramente costellazioni ben visibili anche nell’antichità: anche se venivano chiamate con altri nomi e forse le stelle erano unite per formare altre figure. Ma da quello che ci dicono gli astronomi esse erano tali quali ad oggi almeno nel Neolitico salvo qualche diversa visibilità o disposizione più alta o più bassa per certi gruppi di stelle. Se oggi il volume di Barale fornisce una antologia di siti astronomicamente importanti sarebbe forse d’ora in poi il caso di preparare mappe comparative per tematiche osservative.
Siti di osservazioni lunari, siti solari, siti stellari. Questo stringere intorno ad un tema ci darebbe per la prima volta un apparato di osservazioni per costruire una prima tabella di siti e di procedure osservative che porrebbe le basi solide per costruire una cosmologia preistorica meglio definita.
Un capitolo intiero del volume è dedicato alla rocca di Cassiopea, ovvero alla Rocca di Cavour nel pinerolese che si staglia dalla pianuura come un panettone di roccia bene visibile sia da Pinerolo che da Staffarda e Saluzzo. Molti lavori sulla disposizione delle rocce, delle strade, della pittura sono stati fatti sino ad ora ed il capitolo IV del volume è un ottimo esempio di sintesi. Manca uno studio approfondito sull’orientamento delle numerose coppelle che insistono su rocce elevate e posti in località panoramiche della rocca. Assemblando i dati astronomici si potrebbe privilegiare la Rocca di Cavour come luogo speciale di un esperimento osservativo avanzato per incrociare dati di archeologia con nuove osservazioni astronomiche che collochi le coppelle in una lettura astronomica del paesaggio.
Molto interessante la lettura di Cassiopea come costellazione generatrice, che sebbene rivolta al Neolitico si immerge nei culti sciamanici, tipici del Paleolitico. Molto interessante il richiamo alla costellazione del Cigno presente in molti reperti archeologici romani o preromani ed emerge come costellazione di riferimento per l’orientamento della chiesa di San Giovanni di Saluzzo la cui abside è rivolta verso Nord in direzione della costellazione del Cigno. Di osservazioni lunari e grotte in cui si consuma il passaggio tra la vita la morte e la rinascita pare essere intessuto anche la nicchia del marchese di Saluzzo, specialmente osservabile in date astronomicamente significative. Questo stringere i fili antorno a temi che si ripetono invariabilmente dalla preistoria alla fine del Rinascimento cristiano ci colloca nella felice posizione di esploratori di un mondo ancora in gran parte ignoto e di cui alcune parti si stanno aprendo sotto la pressione di studi innovativi di cui mi preme di sottolineare l’assoluta estraneità del mondo accademico ufficiale.
La crescita della conoscenza procede fuori del mondo accademico ufficiale trincerato dietro un mutismo negativo, se non ostile. Sta di fatto che le ipotesi astronomiche sono verificabili e la morte del toro di cui la stella Aldebaran è l’occhio che nasce e tramonta sugli angoli del masso inciso è facilmente verificabile. Pertanto la proposizione che l’afferma è scientifica, se essa è controllabile. Secondo il metodo enunciato da Popper le proposizioni scientifiche si distinguono da quelle metafisiche indimostrabili in quanto il campo degli oggetti falsificabili non è vuoto.
In questo caso si può verificare se le ipotesi proposte siano o no compatibili con la realtà dei fatti. Anche se oggi non corrisponde ai fatti visibili nell’età del Bronzo osservati da chi incise la pietra, raffinati calcoli astronomici possono supplire questa carenza osservativa. Si può infatti ricostruire l’aspetto della volta celeste retrodatando il procedimento di verifica empirica e riproporre lo stato del cielo al punto T-x. dove x è il numero di anni necessari per avere in cielo la configurazione astrale proposta come spiegazione. Trattandosi di stelle poi, la precisa configurazione del Toro con la brillante stella Aldebaran può configurare una datazione astronomica: cosa che invece è difficile o quasi impossibile trattandosi del Sole o della Luna.
Barale dedica tutto il capitolo VI alla Luna e con buona ragione. Della Luna si cominciò a calcolare già nel Paleolitico e figure di donna geometrizzate con elementi lunari sono disponibili incise su ossa. Nel Neolitico nasce una complessa geometria lunare che aspetta ancora una adeguata comprensione.
Infatti se si pensa che questi segni cosmici siano solo giochi di linee o riempitivi eseguiti con scopo artistico o per passare il tempo nessuno si preoccuperà di indagarne un significato. Non si cerca se si crede ci sia nulla. Nessuno cerca l’America se si pensa la terra piatta e l’America non esistente. Infatti lo stesso Colombo credeva di aver scoperto le Indie occidentali. L’ignoto non esiste, per definizione.
Barale passa poi ad evidenziare il rapporto tra pratiche notturne
(incubatio) in siti in cui il candidato ma staremmo per dire il «paziente» veniva portato per sognare presso il criptoporticus di Pedo (Borgo San Dalmazzo). La pratica della meditazione era a volte curativa, a volte rilevativa. Lo scopo attorno a cui ruotavano queste pratiche misteriche erano intese a produrre immagini efficaci. Immagini prodotte dal paziente come visioni e sogni notturni che raccontati venivano poi interpretati da esperti (forse la psicoanalisi era già stata inventata dagli antichi?)
La Luna costituisce il più semplice metodo di calcolo e scansione del tempo.
Alcuni reperti di calcolo lunare sono perduti. Un’ascia falcata trovata in regione Moretta recava segni geometrici di triangolo pentagono, esagono.
Barale legge la formula geometrica come esemplificazione delle fasi lunari.
Forse la chiave del mistero delle rappresentazioni giace proprio nei cambi di calendario che segnarono epoche tecnologicamente differenti. Il calendario Neolitico aveva sicuramente una eccedenza ed una priorità della Luna sul Sole mentre per i tecnocrati del Bronzo, il Sole rappresentava il centro del procedimento produttivo ed i calendari diventano di conseguenza solari.
Questa rinnovata attenzione al Sole a scapito della Luna la troviamo bene espressa nella iconografia dei massi incisi della Vallecamonica che evolvono rapidamente a favore di una iconografia puramente solare; la Luna non è mai stata dimenticata dagli agricoltori che l’hanno usata sempre come marcatempo e sulla Luna ed i suoi effetti si sono costruite una infinità di leggende che considerate superstizione in gran parte si sono perse o si stanno perdendo come substato tramandato per via orale. Ogni 6798 gioni la Luna ha uno spostamento sui punti di nascita e tramonto e la Bisalta Bric Lombatera, Monte Bracco hanno strutture che possono ricordare delle osservazioni molto antiche dei punti di impatto lunare. Barale ricorda le coppelle di Bric Lombatera. Anche sul Monte Bracco in località Barma Lunga si trova una grotta riparo rivolta a Sud Est presenta una fonte di acqua illuminata dalla Luna al lunistizio superiore. Il fatto che il fenomeno avvenga una volta sola ogni 18,6 anni indica che la cosa aveva o poteva avere un impatto forte come evento memorabile. Come ricorda Giuseppe Veneziano, opportunamente riportato da Barale, l’espressione «vedere la Luna nel pozzo» data l’età media di vita molto bassa, poteva accadere una sola volta nella vita e due volte al massimo per i più longevi.
Se l’opinione comune vuole, prima di Galileo, la Terra piatta ed il Sole ruotante attorno ad essa questa visione aristotelica del mondo non è vera per tutta la Grecia classica. Platone ritiene la Terra rotonda ed il calcolo di Eratostene pure. Vi erano in antichità probabilmente due partiti uno dei quali ha perso la partita con l’avvento della scuola aristotelica. Il dibattito in Grecia era libero, molto più delle attuali Università e le ipotesi erano saggiate e vagliate dagli studiosi e matematici. La distruzione della biblioteca di Alessandria da parte dei talebani cristiani ha distrutto per sempre un patrimonio di sapere che sotto l’impero macedone aveva raggiunto l’India e forse la capitale del Tibet. Dai soldati macedoni forse nasce l’uso della svastica in quelle regioni. Ma questo è un altro discorso.