di Antonia S. Byatt

byatt.jpgNel suo libro L’errore
di Cartesio
, Antonio Damasio prendeva le distanze da due aspetti
del pensiero cartesiano: l’uso dell’orologio come metafora della mente
e la dichiarazione di priorità insita nel suo Cogito ergo sum.
Damasio capovolge quest’ultima, e dimostra come la vita della mente emerga
da quella del corpo. Secondo lui, concepire la mente come processo di
programmazione informatica, o come cablaggio nell’hardware, rappresenta
una derivazione fuorviante della metafora dell’orologio.
Egli si occupa delle componenti biologiche — wet stuff — che
costituiscono i tessuti viventi del corpo e del cervello.

damasiobyatt.jpgNell’Errore di Cartesio,
ci aveva illustrato l’idea, plausibile e affascinante, di come il senso
del sé e i processi di pensiero emergano da una serie di mappe del corpo
costruite dal cervello: dalle informazioni inconsce sullo stato viscerale,
agli appetiti consci, fino alla memoria e alla riflessione. In parte, lo
fa mostrandoci che cosa accade negli individui cerebrolesi, compiendo una
distinzione fra coloro che vivono in uno stato vegetativo, coloro che hanno
subìto perdite ben precise (la consapevolezza del lato sinistro del proprio
corpo, la memoria a breve termine o il senso di responsabilità) e coloro
che pensano e sentono più o meno come la maggior parte di noi.
In Alla ricerca di Spinoza, egli estende l’indagine, studiando
il contributo delle emozioni e dei sentimenti alla strutturazione del
nostro sé. Il mio unico reale problema, nella lettura di questo libro,
sta nell’ambiguità con cui nel linguaggio corrente utilizziamo due parole
che invece Damasio usa con molta precisione. Per lui, le «emozioni» (per
esempio il piacere, il dolore, il disgusto e la paura) sono risposte involontarie,
e in qualche caso innate, che compaiono precocemente nella vita dell’organismo
insieme agli appetiti. I «sentimenti», invece, sono mappe e immagini con
le quali il cervello rappresenta le proprie risposte agli stimoli emozionali
e sensoriali, esterni e interni. Tanto le emozioni quanto i sentimenti
sono componenti inseparabili del nostro modo di accogliere la realtà (ivi
compreso il modo in cui pensiamo). Damasio è molto convincente quando
sostiene che non potremmo sopravvivere senza le emozioni sociali che si
sono evolute dentro di noi. Lo è ancor di più, tuttavia,
nel farci comprendere il processo mediante il quale, in ogni singolo istante,
il sistema nervoso costruisce nel cervello le mappe del corpo, dell’ambiente
che lo circonda, della sua storia, delle sue esigenze e delle sue decisioni.
Egli si sbarazza elegantemente dell’idea di un metaforico homunculus
insediato nel cranio e intento a offrire a una sorta di occhio interiore
le rappresentazioni immutabili delle cose, e lo sostituisce con un flusso
di segnali in continuo divenire: segnali che si rinforzano, si correggono
e confluiscono dando vita alle idee delle cose e di noi stessi.
La mente, dice, è «piena di immagini provenienti dalla carne e dalle sonde
sensoriali speciali». È convinto che la maggior parte delle idee si formi
a partire dal «corpo propriamente detto», e che l’idea del sé sia secondaria:
l’idea di un’idea, originariamente ricavata dalla combinazione di due percezioni,
quella di un oggetto e quella del nostro stesso corpo.
Secondo Damasio, Spinoza fu il primo filosofo moderno in quanto comprese
l’indivisibilità di mente e corpo. Per Spinoza il binomio «mente-corpo»
fa parte della natura, e tutta la natura è divina: una divinità impersonale
che possiamo contemplare con gioia, pervasi dall’emozione e dal sentimento
religioso. Damasio ci racconta di essere tornato a leggere Spinoza per controllare
l’esattezza di una citazione che gli si era impressa nella mente dai tempi
della scuola: «Il fondamento della virtù è lo stesso sforzo di conservare
il proprio essere, e … la felicità consiste appunto nel fatto che l’uomo
può conservare il suo essere» — un concetto di sopravvivenza biologica quale
essenza stessa dell’umanità; un concetto darwiniano anzitempo.

Tutto il libro è un’esplorazione del significato
di questa conservazione del sé e di questa idea di felicità. È anche una
biografia di Spinoza e, insieme, il racconto del rapporto che l’autore
ha con lui. È interessante come gli scienziati che studiano la memoria
e la coscienza sembrino sentire in modo particolare l’esigenza di dar
corpo alle proprie idee in narrazioni personali — il che equivale a descriverne
i limiti nel tempo e nello spazio. Sia Daniel Alkon che Steven Rose hanno
incluso nella propria autobiografia l’esposizione delle rispettive ricerche
sulla biologia della memoria.
Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632 — lo stesso anno in cui Rembrandt
dipinse La lezione di anatomia del dottor Tulp — e morì ancora
giovane all’Aia. Conobbe Leibniz e Huygens. In un passo dagli accenti
toccanti, Damasio racconta che perfino nel tollerante clima olandese Spinoza
fu tacciato di eresia e quindi espulso con una piena condanna dalla sua
comunità sefardita. Fabbricante di lenti, diede un contributo concreto
alla rivoluzione scientifica che andava svelando nuovi aspetti del mondo
visibile, mostrando realtà invisibili che nessuno aveva immaginato.
Damasio — lui stesso, a quanto pare, bisognoso di sentimenti ed emozioni
religiosi — si unisce a Goethe nell’ammirare la «libertà» e la «beatitudine»
dell’esperienza spinoziana dell’amor intellectualis Dei — un
amore intellettuale per Dio. Osserva inoltre che gli strumenti ottici
e meccanici del tempo di Spinoza furono sviluppati «per consentire la
scoperta scientifica, e al tempo stesso per fare del processo di scoperta
una fonte di piacere». (Una domanda che non si pone, sollevata invece
da Richard Gregory nel suo Occhio e cervello, è: che cosa ha
comportato per noi trovarci ad affrontare un mondo di esperienze e oggetti
— come la fisica quantistica, i prioni, il DNA — diversi da quelli
per i quali i nostri sensi si sono specificamente evoluti?).
Damasio, poi, approfondisce l’influenza di Spinoza sui pensatori delle
epoche successive. William James scrisse Le varie forme della coscienza
religiosa
in seguito a una lettura di Spinoza effettuata nel 1888
per un corso sulla filosofia della religione a Harvard. James è un altro
degli eroi di Damasio, secondo il quale ebbe intuizioni sulla mente umana
paragonabili solo a «quelle di Shakespeare o di Freud». Damasio racconta
ironicamente di come — in privato — Freud ammettesse sia la dipendenza
del suo pensiero dagli insegnamenti di Spinoza, sia il fatto di non averlo
mai citato direttamente, perché — sosteneva — a contare davvero, per lui,
erano la persona e l’atmosfera generale del suo pensiero. Sarebbe interessante
leggere le idee di Damasio su conscio e inconscio corporeo, e stabilire
quale sia la loro relazione con quelle di Freud, citate con ammirazione.
L’opposizione nei confronti di Spinoza, come pure il cauto entusiasmo
ispirato dalla sua visione delle cose, si insinuano serpeggiando nella
storia dell’arte e del pensiero occidentali. I romantici tedeschi — Jacobi,
Novalis, Lessing e Goethe, il poeta scienziato che studiò il modo in cui
la visione si forma nel cervello — furono recettivi nei confronti della
sua filosofia e non mancarono di citarlo. Wordsworth e Coleridge si interessarono
entrambi alla scienza dei «sentimenti» e al rapporto di questi ultimi
con il pensiero. Il poeta di Wordsworth, un uomo che, dotato di «una sensibilità
organica superiore al comune, [abbia] … anche pensato a lungo e profondamente»
è più spinoziano che cartesiano. Entrambi, Wordsworth e Coleridge, esordirono
da una posizione panteistica per poi ripiegare su una più cauta cristianità
trinitaria. In un ottimo saggio contenuto in British Romanticism and
the Science of the Mind
, Alan Richardson parla di Kubla Khan
come di un’immagine della «congiunzione dei sogni e dell’inconscio, della
mente incarnata e della “Vita Gastrica”», e accenna alle recenti ricerche
nelle neuroscienze cognitive e al concetto di wetware come sviluppo
della scienza romantica sul tema del cervello.
Damasio menziona l’interesse di George Eliot per Spinoza, ma non dice
che la scrittrice passò una parte considerevole della propria vita a tradurre
l’Ethica e il Tractatus. Queste traduzioni sono rimaste
inedite, tuttavia, a giudicare dalla genialità del lavoro di Eliot su
Feuerbach, la loro pubblicazione sarebbe un’operazione interessante. Middlemarch
è il grande romanzo dell’esplorazione mente-corpo. Il sacerdote dell’antica
religione, Casaubon, si perde alla ricerca di una divinità solare decaduta
con una candela gocciolante in sotterranei pieni di ragnatele. La candela
è la ragione cartesiana; l’occhio è, per citare Coleridge, l’organo «soliforme»
che percepisce la Luce. Quanto a Lydgate, il medico e microscopista moderno,
sta cercando il tessuto originario che unifica tutto l’organismo. Egli
sa bene quale differenza comportò, ai fini della percezione di noi stessi,
la scoperta delle reti nervose compiuta da Vesalius; e sa che esistono
«passioni della mente». Lydgate è al tempo stesso spinoziano e damasiano
(ma emozionalmente limitato). La scrittrice, una mente incarnata, tesse
la trama del suo romanzo con una gran rete di metafore sensuali e culturali,
una rete nella quale si trovano, insieme ai ragni, le fila dei pettegolezzi
del villaggio e i drappi appesi in San Pietro a Roma — rossi «come una
malattia della retina».
In tempi recenti c’è stata la tendenza a trattare le descrizioni della
coscienza umana inclini a «privilegiare» l’occhio e la «ragione sovrana»
con una sprezzante analogia politica, quasi che la visione pretenda di
essere aristocratica, o maschile, o di pelle bianca — a seconda della
gerarchia che si vuole condannare. Ma questo non serve a nulla. Lo studio
della coscienza incarnata, invece, ci sta inducendo a riconsiderare ogni
tipo di problema e processo estetico. Il libro di Svetlana Alpers sulla
pittura olandese del diciassettesimo secolo distoglie l’attenzione dai
simboli allegorici per concentrarla sull’ottica — ovvero sul piacere che
gli olandesi provavano nella scoperta del mondo esterno, con l’ausilio
delle lenti. L’autrice osserva che, in qualche modo, l’artista olandese
percepisce la realtà con tutto il proprio corpo, e non con l’occhio del
pittore professionista che inquadra una prospettiva in una cornice. Secondo
gli scienziati che scrivono di fisica, il mondo che essi vanno svelando
è più stupefacente — più splendido e capace di ispirare una maggior reverenza
— di qualsiasi narrazione teologica del paradiso. Lo stesso vale anche
per il complesso mondo umano svelato dallo studio della mente incarnata,
al quale Damasio ha dato un così brillante contributo.

(Traduzione di Isabella Blum)