Il 10 agosto 2004, spinto da non si sa quale miracolosa ispirazione alla sintesi, il prestigioso editorialista del New York Times Paul Krugman, ha redatto un elzeviro breve e spaventoso. Aveva ricevuto i dati di non mi ricordo più quale rapporto ufficiale proveniente dal flusso di elaborazione statistica con cui l’America tenta vanamente di fotografare se stessa e il mondo. Nel profluvio di dati, Krugman ha individuato i due più significativi. Che sono questi: il 53% degli introiti delle grandi company statunitensi finisce in tasca all’ 1% della popolazione; il 60% degli azionisti si deve accontentare di un misero 20% dei guadagni. La classe media, annota Krugman, diviene classe mediocre. Sono, questi, redditi derivati da investimenti, non ottenuti con il sudore del proprio lavoro. Krugman aggiunge, alla spettrale rilevazione, la considerazione che la traiettoria fiscale Usa sta manifestando un target ormai definito: la deriva porterà a tassare soltanto i redditi da lavoro. Fuori dalla tassazione, gli introiti speculativi. La deriva dei derivati impegna, con un colpo di reni, l’attuale Amministrazione a implementare la corrente. Mettiamola in questo modo: tolto il tappo della vasca, siamo al momento in cui il gorgo rumoreggia e di acqua non ne rimane più – resta soltanto sudiciume.
“Se c’è da pestare i ‘ceti medi’, che li si pesti, per Dio!” scriveva Valerio Evangelisti l’altro giorno, in un illuminante corsivo sulla limpida vittoria di Hugo Chavez al referendum indetto per scalzarlo e per fare precipitare il Venezuela in amministrazione controllata (da Washington). Un paradosso, al momento: i ceti medi vengono sì pestati, ma non da politiche di massiccia redistribuzione delle ricchezze, bensì dal liberismo che, al di là di ogni sfrenatezza, appare oggi in stato regressivamente aggressivo.
L’aumento dei fattori di crisi finanziaria induce le false democrazie ad armarsi e a esercitare una violenza che, stolidamente, da secoli considerano terapeutica. L’eliminazione della classe media è consanguinea alla politica quando questa viene esercitata da élite. L’impoverimento materiale del ceto medio mette a nudo la scandalosa verità della consistenza antropologica di quella classe sociale: si tratta di un’atmosfera psichica intrisa del più becero materialismo, del brianzolismo ideologico che mette sempre sugli scranni il proprio carnefice – vota chi la eliminerà.
L’ambizione unica della classe media è diventare élite. Essa fa da brodo primordiale ai candidati che non sono eletti per diritto ematico. Il suo “microfascismo antropologico” (come lo ha genialmente definito uno scrittore italiano) è la quintessenzializzazione della brutalità lumpen, il sottoproletariato che si evolve darwinianamente, aspirando al “più”, al riconoscimento sociale che l’appartenenza alla media conferisce alla bestiolina uscita dal quartiere dormitorio. La mira è quella dell’assenza di riconoscimento che l’élite garantisce al suo ristretto adeptato.
In questa visione delle classi, che è un portato di stupefacente reazionariato, manca una variabile fondamentale: l’impazzimento creativo. Il pensiero unico del liberismo ha molte declinazioni, ma questa cappa uniformante – per cui la società esprimerebbe “naturalmente” (ma di quale “natura” si tratta?) l’invarianza e la monomania di una cultura come spontanea emersione dal sociale – è dannosa e falsa.
Su questo punto, ci permettiamo qualche osservazione di bassa fenomenologia: un caleidoscopio vacanziero che, forse, può stimolare a ragionare su questa feccia propagandata come “natura del sociale”, come cifra ultima dell’occidente industrializzato e come iter scolastico per un apprendimento dell’inculata a lungo termine (sempre meno lungo, fortunatamente).
1. Se Scottex vende cinquecentomila rotoli di carta igienica, la notizia non c’è; ma se Oriana Fallaci vende cinquecentomila copie di un’autointervista, la notizia dev’esserci eccome. Lasciamo perdere come questo grottesco fenomeno viene vissuto all’estero (sullo Herald Tribune, un attacco impressionante al Corsera che ha distribuito il rotolo di autoparole). Consideriamo proprio la verità spacciata dalla Fallaci su carta morbida e bianca. “Spacciare” è in questo caso il verbo più adatto: nel promo, sulle pagine del prestigioso quotidiano diretto da un Folli, con estrema sintesi Fallaci ammoniva che lei diceva quello che tutti gli italiani pensano e non sono capaci di dire, per paura o per qualche altro motivo. Questa scottante verità, asintomatica dal punto di vista linguistico, sarebbe che l’Europa adesso è Eurabia: invasa dai negri, in pratica, puzzoni di una cultura retriva e post-tribale, inquinante corrosivo della grande civiltà occidentale che, supponiamo, per Fallaci affonda le radici nella Grecia di Eraclito, Platone, Pindaro, Pericle. Difficile non dare ragione a Fallaci: gli italiani, se dici “Pindaro”, impallidiscono, ma è proprio quello che vorrebbero dire, e non ce la fanno. Per fortuna che c’è lei, lei che le Pitiche sa benissimo cosa sono. Lei che si trastulla con Teognide e il suo diletto omoerotico Cirno. Lei che sa che davvero quei negri e quei mediorientali poco hanno a che fare con i misteri a cui fu iniziato Platone, o con le verità apprese e traslate da Eraclito. Lei che sa benissimo, per consustanzazione, che cos’è lo “zero” e chi l’ha inventato. Le radici precristiane dell’Europa! Un paganesimo ripulito, cristianizzato! Non funziona. Allora bisogna fare un salto, visto l’imbarazzo a prendere le parti per radici tanto pure e bianche – sarà il caso di affermare che l’Europa non arabica è quella cristiana. Quindi un’Europa antiebraica: sappiamo bene che storia definisce i rapporti tra ebrei e cristiani. E poi e poi: dovremo riconoscere le nostre radici in uno sparuto gruppo di mezzi matti esseni? E che dire del grande rinnovamento platonizzante del cristianesimo, chez Avicenna & Averroè?
Ora, c’è da chiedersi: ma cosa c’entra questo con la crisi della classe media? C’entra. C’entra perché Fallaci definisce esattamente non soltanto il neologismo Eurabia, ma anche le modalità dell’uso che la classe media fa della storia in cui è inscritta. Un uso, come è evidente, totalmente reazionario, imperniato sull’efficacia di una corrente alternata, grazie alla compresenza dinamica di due poli: da un lato, la storia come tradizione immutabile, principio vuoto di autorità, già codificato per sempre, che definisce nella perennità la vita creativa di una comunità, la quale non deve uscire dai solchi di quella tradizione; dall’altro lato, lo svuotamento totale dei contenuti di quella storia, scritta con autoritarismo antiumano, per cui la classe media viene a ignorare le movenze del codice stesso a cui tenta disperatamente di attenersi – i greci come vaga idea dello splendore dei primordi, la storia della chiesa cristiana come omogeneità sempreuguale: cioè, autentici falsi storici messi a fondamento non tanto di un’idea di civiltà, quanto di una sensazione vaga e diffusa di appartenervi. Tutto ciò crea un’aura di tragica inconsapevolezza, che viene travestita da autoconsapevolezza della propria civiltà. Un’aura, appunto: non un contenuto. Nomi, suggestioni. Gli occidentali, che mangiano con le forchette e non con le mani, sono la stessa cosa dei passeggiatori sotto la Stoa Pecile – senza che si sappia cos’è la Stoa Pecile. Insomma: verità credute senza saperle, modulini che fanno atmosfera – atmosfera molto occidentale. Sono quelli che Krugman, in un editoriale di qualche giorno prima che uscisse quello citato sopra, chiama “script”, riprendendo una terminologia di àmbito cognitivista: truismi non verificati, inanellati in storielline in cui conta l’aspetto onomastico. Se Krugman e il cognitivismo non fallano, Fallaci risulta davvero, come la definiva Panorama tempo fa, “la più grande scrittrice italiana”: di script, però.
2. L’arco spettacolare, che serve a un proditorio e generalista condizionamento psichico collettivo, ha due momenti genetici che incantano la massa: sia la massa lumpen sia la massa media. Il gossip e la tragedia gossip sono gli attuali pendolini con cui si tenta l’ipnosi collettiva. Del gossip non è il caso di occuparsi: qui non trattiamo di lumpen. La tragedia gossip, invece, è indicativa di quanto il genoma della classe media determini il piano della cosiddetta “autenticità” con cui si elaborano i truismi di cui al punto precedente. Quest’estate abbiamo tutti assistito a un mirabile esempio di tragedia gossip: cioè il caso Liboni. Alcuni elementi del genoma codino che sostanzia la classe mediomediocre:
– l’outsider, percepito come minaccia, chiama demonizzazione, secondo il manicheismo massivo con cui il presbiterianesimo reinterpreta la morale cattolica;
– si procede all’emblematizzazione del rischio tramite assalto moralistico (la mamma ex troia, la filippina da chiavare, le rapine: sono gli antichi spauracchi della vecchia borghesia merdaiola);
– la morte dell’outsider come catarsi (vedansi le immagini della cobolda denunciante, tutta fiera di avere partecipato al grande evento da cui Liboni è uscito con i piedi in avanti);
– nel frattempo, si sviluppi ai massimi il panico collettivo come reazione al pericolo mosso dalla variabile impazzita, il quale panico fa da sfondo alla produzione di notizie e all’allestimento del circo mediatico.
L’anno scorso era toccato all’ex psichiatra Geoffrey, che aveva trafittoa Milano un collega con una balestra e si era dato alla macchia, prima di venire arrestato in una spiaggiona ligure. Eppure nel caso di Geoffrey non si era assistito alla canea di latranti appartenenti alla classe mediocre, d’un colpo divenuta classe allucinata e denunciante (Liboni individuato ovunque a Roma), anche se il ritratto della vittima già faceva intuire la deriva: il ricordo della vittima come scout, come volontario post-basagliano, padre di famiglia, buono, inerme, molto colto. Non bastava, però. E’ che la classe media è in rapida, direi ripida, evoluzione. E’ nevrastenizzata. Bercia contro l’euro. Si attacca al prete, che nell’omelia finale dice che “il sangue è stato lavato col sangue”, in spregio a tutti i buoni insegnamenti dell’ecumenismo cattolico, ma in piena coerenza col messaggio protestante a cui si è ridotta la dottrina e la pratica romana. E’ una sorta di riconfigurazione dell’italiano medio, a cui assistiamo con rinnovato ribrezzo: qui abbiamo davanti un Satta Flores che, anziché fagocitare il porno che persegue, recita direttamente il filmino dello scandalo. Il profiling di Liboni, tracciato dalla punta di diamante della classe media italiana, cioè il giornalismo di Repubblica e del Corriere, restituisce all’inconscio collettivo nazionale la sommatoria dei suoi incubi piccoloborghesi: l’uomo solo, che puzza, senza famiglia, a rischio psichiatrico, che deve trasvolare nelle Filippine per scopare, con la mamma infamante, brutto, non palestrato, fallito nel gestire un locale, inaffidabile, incolto, che spartisce le ultime ore con il marocchino piuttosto che rientrare nel recinto dei normali. Si badi: non è l’esponente del lumpen, che è la massa da cui vuole distinguersi l’antimassa di massa costituita dal ceto medio. E’, piuttosto, l’ossessione metafisica del selvaggio che ricorda quanto sia vantaggioso l’immaginario patto sociale con cui si è eretta la cosiddetta civiltà – questa vergognosa chimera anglosassone con cui stanno avvelenando la vita dei popoli da quattro secoli. Menzogne infilzate come uno spiedino di carne avariata: ha l’Aids, ha l’epatite, ha le transaminasi alte. Ecco la degna controparte del sogno ipersalutista della classe media occidentale: il supermalato, malato di malattia morale, perché per la classe mediocre continua a trattarsi di patologie etiche, che comportano la messa al bando – cioè condannano al banditismo. E che sollievo hanno provato gli innamorati della securitas borghese, quando hanno saputo dell’abbattimento, della macellazione. Ma già provavano sollievo da subito: il Lupo era solo, non si trattava di un’insurrezione di massa. La classe media è talmente isterizzata e in pieno DSPT che, al solito, basta un piccolo conato di criminalità per fare emergere la verità emotiva delle schiere benpensanti: l’attaccamento alla sopravvivenza come unica norma sociale, elevata a metafisica della specie. E’ il timore e il tremore della sottospecie, cioè, che va a inverare il comodo dogma darwiniano. Gli animalini tremuli paventano la varianza specifica che farà di loro i meno adatti a sopravvivere – loro, i mediopensanti, quelli che stanno tremando perché i manager americani di cinquant’anni perdono l’ingaggio e non rientrano più nella giostra, vanno al Pane Quotidiano di Tampa Bay e finiscono nei “reportage” del Washington Post.
Mentre il lumpen si abbacina alla vista della fama, il mediomediocre continua a temere l’infamia. Gli umanisti ne tengano conto, quando decideranno di tornare a fare male sul serio a questa schiatta.
3. Il perfetto esponente della classe media che pensa di poter varcare le soglie del Potere è l’uomo che guarda i sigilli e ancora non si capacita che i sigilli esistono. Il ministro Castelli interviene nella polemica innescata da tal Colombani, non chiaramente direttore di Le Monde, che denuncia, in una lettera a Repubblica, il supposto razzismo dei pulotti dello scalo aereo veneziano, che gli hanno molestato ripetutamente il figliuolo “coloured”. Ecco alcuni illuminanti stralci del pensiero medio del ceto mediocre: “Cosa ha prodotto la cultura di sinistra se non legioni di esseri umani che, incapaci di affrontare i loro problemi, chiedono allo Stato di farlo? Cosa ha prodotto il materialismo storico se non gulag, fame e miseria?”; “Questo campione della cultura oggi dominante in Europa, filoislamica, antisemita anticristiana, globalizzatrice, massonica ha dimostrato con la sua lettera con quale animo guarda gli italiani e chi non la pensa come lui”; “Allora caro Beppe [sarebbe il ministro Pisanu, scusatosi pubblicamente con Colombani] unisciti a noi e non giustificarti con costoro che ci odiano e ci ritengono dei minus habens. Ma soprattutto mi rivolgo agli intellettuali di destra oggi troppo silenti. Battete un colpo. Non lasciate la Fallaci a combattere da sola”.
Lascio perdere il generalismo cetomediano con cui Castelli tira dentro Cesare Battisti in una questione che non c’entra, prescindendo dalle cautele giuridiche e storiche di cui un esponente istituzionale dovrebbe perlomeno farsi interprete. Qui m’interessa invece la pappa: il pappone, cioè, di giudizi distorti, sommari, superficiali, che mischia allegramente tutti gli spettri che tormentano da secoli le notti sempre insonni della classe media – e cioè i diversi (in questo caso, ma è solo la maschera più recente, gli islamici), i massoni, l’opposizione al beghinismo, un immaginario quanto generico antisemitismo (è il massimo: un rappresentante della Lega, probabilmente la formazione che ha espresso negli ultimi anni il maggior numero di denunce di fantasmatiche “lobby ebraiche”, taccia avversari inventati di onirici atti antisemiti…). Va da sé che la patente di reazionariato di massa viene conferita, al culmine dell’invettiva massimalista, proprio a Quella di cui al primo punto di questo intervento.
Questi tre episodi vanno letti come atti casuali di violenza insensata: la violenza che fomenta ulteriore odio e si scatena vibrante quando si percepisce la fine. La rilevazione di Paul Krugman vale in maniera ancora più drammatica per l’Italia: la classe media sta affondando e non lo farà con un sospiro di esaurimento. E’ estremamente chiaro cosa in realtà costituisce l’ossessione del ceto medio – vale a dire una tattica che realizzi anzitempo il crollo materiale di questa vil classe dannata. Simile tattica ha un nome: cultura. Per cultura si intende la mobilitazione generale di potenziali creativi, che conduca a pratiche di invenzione e alternativa sociale. Può sembrare una definizione passatella, paradeleuziana o similsituazionista – ma non è l’intenzione di chi scrive. Penso piuttosto a quanto indica Evangelisti nel finale dello splendido j’accuse sul caso Battisti, quando evoca i potenziali storici della letteratura, confrontandoli con l’illusoria solidità di altre componenti sociali (siano magistrati, giornalisti o politici poco importa). Non è la bomba a spaventare la classe media: la classe media ha paura della paura della bomba. Ogni prassi politica deve perciò tradursi in una prassi creativa: bisogna dilatare la paura, lavorando come gli artisti lavorano sull’inquietudine, la sovversione, il sovvertimento degli stereotipi consolidati ad usum idiotae. Ed è esattamente quello che sta facendo la narrativa italiana contemporanea italiana (si intenda: quella migliore, quella di cui si parla spesso su queste pagine).
L’umanesimo che fa male alla classe mediocre è la premessa maggiore del sillogismo che conduce all’inevitabile conclusione della ridistribuzione delle energie, economiche e libidiche, di cui l’occidente sembra oggi privo, perché ha lavorato solo a vantaggio del potere di élite e delle risorse tecnologico-militari.