di Fabio Raimondi
Si parla molto, oggi, di crisi della politica e con questa diagnosi si crede di poter spiegare (se non giustificare) la disaffezione verso di essa e, addirittura, il desiderio, se non il successo, dell’antipolitica. In questo quadro, la politica viene identificata con un agire piegato agli interessi dei partiti e dello stato e alle dinamiche di gestione del potere. Idea che suscita l’illusorio contraltare che possa esistere un’anti-politica intesa come la subordinazione dell’agire a interessi privati per quanto ammantati dalle retoriche della concretezza. È in questo piatto, assai poco succulento nel suo trasudare miseria, che mette i piedi il filosofo francese Alain Badiou in una conferenza tenuta a Parigi nel gennaio del 2003.
La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica (Cronopio, pp. 70, € 6,50) si propone, infatti, di «rispondere alla sfida di dover pensare la politica fuori della sua soggezione allo stato e fuori della cornice dei partiti o del partito» e l’esperienza della Comune (18 marzo-28 maggio 1871) «è stata proprio una sequenza politica che non ha accettato né questa soggezione né questa cornice» (al di là delle interpretazioni «classiche», del tutto insufficienti, che ne sono state date: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Brecht, Mao). Con un linguaggio non sempre ostenso e ricco di riferimenti impliciti (Althusser e Rancière su tutti), Badiou prova a indicare un criterio per discriminare cosa si debba chiamare politica. La politica è sempre l’evento di una singolarità, di ciò che «ha come conseguenza il portare a un’esistenza politica, provvisoriamente massima» (ossia capace di durare non in quanto tale, ma nella sua disposizione a condizionare il futuro) «un inesistente»: far apparire un invisibile, far parlare chi doveva tacere. Il piano dell’apparire politico viene così completamente trasformato dall’irrompere di un impensato (un supposto inesistente) e la stessa logica che presiede all’apparire viene modificata: «l’esistenza dell’inesistente» è il modo in cui l’essere, che soggiace all’apparire, traspare in esso e lo sovverte. La politica, insomma, è sempre una mutazione «ontologica», attraverso la quale si manifesta una «massima trascendentale», secondo la quale «se ciò che non valeva niente» giunge all’esistenza, «allora un dato consolidato dell’apparire viene distrutto».
Nella fattispecie, la Comune riuscì a sovvertire «l’accettazione del fatto che la contropartita statale» di quel movimento fosse «l’avvento al potere di cricche di politicanti», ossia l’idea, allora corrente anche tra i proletari, «che ci sia o debba esserci continuità tra il movimento politico di massa e la sua contropartita statale», da cui deriva poi il tema costante del «tradimento» da parte «dei truffatori parlamentari ai soprassalti politici di massa». La dichiarazione del Comitato centrale della guardia nazionale, emessa il 19 marzo, recitava: «I proletari della capitale, in mezzo alle disfatte, all’incapacità e ai tradimenti delle classi che governano, hanno compreso che è arrivata l’ora di salvare la situazione prendendo in mano la direzione dei pubblici affari». È in quest’agire «folgorante e totalmente imprevedibile», che si sottrae al tradimento assumendosi la responsabilità di porre i proletari al governo dei «pubblici affari» che si ha, secondo Badiou, il segno identificante della Comune, «che per la prima volta, e finora anche l’ultima, rompe con il destino parlamentare dei movimenti operai e popolari». La Comune diventa così la prova ontologica di se stessa (un «sito» nel lessico dell’autore): nulla la fonda e la garantisce che non sia la sua stessa capacità di dotarsi «di un’intensità di esistenza».
Ma, se fino a questo punto possiamo dire di essere ancora all’interno di una teoria della rivoluzione, è la scelta della Comune e non quella dell’Ottobre 1917 a dover far riflettere su quale sia la reale posta in gioco del ragionamento di Badiou. La Comune, infatti, non solo seppe rompere col passato facendo «apparire, nello spazio della capacità politica e di governo, l’essere-operaio che, fino a quel momento, non era stato che un sintomo sociale, una forza bruta delle rivolte e una minaccia teorica», ma fece molto di più: provocò una «rottura politica» radicale col parlamentarismo, anche (e soprattutto) con quello di «sinistra». Se «chiamiamo sinistra l’insieme del personale politico parlamentare che si dichiarava il solo capace di assumere le conseguenze generali di un movimento politico popolare singolare», o «il solo capace di fornire un esito politico ai movimenti sociali», allora la dichiarazione del 19 marzo «è una dichiarazione di rottura con la sinistra». In breve, la Comune «ha distrutto la subordinazione politica operaia e proletaria», ossia «la necessità di una forma essenziale di soggezione: la manovra politicante borghese (la sinistra)», che va sotto il nome di parlamentarismo e, oggi, di «democrazia». Il tempo di ciò che politicamente dura, dunque, non è un tempo istituzionale e contro di esso nulla possono i cannoni di Thiers.