Un’ipotesi sui Dialoghi sulla religione naturale di David Hume
di Jedel Andreetto
I Dialogues sono apparsi postumi nel 1779, dopo vicissitudini incredibili, dovute al loro stesso contenuto che li rendeva incandescenti nelle mani di qualsiasi editore dell’epoca. Attraverso la classica forma del dialogo platonico, il ‘bon’ David confuta l’esistenza divina e mette in discussione con ironia e sottigliezza le religioni, dal politeismo con la sua ingenuità, alle religioni monoteiste che non sfuggono alla superstizione, all’intolleranza e al fanatismo. Primos in orbe deos fecit timor (il timore fu la prima origine degli dei) come si legge nella Tebaide di Stazio, e le religioni infatti non provengono che da quel sentire irrazionale che anima paure e speranze dell’uomo.
In tempi come questi, in cui il fanatismo si ripresenta più forte che mai, sotto le spoglie di fede religiosa, politica ed economica, non ci rimane che lo scetticismo, unica ironica arma, contro i portatori di Verità. Con un’unica avvertenza: che non diventi anch’esso un credo, in fin dei conti la coerenza porta ai campi di concentramento.
Introduzione.
Si è discusso molto attorno alle figure dei Dialoghi sulla religione naturale, sulle loro possibili incarnazioni e sui loro rapporti reciproci. Quello che è emerso dalle varie analisi e critiche, che nel tempo si sono evolute e arricchite in base alle precedenti, è che nessuno dei tre protagonisti è identificabile senza qualche ombra con entità storicamente precise e connotate. Ciò in cui è rintracciabile un punto d’accordo è l’equazione Filone – Hume, ipotesi sottoscritta più o meno palesemente da più parti.
L’altro nodo gordiano su cui riflettere affrontando lo scritto è rappresentato dalla questione del “vincitore”.
Nella sezione XII dei dialoghi lo scettico Filone afferma che:
Uno scopo, un’intenzione o un disegno colpisce dovunque la mente più disattenta e più stupida, e nessuno può essere tanto assuefatto a sistemi assurdi da respingere quel disegno
e ancora che:
La natura non fa nulla invano, è una massima stabilita, ovunque, sulla base della semplice contemplazione delle sue opere, al di là di ogni fine religioso,
dando così, apparentemente, partita vinta al sostenitore del design argument Cleante.
Come vedremo in seguito e come emerge dallo scritto di Carabelli, Hume rappresenta con l’esito a favore di Cleante una situazione storico – contestuale ben definita in cui trionfa il pensiero analogo a quello dell’ospite, nella cui biblioteca, i Dialoghi si svolgono. Un momento preciso e riconducibile all’epoca in cui lo stesso Hume si trova a vivere.
Con la consueta ironia il filosofo mette allo specchio la sua epoca, e contemporaneamente se stesso nei panni di Filone.
Non è lo scettico a perdere, ma lo stato delle cose e il suo corso non può essere che osservato dalla sua posizione particolare dotata di arguzia e in una certa misura di prudenza e “sense of humour”.
Dunque nominalmente vince Cleante e reconditamente Filone, che trascina con se il lettore grazie alle brillanti e divertenti argomentazioni? E Demea, colui il quale sembra essersi dileguato prima della conclusione? Che fine fa Demea?
Sembra che la critica lo abbia escluso dalla rosa dei possibili vincitori chiunque egli incarni, da Andrew Baxter alla figura particolare del cavalier Ramsey, a qualunque entità storicamente definibile, come la chiesa scozzese di stampo conservatore tra sei e settecento.
Eppure, il pensiero di tipo “demeiano” si è riaffacciato a più riprese e con vigore rinnovato in diversi momenti successivi, fino ai giorni nostri, forte di una caratteristica intrinseca all’uomo e di cui non ci si può liberare: il Belief, la credenza fonte di superstizione, fede, fanatismo e spesso confusa, come avvertiva Hume con la ragione stessa.
Mi sembra che nonostante tutto sia proprio Demea quello che ha resistito all’incedere del tempo,
e che la sua figura si ripresenti in più occasioni e ciclicamente sempre uguale a se stessa, corroborata dagli stessi principi immutabili, al contrario di Cleante che non può sopportare lo scorrere del tempo e ha bisogno di rinnovarsi, in quanto progressista, e mutare talmente i suoi connotati tanto da sconfinare in più di un occasione nella figura del conservatore per sopravvivere.
Cleante stesso ammette inconsapevolmente l’impossibilità di eliminare l’avversario ritenendolo necessario per non scivolare nell’ateismo e affidandogli in qualche modo l’incarico di occuparsi della religione del popolo . Filone non può che stare a guardare, come lo stesso Hume del resto, avvolto nel suo scetticismo che non propone sistemi e si isola quasi elitariamente nelle «regioni oscure ma tranquille della filosofia.» Demea è quello che potremmo definire un vincitore sulla lunga distanza, la sua è una gara fatta di resistenza non di scatti o fantasia, non è un “atleta” di cui ci si ricorda ma piuttosto un oscuro gregario che vince perché gli altri sono caduti o sono stati squalificati.
La sua identificazione con un determinato pensatore può restare ancorata solo a un determinato momento storico poiché il pensatore sopravvive al suo sistema ma la credenza sopravvive al pensatore, e con essa solo, in realtà la figura di Demea può collimare di epoca in epoca.
In ambito religioso, attualmente, non si può più sostenere l’esistenza divina o i suoi attributi tramite le argomentazioni di Baxter o di Ramsey, poiché l’evoluzione stessa della scena del pensiero e della società stessa opporrebbero resistenze che negli anni si sono avvalorate di sistemi, teorie e conoscenze contro le quali le armi delle loro filosofie risulterebbero non solo spuntate ma completamente inadeguate.
Ma fede e superstizione sembrano sopravvivere a qualunque “calamità” scientifico – filosofico e a cui né l’ironia di Filone, né la razionalità di Cleante possono fare fronte. E con loro tutto il pensiero che ne è seguito.
1. Filone, Cleante, Demea …
Nei Dialoghi sulla religione naturale di David Hume si confrontano tre pensatori molto diversi tra loro, non solo per le posizioni filosofiche ma anche per il pathos che trasmettono al lettore.
Quello che si svolge nella biblioteca di Cleante non è uno scontro ad armi pari, anche se i toni della discussione, se pur accesi per certi versi, non varcano mai la soglia del buon gusto e non trasformano l’ironia in sarcasmo. Non è ad armi pari, dicevo, giacché l’esuberanza di Filone e il fermo entusiasmo di Cleante adombrano la presenza del terzo personaggio che per sua natura si barrica dietro austerità e mestizia.
I primi due sono indaffarati, a contendersi il primato della scena a colpi di retorica, spumeggiante quella del primo e a suo modo fantasiosa quella del secondo, Demea, fermo nelle sue posizioni, dà modo agli altri di emergere vicendevolmente nella discussione. I suoi interventi sono brevi e concisi.
Se andiamo a vedere più da vicino l’economia dei dialoghi ci accorgiamo inevitabilmente che la maggior parte delle parole sono pronunciate dagli altri due e soprattutto da Filone: lo stesso scettico si trova a costituire la parte mediana tra i due, si appoggia ora all’uno, ora all’altro, deostruisce ora una posizione ora l’altra servendosi di Demea contro Cleante e viceversa, non costruisce sistemi ma li smantella con il dubbio, ed è quindi logico che i suoi interventi siano i più prolissi. Ma, mentre con questo sistema Filone risulta essere una sorta di giocoliere della parola e Cleante tenta di tenergli testa, Demea rimane in penombra come se fosse l’unico portatore di un fardello che gli altri non riescono a vedere o che hanno dimenticato di possedere. Di questo peso egli si fa in un certo senso latore, quando gravemente annuncia quella presenza, che sarà decisiva per lo svolgimento e la conclusione del libro: il male.
Addentrandosi nella lettura si ha la sensazione che la presenza dell’ortodosso uomo di fede sia come una macchia scura che disturbi la solarità degli altri due conviviali, solarità che deriva da fonti diverse e che si esprime in modi diversi ma pur sempre luminosa e leggera.
La posizione di Demea è netta e irremovibile e anche se la disputa può averlo costretto a mettersi in discussione, egli non si muove di un sol passo. Tutto il suo disappunto per le parole degli altri, si risolve in esclamazioni di biasimo scandalizzate dal punto di non ritorno che la discussione ha oltrepassato.
Prima che si concluda la “sfida”, con una scusa se ne va, senza sbattere la porta, ma lasciando una lieve scia dietro di se. Senza la sua presenza, l’atmosfera pare quasi rilassarsi Cleante e Filone continuano a discutere ma il punto d’accordo segnato dalla svolta di Filone e il conseguente riallontanamento dovuto alle divergenze derivanti dall’atteggiamento pratico riguardo la religione placano i toni che al cospetto del terzo erano stati più accesi.
Non è da attribuire certo alla “vivacità” di Demea lo svolgimento e la conclusione dei dialoghi ma la sua presenza e la sua assenza si fanno sentire come se da esse dipendesse l’atmosfera della biblioteca.
2. Fede, superstizione e Belief.
La critica ha attribuito negli anni diverse identità a Demea, come agli altri due, figure riconoscibili e riconducibili a vari filosofi e studiosi o a contesti storico – politici ben definiti come quello scozzese tra sei e settecento.
Nonostante l’evidente conservatorismo e l’ancor più palese ortodossia fedele alla religione rivelata ciò che mi preme sottolineare è la professata inconoscibilità dell’ente divino e la presenza del male, che Demea nei suoi pochi interventi afferma. Su queste basi, Demea perora la sua causa contro il sostenitore del design argument, gli sembra che anche solo una vaga analogia con la natura umana rasenti la blasfermia e che non sia possibile concepire una vita che non sia accompagnata per la maggior parte dal dolore. La sua fede è forte e incrollabile.
Come Hume insegna, la credenza è qualcosa di resistente e di cui non si può decidere ragionevolmente.
Nella sua freddezza, a suo modo Demea è un uomo passionale, bruciato continuamente dal fervore religioso, è uno di quei minister che con i loro sermoni hanno fatto tremare molti cuori devoti, uno di quelli che quando descrivono la dannazione eterna fanno sentire il fuoco dell’inferno agli ascoltatori, eppure di fronte a Cleante e soprattutto a Filone, si defila, resta nell’oscurità. Non ha di fronte popolani o superstiziosi e nemmeno fanatici, ma uomini di cultura e scienziati e non può pretendere di usare la sua arte oratoria per evocare fantasmi cui nessuno crederà e non sa convertire la potenza evocatrice delle sue parole in argomenti scientificamente rilevanti. Non può sostanzialmente discutere con gli altri, perché in realtà si trova come un pesce fuor d’acqua. Ma la sua posizione nello schema dell’opera resta in ogni modo di primo piano. Fornisce un trampolino di lancio a Filone per porre le domande epicuree a Cleante, in sua assenza lo stesso Cleante si riappropria della sua visione religiosa, come succederà agli esponenti progressisti della religione in Scozia, per affermare che è meglio un uomo superstizioso che ateo.
3. Demea attraverso gli oceani del tempo.
Quella di Demea è una figura che sopravvive a se stessa, alla sua assenza, alla ragione stessa. Il progresso, l’illuminismo, la scienza non sono riusciti a eliminare la presenza della sua visione nemmeno al giorno d’oggi. Il suo è un Belief che non si sradica con niente.
Il dibattito in atto sul sempiterno argomento divino, non può fare a meno di confrontarsi con la posizione “demeiana”. Nonostante l’approccio fenomenologico abbia caratterizzato i termini della discussione filosofica in tutti i suoi campi d’applicazione nell’ultimo secolo, tornano a presentarsi i temi e gli svolgimenti che in quei pochi passaggi dei dialoghi Demea ha esplicato.
Per una corretta interpretazione comprensiva e critica bisogna tenerne assolutamente conto. Bisogna confrontarsi con chi, in un mondo nel quale la verità non esiste o meglio è formata da verità parziali e d’ugual valore, afferma con forza la “Verità” ultima e definitiva cui bisogna ciecamente abbandonarsi.
L’esistenza divina e quella dei suoi attributi si ripresentano ora, dopo aver attraversato la fase caratterizzata dalla razionalità, un nuovo ciclo in cui l’unico modo di essere concepiti è nuovamente attraverso il misticismo. Solo tramite un percorso interiore si può percepire la presenza di Dio.
Dove la ragione ha fallito si ripresenta la credenza. Hume aveva visto giusto.
Ma mentre Demea non cerca argomentazioni speculative e si limita a professare l’inconoscibilità di Dio e dei suoi attributi, aggiungendo un certo richiamo esoterico all’argomento, oggigiorno una strana commistione di misticismo e metafisica s’inoltra nei meandri del “sublime mistero” per renderne partecipi uomini di fede e uomini di scienza. Si fa dell’impossibilità di conoscere il nome di Dio, un vessillo sotto cui ripararsi e contemporaneamente la base della filosofia per cui bisogna abbandonare ogni dubbio di fronte al tema della natura divina e della sua esistenza. In tutto quest’estatico abbandono teoreticamente giustificato, si perde il fascino oscuro del personaggio dei dialoghi.
Mi sembra che in materia filosofica si sia perso di vista il fattore umano, non è importante il pensiero in sé ma il suo “avatar”, sia esso un uomo in carne e ossa sia esso un uomo di carta e inchiostro.
Demea è molto più umano di chi si spinge nelle asettiche regioni del rapimento mistico con sfondo metafisico.
Paradossalmente il male, la tristezza, il dolore che egli espone nelle pagine dei dialoghi sono dotati di maggiore forza e spessore di quelli esposti dai nuovi malcelati ortodossi della fede – filosofia
Merito di Hume, si dirà che è riuscito a cogliere con il suo personaggio l’essenza di un pensiero e di un momento storico. Certo, merito dell’autore ma merito anche del personaggio stesso che con il suo carattere è giunto inossidabile fino a noi.
Traspare la potenza dei suoi probabili sermoni nelle sue contenute e concise parole. Il suo stare quasi discretamente in disparte è la sua debolezza e la sua forza. Il suo atteggiamento sottolinea il suo pensiero più di quello che lo fa ciò che dice.
Egli è stato un minimo comun denominatore che è avanzato attraverso il cronotopo, si è adagiato nelle parole e nelle riflessioni di chiese e pensieri religiosi diversi. Il suo profilo si è fatto riconoscere più volte sia tra conservatori sia tra moderati, il suo volto ha subito diverse trasfigurazioni ma è rimasto in fondo uguale a se stesso. Lo abbiamo riconosciuto tra i protestanti come tra i cattolici, lo abbiamo visto introdursi tra pensatori e filosofi come tra uomini di fede, lo vediamo rinascere ogni volta in cui la superstizione valica i confini del possibile, là dove la fede è salda e non c’è spazio per lo scetticismo, dove si scambia la credenza per ragione e dove come dice Cleante «la religione corrotta è meglio di nessuna religione.»
(Continua)