di Alessandro Leogrande
[da Lo Straniero, 50/51, agosto/settembre 04. Alessandro Leogrande è autore del bellissimo reportage narrativo Le male vite]
“Uno della Famiglia”, con queste tre parole le donne di casa Agnelli — sopravvissute ai lutti che hanno falcidiato negli ultimi anni gli uomini della Famiglia — hanno designato Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza della Fiat (la “f” maiuscola di famiglia non è roba nostra: è nella pronuncia stessa degli Agnelli, e così la parola è stata riportata da tutti i giornali italiani, da “la Repubblica” al “Corriere”, da “la Stampa” a “l’Espresso” a “Panorama” eccetera, negli ultimi giorni di maggio 2004).
Ora, a essere pignoli, Luca Cordero di Montezemolo non è un Agnelli. Non può vantare di appartenere al nobile casato, né è, per intenderci, un Alain Elkann, che ha sposato la figlia dell’Avvocato e ha generato quel Jaki che è il vero pretendente al trono.
Montezemolo non appartiene biologicamente alla Famiglia.
Eppure, davanti al feretro di Umberto Agnelli, le donne vestite di nero — quasi fossero in un quadro di Carlo Levi sulla Lucania — hanno proferito parole da oracolo: “La scelta ricade su di lui, perché è uno della Famiglia!”
In altri luoghi e in altre epoche, avremmo relegato questa vicenda ai giornali rosa, oltre che alle pagine economiche. Ma poiché la Fiat è — ancora oggi — il capitalismo italiano, poiché Montezemolo è il nuovo presidente di Confindustria, corteggiato dall’Ulivo più che dalla destra al governo, poiché il suo “conflitto d’interessi” è secondo solo a quello di Berlusconi, non la tralasciamo.
Uno della Famiglia. Nelle parole degli Agnelli riprodotte dai giornali c’è qualcosa di oscuro e selvaggio: è ovvio che la frase va intesa in altro modo. Al di là della filiazione biologica, vigono le regole del clan, quelle della cooptazione e quelle dell’affiliazione. (Chi dimentica le foto che ritraggono un Montezemolo poco più che trentenne, ma già tra i massimi dirigenti della Fiat, sempre a meno di due metri dall’Avvocato? E le foto che lo mostrano sorridente per la sconfitta operaia dell’80?)
Gratta il capitalismo, gratta la ricchezza, gratta via i soldi, metti per una volta tra parentesi il potere e l’adulazione e si intravede la scorza. E quella scorza, nella sua essenza, è una frase mafiosa. Pronunciata in stile mafioso da donne, com’è nei clan incapaci di auto-rappresentazione maschile: “Scegliamo lui perché è uno della Famiglia”.
L’elezione di Montezemolo a presidente della Fiat ha segnato la vittoria della Famiglia nei giochi societari e la definitiva sconfitta (e uscita di scena) dell’amministratore delegato Giuseppe Morchio, il manager parvenu che invece avrebbe voluto accorpare le due cariche (quella di presidente e quella di a.d., appunto) e accaparrarsi parte della proprietà: “Il nuovo sono io,” pare abbia detto a un Umberto Agnelli prossimo alla morte, “voi siete il vecchio.”
Si è letto su “la Repubblica” del 31 maggio: “Difficile per la gente comune che sfila in silenzio [davanti alla bara di U. Agnelli nella camera ardente, N.d.R.] immaginare che, in quelle ore, si stanno fronteggiando in silenzio la Famiglia Agnelli al gran completo e un uomo che probabilmente ha costruito e sta coltivando un disegno destinato ad avere come sbocco una clamorosa rottura.” I 50mila che sfilavano davanti al corpo di U. Agnelli (perché nessuno ricorda che la sua ultima dichiarazione pubblica è stata di disprezzo nei confronti degli operai di Melfi in lotta?) non sapevano insomma, secondo “la Repubblica”, di stare assistendo a una pseudotragedia scespiriana. Al centro la bara. Da un parte Morchio, in abito scuro, immobile per ore: con gli occhi puntati ora sulla bara, ora sulla Famiglia. Dall’altra la Famiglia. Intorno i servi sciocchi, ignari della battaglia che prevede vincitori e vinti.
Ma non c’è niente di romantico né di tragico in tutto questo: è una scena squallida, priva d’interesse, ma reiterata più volte. Non c’è niente di “alto” nei funerali del potere, nelle lotte per il potere. Non siamo in un’opera di Euripide. Non ci muoviamo tra i versi di Shakespeare. Non siamo neanche in un film epico-tragico-mafioso di Cimino o di Coppola, siamo semmai in un film di Abel Ferrara: certe frasi sono solo rozze e premoderne, certi sguardi animaleschi, le enunciazioni da oracolo semplicemente autoritarie. Il Clan è più forte della Famiglia, e quando l’affiliazione si sostituisce al sangue biologico il cerchio si allarga per poi subito richiudersi.
Nel clan Agnelli, i padri e i figli si sono estinti. I nipoti sono ancora giovani. L’onere della decisione è ricaduto sulle donne e la scelta ha premiato l’Affiliato più illustre. Se c’è qualcosa di tragico in tutto questo è solo nel fatto che tra il linguaggio delle donne della Famiglia Agnelli e quello adottato in altre circostanze dalle donne della Famiglia Riina o della Famiglia Bontate o della Famiglia Giuliano non c’è alcuna differenza. Operano scelte identiche per far sopravvivere il clan, recuperando in parole ataviche una mistica della successione. L’analisi del linguaggio è uno specchio formidabile che precede ogni considerazione economica e finanziaria. Ma “non c’è niente di romantico in tutto questo”, come ripete — anche questa frase non è nostra — Annabella Sciorra in Fratelli (The funeral) di Abel Ferrara. Non c’è proprio niente da salvare nell’esaltazione di un codice clanico.
Poiché i governi cambiano, ma la Fiat resta sempre al suo posto; poiché la Famiglia risorge in eterno nei modi che abbiamo visto, ma non uno dei grandi giornali nazionali si sottrae all’adulazione delle sue gesta (come “il manifesto”, che pensa sia “di sinistra” intervistare gli esponenti outsider del clan…) — poiché tutto questo ci sgomenta, vi confidiamo un nostro sogno “perverso”.
Ci piacerebbe, un giorno, vedere buona parte degli esponenti della Famiglia — le donne in particolare, Montezemolo compreso — processati per associazione mafiosa. Non per la distruzione del paese che hanno operato in cinquant’anni di capitalismo sfrenato, non per aver appoggiato e orientato tutti i peggiori governi italiani, non per aver sottratto miliardi alle casse dello Stato, non per aver castrato il sindacato e la classe operaia, non per aver represso, inquinato, stravolto, corrotto… Processati non per queste nefandezze che pure hanno commesso, ma per quella semplice frase che rivela un mondo culturale, un modo di pensare e di agire, di gestire il potere e la sua perpetuazione.
“Uno della Famiglia”. Quanti processi, in assenza di ulteriori prove, si sono improntati a Palermo, Napoli, Bari, Catania, Reggio Calabria per una frase del genere?