In barba al titolo, che evoca scenari da romanzo storico, e alla copertina di gusto splatter pop, quest’ultimo libro di Franco Bifo Berardi incorpora uno sforzo di analisi teorica che lo proietta decisamente al di sopra di altri recenti lavori dell’autore, di taglio più “pamphlettistico”, inserendolo fra i punti di riferimento obbligati del dibattito sulla natura dei movimenti sociali degli ultimi quarant’anni (il libro parte dalle lotte degli anni ’60 per arrivare ai giorni nostri). Il suo merito più importante consiste nell’offrire una chiave di lettura unitaria dei processi di trasformazione culturale dell’ultimo mezzo secolo, sottraendoli all’equivoco ideologico che – assimilando i movimenti del decennio 60-70 a una sorta di variante “eretica” della tradizione comunista novecentesca – li differenzia in relazione al periodo di appartenenza (prima o dopo il crollo dei regimi comunisti).
Il filo rosso che unifica le lotte operaie e studentesche degli anni ’60 e ’70 a quelle del movimento New Global iniziato a Seattle nel 99′ – passando attraverso il deserto degli anni ’80 e l’esplosione delle culture della Rete degli anni ’90 -, sostiene Bifo, è il costante tentativo di sfuggire collettivamente al primato dell’economia sulla vita umana. Se le tre forze che guidano il mondo contemporaneo sono il sapere, il capitale e la guerra, scrive l’autore, gli ultimi decenni di storia sono caratterizzati dai continui sforzi del sapiente di riappropriarsi delle conoscenze da lui stesso prodotte, sottraendole al controllo del mercante e del guerriero.
La consapevolezza in merito alla centralità di tale conflitto è implicita nelle argomentazioni teoriche della tradizione “operaista” italiana che, dalle ormai lontane pagine della rivista “Quaderni Rossi” a quelle assai più recenti di “Impero”, firmate da Antonio Negri e Michael Hardt, non ha mai cessato di mettere l’accento sulla autonomia dei comportamenti sociali nei confronti delle presunte “leggi” del mercato. Ricostruendo puntualmente quel lungo percorso teorico, Bifo suggerisce tuttavia di sostituire il termine operaismo (che implica una continuità con la tradizione novecentesca) con il termine composizionismo. Essere composizionisti significa vedere la dinamica sociale (che si incarna di volta in volta in una determinata composizione di classe) come un processo fluido nel quale si mescolano flussi culturali, psichici e ideologici e non come terreno di scontro fra forze compatte, fra soggetti unitari portatori di volontà univoche (leggi fra classi sociali). Per farla breve: si capiscono meglio i movimenti a partire dalle oscillazioni dell’immaginario sociale piuttosto che dalla “lotta di classe” di leniniana memoria.
Naturalmente, l’autorappresentazione che l’operaismo italiano operava di sé negli anni ’60 e ’70 era ben diversa: pur ribellandosi contro la cultura “lavorista” del movimento operaio tradizionale, quei movimenti si sentivano ancora parte integrante, ancorché eretica, della grande famiglia comunista. Bifo ne è consapevole – e lo ammette esplicitamente – ma preferisce “rileggere” il senso degli slogan sul rifiuto del lavoro alla luce dei successivi sviluppi storici: quella fra operai e studenti, scrive, non fu una “alleanza” tattica fra diversi soggetti sociali, bensì la presa di coscienza di un lavoro cognitivo che, da un lato, rifiutava il proprio assoggettamento in frabbrica, dall’altro aspirava a conquistare una nuova qualità della vita affermando la propria autonomia dal capitalismo e dalla guerra.
Tutto ciò emerge con chiarezza a cavallo degli anni ’70 e ’80, quando, sotto l’incalzare di deregulation, decentramento produttivo e smantellamento dello stato sociale, il movimento non si cristallizza una lotta di resistenza a difesa del passato, ma innesca processi di mutazione culturale sempre più sotterranei e individualizzati, irriducibili allo schema dualistico della lotta di classe. Le coordinate culturali della grande trasformazione si erano spostate dalla Cina alla California ben prima del fatidico ’89. E in quegli anni già lavorano le energie che preparano il terreno per la paradossale rivoluzione “anarco-capitalista” della Net Economy.
Gli anni Novanta sono lo scenario di una forma del tutto inedita di emancipazione delle forme di vita dall’economia, fondata sul tentativo di rovesciare l’economia contro se stessa. Mettendo in discussione il principio di scarsità (la conoscenza è una risorsa che non si esaurisce e cresce quanto più la si “consuma”), e l’idea della competizione economica come gioco a somma zero (si può competere e cooperare al tempo stesso, come dimostra il modello produttivo del software open source), il capitalismo immateriale fondato sulle reti di computer sembra inaugurare un’era del tutto nuova: l’ascesa della classe virtuale (la nuova composizione che hanno assunto gli strati medio-alti del lavoro cognitivo) si accompagna alla nascita di un lavoro appagante e “divertente”, che sfrutta competenze comunicative e creatività. Startup e dot.com, grazie all’euforia borsistica, danno l’assalto al cielo, fanno concorrenza alle grandi corporation dell’industria high tech e culturale, ignorano i comandamenti della proprietà intellettuale, fanno soldi valorizzando il capitale sociale delle reti comunitarie che si aggregano spontaneamente attraverso Internet. L’economia viene assumendo un carattere “magico”, spettrale, mentre i mercati, soprattutto quelli finanziari, sembrano ormai dipendere da fattori immaginari e psicologici più che dalle “leggi” della domanda e dell’offerta.
Ma la bomba a orologeria della crisi è iscritta nell’ambiguità di una mutazione culturale che, da un lato, ineggia al funky business e alla riapproprazione del solo mezzo di produzione (il cervello) che ormai veramente conta, dall’altro abbatte ogni limite fra tempo vita e tempo di lavoro, “lavorizza” l’intera vita sociale e trascina la classe virtuale in una corsa senza speranza che vede la creatività umana tentare inutilmente di reggere il passo imposto dalla velocità delle tecnologie informatiche (infatti solo l’accelerazione esponenziale dell’innovazione tecnologica e dei mercati finanziari consente ormai al capitale di mantenere il controllo sulla forza lavoro e di generare profitti). E’ a questo punto, scrive Bifo, che maturano i presupposti di un collasso della mente globale. La nuova forma della crisi globale è un panico borsistico che tramuta di colpo la fiducia nell’espansione illimitata del ciclo del capitalismo immateriale in una sorta di depressione. Una depressione che diventa vero e proprio terrore di fronte alla prova evidente che quella stessa classe virtuale che sogna di arricchirsi attraverso l’e.commerce non è minimamente disposta a comprare notizie, contenuti, servizi in rete.
Sull’onda della crisi arriva la controrivoluzione che restituisce tutto il potere all’alleanza fra il mercante-Bill Gates e il guerriero-George Bush. Il resto è cronaca d’oggi, fra invasioni neocoloniali e keynesismo di guerra che tenta di far ripartire il ciclo economico dirottando la produzione verso le tecnologie di sicurezza. Cosa resta dell’autonomia del lavoro cognitivo? Restano le reti di cooperazione (Bifo parla in proposito di fraternità di rete) che hanno consentito di mettere in piedi i circuiti del mediattivismo, restano i modelli di un’economia sostenibile – o se si vuole di un’economia del dono – che iniziamo a intravedere attraverso le pratiche produttive della comunità del software open source o attraverso le pratiche di scambio gratuito di idee, saperi e conoscenze rese possibili dalle reti di file sharing. Resta, infine, la consapevolezza che la salvezza non può venire da una regressione ai miti del comunismo. Anche perché il comunismo, scrive Bifo, mentre è divenuta una parola impronunciabile dopo l’89, sopravvive in quei “comunisti” che ancora sono al potere ovunque, e servono con intatta volontà di dominio la nuova fede liberista.
Franco Berardi (Bifo) – Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all’emergere del cognitariato – Derive Approdi – euro 14,00