di Jean Genet
La Radio francese mi aveva offerto una delle sue trasmissioni dette "Carte
Blanche". Ho accettato con l’intenzione di parlare dei giovani criminali.
Il mio testo, che in un primo tempo era stato accettato da Fernand Pouey,
è stato ora respinto. Più che fierezza ne sento una certa vergogna.
Avrei voluto far ascoltare la voce del criminale. E non il suo lamento, ma
il suo canto di gloria. Me lo impedisce un’inutile ansia di essere sincero,
ma di essere sincero non tanto per l’esattezza dei fatti quanto per fedeltà
a quei toni un po’ rochi che soli potevano esprimere la mia emozione, la mia
verità, l’emozione e la verità dei miei amici. I giornali si
erano già stupiti che un teatro fosse stato messo a disposizione di
uno scassinatore – e di un omosessuale. Quindi non posso parlare davanti ai
microfoni nazionali. Ripeto che ne provo vergogna. Sarei comunque rimasto
nel buio ma sul limitare della luce e indietreggio nelle tenebre da cui ho
fatto tanti sforzi per strapparmi.
Il discorso che leggerete era stato scritto per essere ascoltato. Lo pubblico
ugualmente ma senza la speranza di essere letto da quelli che amo.
Spero che comprendiate e scusiate la mia emozione ora che devo esporre un’avventura
che fu anche la mia. Al mistero che voi rappresentate dovrò opporre,
e svelare, il mistero delle carceri giovanili. Sparsi nella campagna francese,
spesso in quella più elegante, esistono alcuni luoghi che non hanno
mai cessato di affascinarmi. Sono le case di correzione, la cui definizione
ufficiale e troppo educata è ora: "Patronato di risanamento morale,
Centro di rieducazione, Casa di recupero della gioventù delinquente,
ecc.". Il cambiamento di nome è già un segno. L’espressione
"Casa di correzione" e talvolta "Riformatorio", divenuta
una sorta di nome proprio, indicava un luogo ideale e crudele posto molto
a fondo nel cuore del ragazzo, aveva una violenza che gli educatori hanno
tentato di indebolire. Spero tuttavia che in segreto i ragazzi, malgrado i
termini rivelatori di un igienismo abbastanza sciocco, riconoscano il richiamo
del Penitenziario o del Bagno penale. Ora però dovranno porli piuttosto
in una regione morale che non in un punto preciso dello spazio; era stupido
prendersela con il nome credendo che avrebbe cambiato l’idea della cosa nominata
poiché questa cosa è, se cosi posso dire, viva, dal momento
che esiste grazie al solo movimento, al semplice andirivieni dell’elemento
essenziale: i giovani delinquenti. O criminali. Voglio anche dire che questo
angolo di mondo definito con nomi che ho citato poco fa ha il suo riflesso,
o piuttosto la sua immagine, il suo centro focale nell’anima dei ragazzi.
Riprenderò questo concetto più avanti. Saint-Maurice, S. Hilaire,
Belle Isle, Eysse, Aniane, Montesson, Mettray, ecco alcuni nomi che forse
per voi non significano nulla. Nella testa di ogni ragazzo che ha appena commesso
un delitto, o un crimine, questi nomi sono la proiezione definitiva del destino.
"Sono condannato alla ventuno" dicono. Commettono un errore (volutamente)
poiché la conclusione del tribunale che li giudica è questa:
"Assolto per aver agito senza discernimento e affidato fino alla maggiore
età al Patronato di risanamento…". Ma il giovane criminale già
rifiuta l’indulgente comprensione e la sollecitudine di una società
contro cui è insorto commettendo il suo primo delitto. In possesso
a quindici o sedici anni, o anche prima; di una maturità che le persone
per bene non avranno neanche a sessanta, disprezza la loro bontà. Esige
che la sua punizione sia priva di clemenza. Esige innanzi tutto che i termini
che la definiscono siano il segno di una crudeltà già maggiorenne.
È con una sorta di vergogna che il ragazzo confessa che l’hanno assolto
o che lo hanno condannato ad una pena leggera. Desidera il rigore. Lo esige.
Nutre in sé il sogno che questo rigore assuma la forma di un inferno
terribile e che la casa di correzione sia quell’angolo del mondo da cui non
si torna indietro. In effetti, da lì non si ritornava. Uscendo si era
diversi. Quella che avevamo attraversato era una fornace. E i nomi che ho
citato poc’anzi non sono nomi qualsiasi: sono carichi di significato, del
peso di un terrore che i ragazzi esagerano ulteriormente. Questi nomi saranno
per loro la prova della violenza, della forza, della virilità. Perché
è la virilità che i ragazzi vogliono conquistare. Esigono che
la prova sia terribile. Per esaurire, forse, un impaziente bisogno di eroismo.
Mettray, al tempo della mia giovinezza, era tra i nomi più prestigiosi:
sotto i colpi di un generoso imbecille Mettray è scomparso. Credo che
oggi sia una colonia agricola. Un tempo era un luogo severo. All’arrivo in
questa fortezza di lauri e fiori – perché Mettray non era cinta da
muri – il giovane fuorilegge che fin dal primo istante veniva chiamato colono
era oggetto di mille cure destinate a provargli il suo successo in quanto
criminale. Veniva rinchiuso in una cella dipinta interamente (soffitto compreso)
in nero. Poi lo vestivano con un abito celebre in tutta la regione perché
evocava terrore e infamia. In seguito, nel corso del suo soggiorno il colono
era sottoposto ad altre prove: le risse, talvolta mortali, che i guardiani
non disturbavano, le amache dei dormitori, il silenzio durante il lavoro e
i pasti, le preghiere, ridicolmente recitate ad alta voce, le camere di punizione,
gli zoccoli, i piedi scorticati, le ronde sotto il sole a passo di marcia,
i gavettoni d’acqua gelida, ecc. Noi a Mettray conoscevamo tutto questo e,
come in un’eco, ci rispondevano il supplizio del pozzo a Belle Isle, la fossa,
la tomba, la gavetta vuota, il gioco delle tinozze, la stanza di tortura in
altre colonie.
Ad un’indole sensibile la disciplina dei collegi, delle scuole, dei licei
può sembrare altrettanto severa e spietata. Risponderò che il
collegio non è fatto dai ragazzi: è fatto per
i ragazzi. I riformatori, invece, sono la perfetta proiezione sul piano fisico
del desiderio di severità nascosto nel cuore dei giovani criminali.
Le crudeltà che ho elencato non le imputo ai direttori, né ai
guardiani di una volta: costoro ne erano soltanto testimoni attenti, e feroci,
ma consapevoli del loro ruolo di avversari. Queste crudeltà dovevano
nascere e svilupparsi necessariamente dalla passione dei ragazzi per il male.
(Il male: io capisco bene questa volontà, questa audacia nel perseguire
un destino contrario a tutte le regole). Il giovane criminale è colui
che ha forzato una porta che dava su di un luogo proibito. Vuole che questa
porta si apra sul più bel paesaggio del mondo, esige che il bagno penale
che ha meritato sia feroce. Finalmente degno della fatica che ha fatto per
conquistarlo.
Da qualche anno uomini di buona volontà tentano di addolcire la situazione
carceraria. Sperano – e qualche volta ci riescono – di guadagnare qualche
anima alla società. Di farci, così dicono, tornare sulla retta
via. Fortunatamente le riforme sono solo superficiali, non alterano la sostanza.
E che cosa hanno fatto? Al guardiano hanno dato un altro nome: sorvegliante.
Gli hanno anche dato un’uniforme che deve ricordare un po’ meno quella delle
guardie carcerarie. L’hanno obbligato ad usare meno la violenza fisica e gli
insulti e gli hanno proibito le botte. All’interno del Patronato hanno addolcito
la disciplina. Hanno dato la possibilità a quelli che chiamano i rieducati
di scegliersi un mestiere. Hanno concesso una maggiore libertà nel
lavoro e nel gioco. I ragazzi possono parlare tra loro, rivolgersi ai sorveglianti
o al direttore. Le attività sportive sono incoraggiate. Le squadre
di calcio di Saint-Hilaire giocano contro quelle dei paesi vicini e qualche
volta i giocatori si spostano da soli da una città all’altra. Nel patronato
la stampa viene tollerata. Ma una stampa scelta ed epurata. Il cibo è
migliorato; la domenica mattina danno la cioccolata. Infine, misura che dovrebbe
completare l’efficacia delle riforme: è stato bandito l’argot.
Si concede insomma ai giovani criminali una vita simile alla vita più
banale. La chiamano rigenerazione.
La società cerca di eliminare o rendere inoffensivi gli elementi che
tendono a corromperla. Sembra che voglia diminuire la distanza morale tra
la colpa e il castigo, o, per meglio dire, il passaggio dalla colpa all’idea
del castigo. È evidente che una simile impresa di castrazione non mi
commuove affatto. Se anche i coloni a Saint-Hilaire o a Belle Isle conducono
un’esistenza apparentemente simile a quella di una scuola per apprendisti
non possono non sapere che ciò che li riunisce lì, in quel luogo
preciso, è il male. E questa ragione, tenuta nascosta, segreta, non
espressa, riempie dì sé le intenzioni di ogni ragazzo. Al solito
argot, che gli è stato proibito, i coloni ne hanno sostituito
un altro, ancora più sottile e che, grazie ad un meccanismo che non
posso spiegare a questo microfono, raggiunge l’argot di Mettray. A
Saint-Hilaire uno dei ragazzi che avevo domato mi disse un giorno:
"Quando le ho detto che un compagno era scappato, non dica al direttore
che ho detto che aveva fatto il cervo".
Si era lasciato sfuggire la parola. È la stessa che usavamo a Mettray
per parlare del ragazzo che evade, scappa, che i contadini inseguiranno nei
boschi, come un cervo. Ero al corrente dell’esistenza di un linguaggio segreto,
più sapiente di quello che volevano abolire, e mi chiedo se non servisse
ad esprimere sentimenti nascosti con troppa cautela. Gli educatori hanno l’ingenuità
e la bontà d’animo di una salutista. Il direttore di uno dei Patronati
mi ha mostrato un giorno, nel suo ufficio, una panoplia di cui sembrava fierissimo:
una ventina di coltelli sottratti ai ragazzi.
"Signor Genet, mi disse, l’Amministrazione mi obbliga a sequestrare questi
coltelli. E io obbedisco. Ma li guardi. Mi dica lei se sono pericolosi! Sono
di latta. Di latta! Con questi non si può uccidere nessuno".
Ignorava che, allontanandosi dalla sua funzione pratica, l’oggetto si trasforma
e diviene un simbolo? A volte cambia anche forma: si dice che si è
stilizzato. È allora che agisce sordamente nell’anima dei ragazzi e
compie le più terribili devastazioni. Sepolto di notte in un pagliericcio
o nascosto nella fodera di una giacca o, meglio, dei pantaloni – non per maggiore
comodità ma perché sia vicino all’organo di cui è il
simbolo profondo – il coltello è il segno dell’assassinio che il ragazzo
non commetterà effettivamente, ma che feconderà le sue fantasticherie
e le dirigerà, spero, verso gli atteggiamenti più criminali.
A che cosa serve quindi che glielo tolgano? Il ragazzo sceglierà, per
simboleggiare l’assassinio, un altro oggetto, dall’apparenza più innocua,
e se gli toglieranno anche quello serberà in sé, preziosamente,
l’immagine, più precisa dell’arma.
Lo stesso direttore mi mostrò la squadra di scout che aveva formato
per ricompensare i ragazzi più docili. Ho visto una dozzina di ragazzini;
subdoli e laidi, che si erano lasciati prendere nella trappola delle buone
intenzioni. Intonarono ridicoli canti di marcia che non hanno certo la potenza
evocativa delle cantilene sentimentali o oscene che si cantano di notte in
dormitorio o in cella. Guardando quei dodici marmocchi, era evidente che nessuno
di loro era stato scelto, eletto, per partecipare ad una spedizione audace,
foss’anche soltanto immaginaria; ma all’interno del riformatorio esistevano,
io lo so, a dispetto degli educatori, gruppi, o meglio, bande i cui legami,
i collanti che li tenevano insieme erano l’amicizia, l’audacia, l’inganno,
l’insolenza, l’amore per la pigrizia, un’espressione ad un tempo cupa e gioiosa,
l’amore per l’avventura, contro le regole del Bene.
Scusatemi se uso un linguaggio apparentemente così poco preciso. Tenete
conto che cerco di definire un atteggiamento morale e di giustificarlo. Ammetto
di volerlo soprattutto interpretare e di farlo contro di voi. Ma anche voi,
non siete forse i primi a parlare di "potenza delle tenebre", di
"oscuro potere del male"? Non temete la metafora quando sa convincere.
Ma io ho trovato un modo più efficace di usarla per parlare di questa
parte notturna dell’uomo che non si può esplorare, vi ci si può
addentrare soltanto armati, cosparsi, impregnati, ricoperti da tutti gli ornamenti
dei linguaggio. Ma soprattutto quando ci si accinge a compiere il Bene – e
notate che io distinguo alla svelta tra il Bene e il Male, ma che in realtà
sono categorie che soltanto voi potete distinguere a cose fatte; tuttavia,
è ancora a voi che mi rivolgo, vi concedo questa gentilezza – quando
ci si accinge, dicevo, a compiere il Bene si sa dove si va e che cosa è
il Bene e che si verrà premiati. Quando invece si tratta del Male,
non si sa ancora di che cosa si parla. Ma io so che Lui è il solo a
suscitare nella mia penna l’entusiasmo verbale, segno in questo caso dell’adesione
del mio cuore.
In effetti non conosco altro criterio per giudicare della bellezza di un atto,
di un oggetto o di un essere, se non il canto che suscita in me e che tradotto
in parole per comunicarvelo diviene lirismo. Se il mio canto è bello,
se vi ha turbato, oserete dire che chi l’ha ispirato era un essere infimo?
Potrete sostenere che esistono parole destinate da molto tempo ad esprimere
gli atteggiamenti più arroganti e che io le ho usate per far apparire
arrogante anche il più miserabile degli atteggiamenti. Se la vostra
è un’anima bassa, allora chiamate pure incoscienza il movente che porta
al delitto o al crimine un ragazzo di quindici anni, io a quel movente do
un altro nome. Perché ci vuole una bella faccia tosta, un bel coraggio
per opporsi ad una società così forte, alle istituzioni più
severe, a leggi protette da una polizia la cui forza risiede tanto nel timore,
favoloso, mitologico, informe che causa nell’animo dei ragazzi, quanto nella
sua organizzazione.
Ciò che li porta al crimine è il sentimento romanzesco, cioè
la proiezione di sé nella più magnifica, nella più audace,
insomma nella più pericolosa delle esistenze. Traduco per loro perché
hanno il diritto di usare un linguaggio che li aiuti ad avventurarsi… Dove?
Non lo so. Non lo sanno neanche loro, anche se la loro fantasticheria vuole
essere precisa, ma lontano dalle vostre case. E mi chiedo se voi non li perseguitate
anche per dispetto, perché vi disprezzano e vi abbandonano.
Per voi non ho nessun consiglio. Da quando ho cominciato a parlare non mi
sono rivolto agli educatori ma ai colpevoli. Per la società, in suo
favore, non voglio inventare qualche nuovo dispositivo che l’aiuti a proteggersi.
Le do fiducia, sarà certo in grado di mettersi al riparo dal grazioso
pericolo rappresentato dai giovani criminali. È a loro che mi rivolgo.
Gli chiedo di non arrossire mai di ciò che hanno fatto, di conservare
intatta in loro la rivolta che li ha resi così belli. Non esistono
rimedi, spero, contro l’eroismo. Ma, attenzione, se fra le persone per bene
che mi ascoltavano c’è ancora qualcuno che non ha cambiato stazione,
sappiano che devono accettare fino in fondo la vergogna, l’infamia di essere
anime belle. Che giurino di restare dei porci fino alla fine. Saranno crudeli
per affilare ulteriormente una crudeltà di cui i ragazzi risplenderanno.
Chiunque tenti di attenuare o indebolire la rivolta con la dolcezza o i privilegi,
distrugge per sé ogni possibilità di salvezza. Nessuno può
giustificare il crimine se prima non è stato colpevole e condannato.
Gli aforismi di questo genere sembrano sorgere dal lirismo di cui parlavo
poco fa. Lo ammetto. Per enunciarli mi appoggio ad un’unica autorità:
il dolore che proverei se vi dicessi il contrario. Ma voi, invece, su che
cosa basate le vostre regole morali? Sopportate che un poeta che è
anche un nemico vi parli da poeta e da nemico.
L’unico mezzo che resterà ai grand’uomini, alle persone oneste per
salvaguardare una qualche; bellezza morale è rifiutare qualunque pietà
a dei ragazzi che non la vogliono. Perché non crediate, signori, signore
e signorine che vi basti interessarvi con sollecitudine, indulgenza e comprensione
del giovane criminale per avere diritto al suo affetto e alla sua gratitudine:
bisognava essere quel ragazzo, bisognava che anche voi foste il crimine e
lo santificaste con una vita magnifica, cioè con l’audacia di rompere
con l’onnipotenza del mondo. Poiché ci si divide – da quando noi l’abbiamo
voluto, noi che abbiamo osato questa rottura – in non colpevoli (non dico
innocenti), come voi e colpevoli come noi, sappiate che è tutta la
vita che guidate da questo lato della sbarra da cui credete di poter, senza
alcun pericolo e con vostro conforto morale, tenderci una mano soccorrevole.
Per quanto mi riguarda io ho scelto: sto dalla parte del crimine. Non aiuterò
i ragazzi a tornare a casa, in fabbrica, a scuola, a rispettare le vostre
leggi, i vostri sacramenti, ma a violarli. Ohimè! Temo proprio di non
avere più la stessa virtù, perché non è soltanto
per un errore degli organizzatori di questa chiacchierata che mi è
stato concesso troppo facilmente di parlare alla radio.
I giornali mostrano ancora fotografie di cadaveri che debordano dai silos
o ricoprono le pianure, attaccati al filo spinato, nei forni crematori; mostrano
unghie strappate, pelli tatuate, conciate per farne dei paralumi: sono i crimini
nazisti. Ma nessuno si è accorto che da sempre, nelle carceri minorili,
nelle prigioni francesi ci sono aguzzini che martirizzano ragazzi e uomini.
Non è importante sapere se gli uni sono innocenti e gli altri colpevoli
rispetto ad una giustizia più alta o semplicemente umana. Agli occhi
dei tedeschi i francesi erano colpevoli. Ci hanno tanto maltrattato in prigione,
e così vigliaccamente, che invidio le vostre torture. Perché
sono uguali e migliori delle nostre. Grazie all’azione del calore la pianta
è cresciuta. Mi rallegro di vedere finalmente il seminatore divorato,
poiché questa pianta fu seminata dai borghesi che fecero le prigioni
di pietra, con i loro guardiani di carne e di spirito. Quelle brave persone
che oggi sono solo un nome dorato sul marmo applaudivano quando passavamo
con le manette ai polsi mentre uno sbirro ci colpiva ai fianchi. Un semplice
scappellotto dei loro gendarmi fu ravvivato dal sangue ribollente degli eroi
del Nord, e il germoglio è cresciuto fino a divenire una pianta magnifica
di bellezza, d’astuzia e d’abilità, una rosa i cui petali attorti e
dischiusi, così da mostrare il rosso e il rosa sotto un sole infernale,
hanno nomi terribili: Maidenek, Belsen, Auschwitz, Mauthausen, Dora. Tanto
di cappello.
Ma noi continueremo ad essere il vostro rimorso. E senza nessun’altra ragione,
se non quella di abbellire ulteriormente la nostra avventura, perché
sappiamo che la sua bellezza dipende dalla distanza che ci separa da voi,
perché le rive a cui approdiamo, lo so, non sono diverse, ma sulle
vostre spiagge ben ancorate, riusciamo a distinguervi, piccoli, gracili, rabbiosi,
indoviniamo la vostra impotenza e le vostre benedizioni. Del resto avete di
che rallegrarvi. Se i cattivi, i crudeli rappresentano la forza contro cui
lottate, noi vogliamo essere questa forza del male. Saremo la materia che
resiste, senza la quale non ci sarebbero artisti.
Chiacchiere romantiche, direte.
Ma io so che voi quella morale in nome della quale perseguitate i ragazzi
non la applicate affatto. Non ve ne faccio un rimprovero. Il vostro merito
consiste nel professare dei principi che tendono ad ordinare la vostra vita.
Ma non avete abbastanza forza per abbandonarvi completamente alla Virtù
o al Male. Predicate l’una e sconfessate l’altro di cui comunque approfittate.
Riconosco il vostro senso pratico. Purtroppo non posso cantarlo. Accusatemi
pure di lirismo. Ma se uno dei vostri giudici, il cancelliere di un tribunale,
un direttore di prigione farà sbocciare un canto e lo farà sgorgare
dal mio petto, sarete i primi a saperlo.
La vostra letteratura, le vostre belle arti, i vostri
divertimenti serali celebrano il crimine. Il talento dei vostri poeti ha glorificato
il criminale che nella vita odiate. Dovete sopportare che anche noi disprezziamo
i vostri poeti e i vostri artisti. Oggi possiamo dire che ci vuole una bella
sfacciataggine perché un attore osi rappresentare in scena un assassinio
quando ogni giorno ci sono ragazzi e uomini che, se non sempre muoiono a causa
del crimine, sono comunque schiacciati dal vostro disprezzo o dal vostro delizioso
perdono. Ognuno di questi criminali deve vedersela con il proprio atto. Deve
estrarne le risorse stesse della sua vita morale e organizzarla intorno a
sé, per ottenere da lei quello che la vostra gli rifiuta. Per sé,
soltanto per sé e per un lasso di tempo molto breve – dato che avete
il potere di tagliargli la testa – diviene un eroe altrettanto bello quanto
quelli che vi commuovono nei vostri libri. Se vive, per continuare a vivere
con se stesso avrà bisogno di un talento maggiore di quello del poeta
più raffinato.
Tuttavia, gli eroi di cui traboccano i vostri libri, le tragedie, le poesie,
i quadri continuano ad essere l’ornamento delle vostre vite mentre disprezzate
i loro sfortunati modelli. Fate bene: loro rifiutano la mano che gli tendete.
Se quelli che mi ascoltano hanno visto il film Sciuscià si sono
commossi per la resa delicata del sentimento di ragazzi legati tra loro dall’amore
più sottile. Hanno ammirato l’avventura che non hanno avuto il coraggio
di vivere, ma nessuno pensa che questi affascinanti eroi esistono nella vita
reale. Che rubano veri biglietti di banca a veri genitori. Probabilmente il
cosiddetto talento degli attori ci ha permesso di avere immagini così
belle, ma quelli che furono i loro modelli hanno sofferto davvero, hanno sanguinato,
hanno pianto (più raramente) e a loro la gloria del mondo è
stata rifiutata. Voi tollerate dunque l’eroismo quando è addomesticato
(sottolineo rapidamente che i vostri incantatori, i vostri artisti, lo addomesticano
per voi, maneggiandolo comunque con cautela). Voi ignorate l’eroismo nella
sua vera natura di carne e ignorate che soffre quotidianamente come voi. La
vera grandezza vi sfiora. La ignorate e ne preferite l’imitazione.
Se dei ragazzi hanno il coraggio di dirvi no, castigateli. Siate duri, così
che non vi risparmino. Ma è da molto tempo che barate. Nei vostri tribunali,
nelle Corti ormai non seguite più il cerimoniale del rito – non che
l’abbiate sostituito con una crudeltà più intima, una crudeltà,
per così dire, in borghese – ma, con grave trascuratezza, venite in
pretura con la toga rammendata, qualche volta i risvolti non sono neppure
più in seta, ma in rayon o in una qualunque stoffa lucida. Poi applicate
tutte le regole del codice, innanzi tutto quelle più formaliste. Il
giovane criminale non crede più nella vostra dignità perché
si è accorto che era fatta di cordoni stinti, di nastri scuciti, di
pelliccia spelacchiata. Il desiderio di guadagno, la polvere e la povertà
delle vostre sedute gli appaiono desolanti. È sul punto di offrirvi
un po’ della maestà che sa ottenere da una seduta più solenne
dove appare in segreto, mentre continuate sotto i suoi occhi il vostro infantile
simulacro. La familiarità quasi vi porta a dargli dei buffetti sulle
guance, a prendergli il mento, se non temeste di essere accusati non d’indulgenza
paterna, ma di sentimenti abominevoli.
Ma io scherzo, naturalmente, e il mio umorismo deve sembrarvi molto pesante.
Siete certi che salverete questi ragazzi. Fortunatamente, alla bellezza dei
delinquenti più anziani che loro ammirano, ai fieri assassini, non
potrete mai opporre altro che ridicoli sorveglianti, strizzati in un’uniforme
mal tagliata e mal portata. Nessuno dei vostri funzionari può affascinare
questi ragazzi e portarli al successo nell’avventura che loro stessi hanno
iniziato. Nulla sostituirà la seduzione dei fuorilegge. L’atto criminale
ha più importanza di qualunque altro perché con esso ci si oppone
ad una forza enorme, morale e fisica.
Anche voi credete alla bellezza di Vacher, di Weidmann, di Ange Soleil. Io
insorgo contro questa affermazione: "… c’erano in loro meravigliose
possibilità da cui si sarebbe potuto tirare fuori qualcosa di buono…".
Ecco un linguaggio che soltanto voi potete usare, è quello della Società,
ma vi trovereste davvero in difficoltà se vi interrogassi con rigore.
Costoro hanno sfruttato a loro vantaggio le loro più magnifiche possibilità.
Se non riuscite a conquistare i ragazzi con la dolcezza potete sempre guarirli,
perché avete i vostri psichiatri. A proposito di costoro basterebbe
porre qualche semplice domanda, di quelle che sono state poste cento volte.
Se la loro funzione consiste nel modificare il comportamento morale dei ragazzi,
sarebbe per condurli a quale morale? Quella che si insegna nei testi di scuola?
Ma l’uomo di scienza non oserebbe prenderla sul serio. Si tratta di una morale
personale elaborata da ogni singolo medico? E da dove attinge quest’autorità?
A che cosa servono queste domande, verranno aggirate. So che si tratta della
morale corrente, e lo psichiatra se la cava affibbiando ai ragazzi il bel
nome di disadattati. Che cosa posso rispondere? Alla vostra furbizia opporrò
sempre la mia astuzia. Oggi, poiché è stato permesso, grazie
a non so quale errore, ad un poeta che fu dei loro, di parlare a questo microfono,
voglio ripetere ancora una volta la mia tenerezza per questi ragazzini spietati.
Non mi faccio illusioni. Parlo nel vuoto e nel buio, tuttavia, magari soltanto
per me, voglio ancora insultare coloro che insultano.
Fonte: titolo originale L’enfant criminel (1948). Pubblicato
in Italia da Millelire Stampa Alternativa (1998), traduzione di Chiara
Bongiovanni.