Qual è il suo modo di vedere le cose a proposito del cinema?
Il cinema dev’essere spettacolo, e’ questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo piu’ bello e’ quello del mito. Il cinema e’ mito. Poi, dietro questo spettacolo, si puo’ suggerire tutto quello che si vuole: attualita’, politica, critica sociale, ideologia. Ma bisogna farlo senza imporre, senza prevaricare, senza obbligare la gente a subire. C’e’ lo spettacolo e poi, in seconda battuta, se uno vuole puo’ anche trovare la riflessione. E’ molto piu’ onesto lavorare cosi’, presentare ad esempio la politica in questo modo, che non pretendere di dire la verita’ a tutti i costi. E’ proprio quando si crede di dire la verita’ (e quindi di rappresentare oggettivamente la realta’) che si dicono le piu’ grandi bugie. Ci sono film diretti da registi di sinistra che sono veri e propri apologhi reazionari, e viceversa. Insomma, il cinema e’ fantasia e questa fantasia, per essere veramente completa, deve avere uno spessore.
Il suo esordio accreditato avviene nel 1960 con Il Colosso di Rodi. Che ricordo ha di quel film?
Il ricordo di un divertimento, e soprattutto di una fonte di guadagno caduta proprio al momento giusto. Mi ero appena sposato, e come tutte le coppie di sposi novelli io e mia moglie Carla avevamo piccoli e grandi problemi economici. Quando poi il film fu lodato dai «Chaiers du Cinéma» rimasi molto sorpreso, pur conoscendo la facilita’ all’entusiasmo degli amici francesi. Nel mio piccolo, avevo cercato di smitizzare il genere storico-mitologico, servendomi di uno spunto di partenza mutuato da Hitchcock e in particolare da Intrigo internazionale: l’ateniese Dario viene coinvolto in eventi piu’ grandi di lui durante una vacanza a Rodi che prevedeva di tutto riposo. Non era un film che sentivo profondamente mio, ma ho cercato di farlo nel miglior modo e di dargli ove possibile un’impronta personale. In effetti, e’ un film che non avrei mai fatto se l’avessi dovuto pensare io. Semplicemente, a quell’epoca furoreggiava il film colossale, e il produttore Maggi mi propose di realizzarne uno. Per darle un’idea del livello di queste persone che gravitavano nell’ambiente del cinema, pensi che Maggi non aveva la piu’ pallida idea che il colosso fosse una statua. Pensava che fosse un forzuto da far interpretare a Steeve Reeves o Gordon Scott. Quando lo informai che era una statua, rimase esterrefatto.
L’idea della “Trilogia del dollaro” esisteva fin dall’inizio o è maturata dopo il successo di Per un pugno di dollari?
Esisteva in partenza. Certo, se il film non avesse avuto successo, mi sarei fermato li’. E’ un rischio che ho accettato integralmente fin dal principio, e nessuno era disposto a scommettere sul buon esito del film. Il piu’ grande esercente fiorentino, Germani, dopo aver visto Per un pugno di dollari, mi disse: «Leone, lei ha fatto un capolavoro che non fara’ una lira. Come ha potuto pensare a un western dove il ruolo femminile e’ ridotto a una comparsata?». E io gli risposi: «Pensi che io l’ho fatto esclusivamente per questo. Forse avra’ ragione lei, ma staremo a vedere». Poi, dopo l’uscita del film, Germani faceva sempre il possibile per evitare di incontrarmi, certo che avrei avuto un paio di cose da dirgli.
I riferimenti alla tragedia greca presenti in Per un pugno di dollari si spiegano come citaziono colte, oppure hanno altri significati?
No, nessuna citazione. E’ che non si puo’ pensare ad un western senza fare riferimento ai classici. Infatti, non c’e’ solo la tragedia greca (che d’altronde e’ fondamentale), ma anche Shakespeare, che aveva ripreso praticamente tutto dalla tradizione classica. E poi, ho sempre sostenuto che il piu’ grande scrittore di western e’ Omero, e che i suoi personaggi non sono altro che gli archetipi degli eroi del West. Ettore, Achille, Agamennone non sono altro che gli sceriffi, i pistoleri e i fuorilegge dell’antichita’.
Ci sono nel film altri riferimenti “colti”. Penso a Goldoni e al suo Arlecchino servitore di due padroni.
Certo. Il personaggio di Clint Eastwood si trova tra due cosche rivali e, servendo ora l’una ora l’altra, non fa altro che affrettare la distruzione di entrambe. E’ uno schema della commedia dell’arte che proviene direttamente dalla classicita’ di Plauto e Terenzio.
In questo senso, Eastwood assume un chiaro connotato politico, perchè la sua azione ha il sapore della lotta di classe.
Sicuramente, politico, ma anche mitico. E’ un personaggio che viene dal nulla e nel nulla va, e che nel frattempo diventa arbitro tra due nuclei di potere. In fondo, e’ questa l’essenza vera del mio cinema: una favola ricca di agganci con la realta’ contemporanea.
Si può parlare anche di personaggio chapliniano?
Certo. Il pistolero senza nome mette in crisi il potere, proprio come faceva Charlot, e lo fa con ironia ma anche con una precisa consapevolezza distruttiva. Chaplin e’ per me il massimo genio dell’arte cinematografica, e se non ci fosse stato lui, molti di noi oggi farebbero un altro mestiere.
Come scelse Eastwood per la parte del protagonista?
Lo avevo intravisto in una serie televisiva americana, Rawhide (in Italia, Gli uomini della prateria, N.d.A.), e mi era sembrato perfetto. La verita’ e’ che avevo bisogno di una maschera piu’ che di un attore, e Eastwood a quell’epoca aveva soltanto due espressioni: con il cappello e senza cappello. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto incarnare il protagonista dei miei primi film, e i risultati mi hanno dato ragione.
Una novità di Per un pugno di dollari è rappresentata dalla violenza. Era un elemento di rottura rispetto alla tradizione romantica del western?
Si’. Ma questo non vuol dire che si tratti di una violenza gratuita, fine a se stessa. La violenza dei miei film ha un’estrazione politica. Non e’ che nei film americani la gente non morisse. Moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell’idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e puo’ farlo soltanto attraverso l’esistenza fisica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere amplificato, si deve vedere il sangue, si deve capire il danno provocato da un foro di palottola. E’ realismo critico, con un preciso punto di vista. Kubrick, parlando di Arancia meccanica, disse che si trattava di una favola morale. Posso dire lo stesso dei miei film. I miei film sono favole, e le favole non possono essere rappresentate con bonarieta’. Perche’ i film di Disney, quelli con attori in carne e ossa, sono brutti? Perche’ fin dal primo momento si capisce di assistere a una favola non vera, a qualcosa di artificioso e di banalmente edulcorato. I cartoons, invece, sono immensi, eccezionali. La favola deve essere piu’ realistica della cronaca, deve coinvolgere, emozionare e, perche’ no, spaventare anche atraverso la rappresentazione della violenza. In quella proposta dai miei film non c’e’ compiacimento, ma un preciso intento morale. Bisogna far sapere che quando si spara si ottengono certi effetti sul corpo umano, eltrimenti chiunque puo’ prendere una pistola e pensare che tanto non succede niente. Sparare a una gamba, invece, significa l’amputazione, e non un corpo che cade in silenzio in campo lungo. C’e’ forse compiacimento nella cronaca? Parlo di fatto in se’ e per se’, non di chi poi ci specula sopra. Insomma, la mia rappresentazione della morte e’ un fatto cerebrale, non viscerale. E’ un avvertimento: dietro la favola c’e’ la realta’.
Il buono, il brutto, il cattivo è il più compiuto dei suoi tre western?
Assolutamente. E’ la storia di tre uomini che, sullo sfondo della Guerra di Secessione, inseguono un tesoro e combattono un aloro guerra privata. Grande e piccola Storia si incrociano, come sempre, nei miei film. L’idea per il film mi e’ venuta dal celebre discorso di Chaplin che concludeva Monsieur Verdoux. L’autodifesa di un assassino: Verdoux che, ammettendo di aver ucciso, si dichiara un dilettante di fronte agli eccidi organizzati dai grandi del suo tempo, rappresenta il massimo dell’accusa. E la stessa cosa fa Tuco di fronte al massacro del ponte di Legstone, una sequenza che mi e’ in parte stata ispirata da alcune pagine di Un anno sull’altipiano di Lussu. C’e’ chi trova nel film anche echi keatoniani, e mi sta bene. Insomma, della “Trilogia del dollaro” e’ l’episodio piu’ complesso e completo, quello in cui ho raggiunto pienamente quel tono picaresco che rappresentava il mio obiettivo principale. E poi, il film contiene una sequenza, quella del “triello”, che mi ha dato grandissime soddisfazioni. Pensi che all?universita’ del Cinema di Los Angeles gli studenti la esaminano fotogramma per fotogramma: costituisce un esempio di montaggio.
Di tutti i personaggi dei suoi film, lei sembra provare un particolare affetto per il messicano Tuco di Il buono, il brutto, il cattivo.
E’ vero. Tuco rappresenta, come poi sara’ Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonte’, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Cosi’ scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in se’ qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E invece, per Tuco fu perfetto.
I suoi primi film hanno avuto qualche vicissitudine produttiva?
Per un pugno di dollari moltissime. Addirittura un produttore mi disse che appena si liberavano Tognazzi e Vianello si poteva fare il film. A cose fatte sarebbero fioccate le parodie, ma c’era qualcuno allora che pensava che il film fosse gia’ una parodia. Gli altri li ho prodotti io stesso, e quindi non ho avuto problemi. Dopo il successo internazionale, naturalmente, ho avuto carta bianca su tutto, almeno finche’ non ho cominciato a pensare a C’era una volta in America. Il film avrei voluto farlo subito dopo Il buono, il brutto, il cattivo, ma i produttori erano spaventati dal costo elevato, e soprattutto preferivano battere finche’ era caldo il ferro del western. Cosi’, siccome talvolta i successi bollano piu’ degli insuccessi, sono stato costretto ad aspettare diciassette anni prima di portare a compimento il progetto che piu’ mi stava a cuore.
Nei suoi western si nota l’assenza dei pellerossa. Ci sono le sagome in legno di Il buono, il brutto, il cattivo e qualche comparsa in C’era una volta il West, ma nient’altro.
Io ho questo pallino del realismo, e non potevo concepire gli indiani finti che venivano utilizzati a Hollywood, dove anche Rock Hudson, Henry Silva e Ricardo Montalban potevano passare per pellerossa. Gli indiani rientrano perfettamente nel mio quadro del West, ma non nel mio discorso cinematografico: se dovessi inserirli in un film, li vorrei autentici, e oggi come oggi e’ quasi impossibile trovarli.
Qual è il suo western preferito?
Senza dubbio L’uomo che uccise Liberty Valance, e chiaramente piu’ per una questione tematica che di stile. E’ il film in cui Ford per la prima volta si e’ smentito: ha mostrato la vera faccia del West e, abbandonato il suo tradizionale ottimismo, ha abbracciato una visione piu’ realistica e, di conseguenza, pessimistica. Ha fatto vedere l’altra faccia del mito.
Il suo rapporto con John Ford?
Una grande, sconfinata ammirazione, pur nella radicale diversita’ di prospettive che ci contraddistingue. D’altronde non avrei mai potuto esordire in un genere facendo l’imitazione di qualcun altro. Lui aveva quella visione ariosa, romantica (ma sempre realistica) del West, ed era giusto che fosse cosi’. La sua foto con dedica («To Sergio Leone with admiration. John Ford») e’ uno dei miei ricordi piu’ cari e il mio massimo motivo d’orgoglio. Cio’ non toglie che anche lui abbia commesso i suoi errori. Non gli perdono ad esempio Un uomo tranquillo, la favola dell’Irlanda verde e bonacciona, mentre in realta’ il paese era dilaniato dalla guerra dell’IRA. Per un regista che in passato aveva diretto Il traditore, la trovo una rappresentazione inconcepibile.
I protagonisti di C’era una volta il West, Armonica, Jill e Cheyenne, hanno ciascuno un tema musicale. Frank, invece, non ce l’ha. Perchè?
Poiche’ la tematica di Frank fa parte di quella di Armonica. Sono le due facce dell’uomo, e sarebbe stato difficile differenziarli nella musica. Per questo Frank e’ introdotto da un diverso arrangiamento del tema dell’armonica: e’ l’interlocutore dell’Uomo, l’altra faccia della medaglia, e uno non puo’ esistere senza l’altro. Per questo quando Armonica uccide Frank se ne va: e’ un po’ come se morisse anche lui nel momento in cui perde l’oggetto della sua vendetta, che e’ anche lo scopo della sua vita.
L’armonica sembra rappresentare il suono del destino.
Non solo. Lei sa che l’armonica non ha note. E’ uno di quei suoni che piacciono a me, e che forse appartengono piu’ alla schiera dei rumori. A questo proposito, quando C’era una volta il West era al mixaggio, mi accorsi che i primi due rulli non funzionavano come volevo con l’accompagnamento della musica di Morricone. Cosi’ tolsi la musica e lasciai soltanto i rumori: la banderuola, il vento, le cicale, il treno, lo scricchioli’o del vento, lo sbattere d’alo degli uccelli. Ennio, quando vide il film concluso, non sapeva di questa mia scelta. Alla fine dei due rulli mi si avvicino’ e mi disse: «Ma lo sai che e’ la piu’ bella musica che ho composto?». Anni dopo, un assistente di George Lucas e’ venuto a chiederci i rumori di quei primi due rulli. Quando gli e’ stato risposto che quei rumori non venivano conservati, ci ha guardati come fossimo abitanti di un altro pianeta. In America conservano tutto, inscatolano tutto. Che noia.
Il suo rapporto con la musica, e quindi con Ennio Morricone.
Ho detto, e lo ripeto, che Morricone e’ il miglior sceneggiatore dei miei film. Non potrei mai andare sul set se non avessi gia’ a disposizione la musica di Ennio. Anche attori abituati alla presa diretta come Henry Fonda, Charles Bronson e Robert De Niro si sono trovati in un primo momento disorientati di fronte al mio modo di girare con la musica. Poi, pero’, il giorno che li ho voluti accontentare e ne ho fatto a meno, sono stati proprio loro a volerla di nuovo. La musica li aiutava a entrare nei personaggi e nell’atmosfera del film. Ogni tema musicale, infatti, rappresenta un personaggio e Morricone, dopo che io gli ho raccontato analiticamente la storia del film, riesce a coglierne perfettamente lo spirito e le caratteristiche. All’epoca di C’era una volta il West ci furono problemi con Cheyenne, perche’ Ennio non aveva capito fino in fondo il mio modo di vedere, il personaggio. Cosi’, il tema che mi fece ascoltare non mi piacque. Di fronte al suo disappunto, gli spiegai nuovamente che il personaggio doveva rappresentare l’America in tutte le sue contraddizioni, ma questo Ennio lo sapeva gia’. Allora, sapendo come lui abbia bisogno di visualizzare il personaggio tramite qualcosa di gia’ visto e conosciuto, gli chiesi se avesse presente il film di Walt Disney Lilly e il vagabondo. Lo aveva visto. «Bene» gli dissi, «Cheyenne e’ il vagabondo». Lui immediatamente si sedette al pianoforte e, di getto, suono’ le note di quello che sarebbe diventato il tema di Cheyenne. A proposito della musica durante le riprese, ho saputo che anche Kubrick, dopo aver parlato con me, se ne e’ servito per il Barry Lyndon. Evidentemente, e’ un sistema che da’ i suoi frutti.
E’ difficile considerare Giù la testa un western.
Infatti non lo e’. E’ una nuova frontiera, nuovi orizzonti da scoprire. Pensi a un particolare, i duelli dei miei western hanno come luogo deputato lo spazio circolare, quello del’arena o, se vogliamo, del circo. Questo c’e’ anche in Giu’ la testa, ma e’ all’inizio, e serve da sfondo a una violenza privata, quella di Steiger nei confronti di Maria Monti. Cioe’, li’ finiscono le storie del West e comincia Giu’ la testa, che e’ quindi l’inizio di qualcosa di nuovo.
Oltre a provocare la fioritura del western all’italiana, i suoi film hanno anche dato il via al filone comico del western, quello rappresentato da Terence Hill e Bud Spencer. Si dice che questo filone sia nato quasi per caso, e che Lo chiamavano Trinità… nelle intenzioni degli autori doveva essere un normale western serio. A vederlo, sembra impossibile.
Sembra impossibile, ma e’ la verita’. Lei sa che questi western comici sono caratterizzati dall’assenza di morti ammazzati. Bene, nella prima avventura di Trinita’ ci sono sei morti. Quando ho lavorato con Terence Hill in Il mio nome e’ Nessuno, e’ stato lui a raccontarmi tutta la storia. Dopo la prima proiezione, Enzo Barboni, il regista, era disorientato: tutto il pubblico si sbellicava dalle risate, e lui non capiva. Non capiva perche’ era convinto di aver realizzato un western come un altro, e in quel momento penso’ che l’esito commerciale sarebbe stato disastroso. Poi, dopo il successo, e’ venuta la consapevolezza, sono venuti gli schiaffoni, il rugby e tutti gli accessori che hanno fatto la fortuna della serie. Ma il primo film no, non era proprio un western comico nelle intenzioni degli autori. Brillante, esagerato, forse leggermente ironico, ma comico certamente no.
Tra le sue produzioni, la più significativa è indubbiamente Il mio nome è nessuno. Perchè non l’ha diretto personalmente, affidando la regia a Tonino Valerii?
Perche’ avevo chiuso il mio discorso sul western con C’era una volta il West. Lo stesso Giu’ la testa, infatti, e’ stato scambiato per un western, ma e’ piu’ correttamente un film avventuroso ambientato all’epoca della rivoluzione messicana. D’altronde, mi piaceva moltissimo l’idea di Il mio nome e’ Nessuno, e cosi’ pensai di affidare la realizzazione a Valerii, che era stato il mio assistente in Per qualche dollaro in piu’ e poi, su mio consiglio, era subito passato alla regia. Insomma, era nato con me. La scelta, invece, non si rivelo’ azzeccata, perche’ lui stentava molto a entrare in sintonia con cio’ che io volevo fosse quel film. Cosi’ il risultato e’ un po’ incerto, e sicuramente manca di equilibrio.
Il mio nome è Nessuno contiene alcune scene in tutto e per tutto «leoniane». Le ha girate lei?
Lo ammetto, e’ opera mia. Tutto l’inizio, tanto simile a quello di Il buono, il brutto, il cattivo; il duello con i cappelli nel cimitero indiano, un ricordo di Per qualche dollaro in piu’; lo scontro di Beauregard con il mucchio selvaggio e il finto duello finale, sono tutte scene che ho girato personalmente. E senza falsa modestia, sono quelle che il pubblico ricorda di piu’. Per il resto, trovo che l’aspetto burlesco del film, quello piu’ direttamente imparentato alla serie di Trinita’, sia troppo sottolineato.
Proprio a questo proposito, con questo film ha voluto dire anche una parola conclusiva sui film di Trinità…
Si’, era un film molto polemico in questo senso. I registi del western comico dovevano capire che potevano fare i film che facevano perche’ prima c’era stato Fonda, c’era stato Ford, c’ero stato anch’io. Io mi sono sentito responsabile di Trinita’ nei confronti del pubblico. Dopo Il buono, il brutto, il cattivo il pubblico si era abituato male, diciamo che si era abituato a un certo livello di qualita’. E invece, negli anni successivi, fu costretto a subire una serie impressionante di western ignobili fino a raggiungere una totale saturazione. Nel momento in cui un titolo come Se incontri Sartana digli che e’ un uomo morto viene storpiato dal pubblico stesso e diventa Se incontri Sartana digli che e’ uno stronzo, significa che l’autore e’ stato smascherato e che il genere ha perso di credibilita’. Ecco il successo di Trinita’: il pubblico si e’ sentito vendicato.
Che cos’è C’era una volta in America?
E’ un omaggio alle cose che ho sempre amato, e in particolare alla letteratura americana di Chandler, Hammett, Dos Passos, Hemingway, Fitzgerald. Personaggi che, quando li ho conosciuti, erano proibiti in Italia. Li ho letti in clandestinita’ ai tempi del fascismo, e come tutte le cose proibite hano assunto un significato anche superiore alla loro importanza effettiva. In secondo luogo e’ la ricostruzione piu’ compiuta di quell’America che ho inseguito e sognato per anni, l’America delle contraddizioni e del mito. Infine, e’ una riflessione sullo spettacolo: sull’arte visiva. Non a caso, il film inizia e finisce in un teatro di ombre cinesi: il pubblico delle ombre cinesi sta alle ombre cinesi come il pubblico del film sta al film. C’e’ una simbiosi tra loro e noi. E’ un doppio schermo, anzi un pubblico che guarda un altro schermo.
La sceneggiatura di C’era una volta in America ha richiesto cinque anni di lavoro. Eppure anche così manca qualche raccordo, c’è qualche passaggio un po’ oscuro.
Il film durava quattro ore e mezza, e per forza di cose ho dovuto eliminare qualcosa nel montaggio definitivo. Non me ne pento affatto, e anzi credo che questo giovi al fascino del film. Quel mistero, quel senso di vago e indefinito, quei piccoli salti narrativi fanno parte della storia, anzi ne sono un elemento quasi essenziale. E i ricordi, sono forse sempre precisi, impeccabili, immutabili? Raccontare dieci volte la stessa sotira, in fondo, significa raccontare dieci storie diverse.
L’ironia che accompagna tutti i suoi film, in C’era una volta in America si fa da parte.
Non poteva che essere cosi’. I gangster non sono piu’ pistoleri della prima frontiera, sono cresciuti, e quel po’ d’ironia che c’e’ nel film e’ proprio quella che appartiene a quel tipo di personaggi. Ecco perche’ l’ironia di C’era una volta in America fa riferimento soprattutto al sesso: i tempi sono fatalmente cambiati.
C’era una volta in America è chiaramente il suo film che lei ama di piu’.
Ho sempre detto che i miei film passano ai mei occhi attraverso il filtro del tempo. Percio’, amo sempre di piu’ l’ultimo. Dire che amo meno Per un pugno di dollari e’ giusto, ma non perche’ il mio amore si sia raffreddato col tempo: semplicemente perche’ mi e’ lontano. Quindi, il mio amore per i film decresce in scala temporale. Con una eccezione, che e’ Giu’ la testa: e’ un film che non so collocare bene. Lo amo immensamente, perche’ e’ quello che mi ha dato piu’ angoscia, dubbi, disperazione. A un certo punto, ero quasi tentato di abbandonarlo, e devo a mia moglie se ho avuto la costanza di arrivare in fondo. Certo, C’era una volta in America non posso non amarlo: e’ proprio la summa di tutta la mia carriera, sia per quanto riguarda i contenuti che, soprattutto, lo stile.
Il sorriso di Robert De Niro che conclude il film è stato definito il sorriso piu’ bello della storia del cinema. Vuole parlarcene?
Come si fa a spiegare il sorriso della Gioconda? Ho voluto che il film finisse in un modo del tutto aperto, e che ogni spettatore potesse interpretarlo secondo la sua sensibilita’. C’era una volta in America puo’ essere un flashback, e quindi una storia che Noodles ormai vecchio ricorda al momento in cui torna sui luoghi della sua giovinezza. Ma puo’ anche darsi che Noodles non sia mai uscito dalla fumeria d’oppio (una droga che annulla la memoria e proietta nel futuro), e che il film sia percio’ il sogno di un drogato. Quel sorriso e’ il sigillo a questa ambiguita’.
Che cos’è l’America per lei?
E’ il paese delle contraddizioni. Ho sempre sostenuto che chi vuole conoscere l’America ma non ha il tempo di studiarla approfonditamente, dovrebbe passare una settimana a Disneyland. Capirebbe cos’ i gusti, l’ingenuita’, le mille contraddizioni del popolo americano, capace di decretare contemporaneamente il successo di Mary Poppins e Gola profonda. Sono queste sfumature che mi hanno fatto scoprire l’America come luogo deputato delle mie avventure cinematografiche. Senza contare l’immagine mitica che di quel paese ci restituiva il cinema hollywoodiano degli anni Trenta/Quaranta, un periodo che ci ha fatto sognare tutti quella della mia e di altre generazioni.
C’è un tema ricorrente nel suo cinema: l’amicizia che finisce, o per colpa del Destino o per qualche tradimento. Evidentemente, è una cosa che le sta molto a cuore.
E’ parte della mia vita. Anche se non con le modalita’ dei film, io ho vissuto molte amicizie che poi, nonostante i buoni propositi, sono finite. Inoltre, io sono figlio unico, e ho sempre sentito la mancanza di un fratello da amare. Insomma, e’ un tema che mi appartiene per intero.
Un espediente che lei usa frequentemente è il flashback.
Il tempo e’ sempre il grande protagonista dei miei film. E’ lui che cambia le cose. Quanti buoni propositi fatti in gioventu’ sono finiti nel nulla, quante speranze sono naufragate. Solo i testardi, quelli come Noodles, possono credere che il passare del tempo non cambi niente, anche di fronte all’evidenza. E poi, volevo fare qualcosa di nuovo: e il flashback, nel western, era una novita’.
Ci sono nei suoi film alcune costanti tecniche, e la più ricorrente ci sembra il movimento del dolly verso l’alto.
E verso il basso. Anzi, direi soprattutto verso il basso. Pensi al piano-sequenza di C’era una volta in America al momento in cui Noodles anziano torna nel Lower East Side e telefona a Moe. Come si puo’ descrivere la scena di un personaggio che, dopo essere per trent’anni, torna da uno dei suoi amici piu’ cari (che lo crede morto) e in una telefonata riesce a sintetizzare tutto il passato? L’unica proposta valida e’ quella di non far sentire quello che si dicono: il mistero del Verbo. Allora, se tutto questo non e’ osservato da un punto di vista astratto, impersonale (la macchina da presa non entra mai nel locale di Moe, e neppure nella cabina telefonica dove sta Noodles, ma osserva dal di fuori), non puo’ essere credibile. E allora ecco quando Moe, dopo aver invitato gli avventori a lasciare il locale, torna al elefono, la macchina da presa scende come una ghigliottina a inquadrare il passato. Qui la tecnica diventa tematica, e piu’ ancora poesia.