Un rapporto di Human rights watch sull’esercito americano
Molti cittadini britannici imprigionati a Guantanamo, appena liberati senza che alcuna accusa nei loro confronti fosse rimasta in piedi, hanno fatto dichiarazioni a proposito delle torture subite nei lunghi mesi di detenzione. La base americana resta un luogo di non-diritto dove, nell’indifferenza generale, sette francesi restano reclusi, mentre Parigi continua a mantenere un basso-profilo in una materia che è una flagrante violazione dei diritti umani. D’altronde, un rapporto dell’organizzazione Usa Human Rights Watch ha denunciato con forza il comportamento delle truppe americane in Afghanistan: violazione del diritto di guerra, uso sproporzionato della forza, saccheggi, morti sospette di civili, torture a prigionieri, ecc. Oltre a criticare tali metodi, il testo spinge a porsi domande sul comportamento delle truppe francesi che prendono parte ai combattimenti al fianco degli alleati americani. Sono responsabili di simili atti di violenza? Le autorità francesi starebbero coprendo con il loro silenzio crimini di guerra americani? È significativo che il rapporto, di cui pubblichiamo ampi stralci, in Francia non sia stato ripreso dai maggiori media e neppure ricordato in poche righe (si veda il sito http://hrw.org/reports/2004/afghanistan0304/)
Uso eccessivo della forza nel corso degli arresti Le forze americane impiegano regolarmente metodi militari per effettuare gli arresti in Afghanistan, trascurando talvolta il rispetto del diritto internazionale umanitario e la Carta dei diritti dell’uomo.
Le regole di ingaggio americane, concepite per situazioni di combattimento, sono spesso applicate al posto delle procedure di arresto civili.
Inoltre le carenze dei servizi di informazione hanno provocato la cattura di civili che non erano implicati nelle ostilità, delle perdite civili nel corso delle operazioni di arresto e la distruzione ingiustificata di case. Testimonianze credibili affermano inoltre che le forze americane hanno picchiato e sottoposto a sevizie alcuni prigionieri, che le truppe afghane che accompagnano le forze americane hanno maltrattato civili e saccheggiato le case delle persone arrestate.
Secondo un responsabile dell’Onu incaricato di raccogliere delle testimonianze sulle operazioni del 2002, si rimprovera alle truppe americane di «comportarsi con una brutalità da cow-boys» nei confronti dei civili che «in genere si rivelano essere dei cittadini rispettosi della legge». Alcuni testimoni affermano in particolare che i soldati «invece di bussare distruggono le porte con granate» e trattano le donne e i bambini con brutalità.
Human Rights Watch è particolarmente preoccupata dal fuoco di copertura (suppressing fire) utilizzati nel corso delle operazioni di arresto: la tecnica di fuoco consiste nello sparare in modo intenso e continuo per immobilizzare le forze nemiche. Human Rights Watch ritiene che il ricorso a questa tecnica di fuoco (senza che il nemico abbia sparato) non sia opportuno per gli arresti effettuati nelle zone residenziali, dove nessun combattimento è in corso nel momento delle operazioni.
Il caso di Ahmed Khan e dei suoi figli Una sera del luglio 2002 le forze americane assaltano la casa di Ahmed Khan, nel distretto di Zurmat, che fa parte della provincia di Paktia. Il distretto di Zurmat, anche se non del tutto sicuro, è strettamente controllato dalle forze afghane alleate degli Stati uniti. Nel corso dell’assalto, Ahmed Khan e i suoi due figli, di 17 e 18 anni, sono arrestati. Un contadino è stato ucciso e una donna di una casa vicina è rimasta ferita. Human Rights Watch ha interrogato alcuni testimoni dell’assalto, che Ahmed Khan racconta in questo modo: Era l’epoca del raccolto. I contadini dormivano vicino a mucchi di fieno… Dovevano essere le 9 di sera. Eravamo a letto ma non dormivamo ancora… Improvvisamente c’è stato molto rumore. Gli elicotteri sorvolavano sopra di noi. Ci sono state forti esplosioni. La casa ha tremato. Le torri [gli angoli della casa] sono state colpite…
L’assalto è cominciato. Alcuni elicotteri si sono avvicinati, li sentivamo volteggiare e sparare con la mitragliatrice. C’era un rumore terribile. Si sentivano delle esplosioni. Hanno distrutto una torre con un missile e uno dei muri della casa.
Secondo Ahmed Khan l’intera famiglia si è sdraiata sul pavimento della camera da letto, al secondo piano. I proiettili rompono i vetri e le porte. Alcuni vicini affermano di aver visto gli elicotteri sparare sulla casa e attorno a essa. Ahmed Khan racconta come i soldati americani sono entrati in casa sua, sparando: Dalle finestre in frantumi avevo visto molti soldati nel cortile.
Hanno sparato sulla porta [di ingresso], l’hanno aperta e sono saliti al piano superiore. Sono anche entrati dalle finestre… Sono entrati dalle finestre che avevano distrutto con i proiettili e le bombe.
Sono arrivati nella nostra camera. Hanno sfondato la porta e sono entrati spianando le armi e puntando le torce su di noi. Ci hanno fatto segno di alzare le mani. Non c’erano afghani con loro, né interpreti pashtun. Più tardi, abbiamo visto un interprete in cortile… Hanno legato le mani degli uomini e hanno detto alle donne di scendere nel cortile. Poi hanno portato anche noi nel cortile.
Dopo l’assalto i soldati, americani e afghani, perquisiscono la casa, facendo uso delle loro armi per aprire le porte.
[I soldati americani] hanno portato le donne in un altro edificio [dall’altra parte del cortile]. Poi hanno perquisito la casa. Hanno rotto tutti i vetri e sfondato le porte degli armadi. Hanno sparato nelle scatole e le hanno rovesciate. [Più tardi] ci hanno messo dei cappucci in testa e ci hanno fatto uscire. Siamo saliti su un elicottero.
Sentivo il motore. Abbiamo volato a lungo… Non saprei dire per quanto tempo. Più tardi, ci hanno detto che eravamo a Bagram.
Dopo l’assalto si ritroverà il cadavere di Niaz Mohammad, un contadino del villaggio. Un vicino ha dichiarato a Human Rights Watch: [Più tardi] abbiamo trovato il corpo dell’uomo che era stato ucciso.
Era Niaz Mohammad. Era stato colpito da un proiettile al piede e da uno nella schiena. Il proiettile è entrato dalla schiena ed è uscito passando per il cuore. Lo abbiamo trovato vicino al mulino.
Ahmed Khan e i suoi vicini hanno dichiarato a Human Rights Watch che Niaz Mohammad dormiva fuori, vicino ai mucchi di fieno, per impedire che qualcuno potesse rubare il raccolto. (…) Arresti arbitrari o ingiustificati e detenzione a tempo indeterminato Le forze americane catturano regolarmente combattenti e civili che hanno preso le armi contro le truppe americane, afghane o della coalizione.
Tuttavia le forze americane arrestano anche civili che hanno preso parte alle ostilità, e a volte questi arresti sembrano arbitrari o basati su informazioni parziali o errate.
Le forze americane arrestano talvolta tutti gli uomini in età per combattere che si trovano nei paraggi delle operazioni in corso.
In altre occasioni le persone sono arrestate perché i responsabili americani ritengono che rappresentino un rischio per la sicurezza o possano aiutare i servizi di informazione – quando si tratta ad esempio di religiosi o di leader locali che possono avere dei contatti con i talebani o, semplicemente, che si trovano nelle vicinanze di un combattimento. Human Rights Watch ha interrogato molti civili che sono stati arrestati perché si trovavano nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.
Per molte di queste persone l’arresto segna l’inizio di un calvario nel corso del quale possono essere picchiati o maltrattati, interrogati in modo ripetitivo e apparentemente casuale, e imprigionati per settimane o mesi senza rivedere le loro famiglie. E quando sono rilasciati spesso si rendono conto che la loro casa è stata saccheggiata dai soldati afghani.
Così nel mese di maggio 2002, le forze americane hanno preso d’assalto due case del villaggio di Kirmati, vicino alla città di Gardez, e arrestato cinque uomini. Questi saranno tutti rilasciati e ricondotti a Gardez. Nel corso dell’assalto alcuni testimoni hanno visto degli aerei e degli elicotteri americani sorvolare il villaggio e ricorrere al «suppressing fire». Questo assalto si è svolto in un quartiere residenziale e non è stato provato che gli americani abbiano incontrato della resistenza. Kirmati era all’epoca, ed è ancora oggi, sotto il controllo delle forze afghane alleate con gli Stati uniti.
I cinque uomini arrestati sono Mohammed Naim e suo fratello Sherbat, Ahmaddullah e suo fratello Amanullah, e Khoja Mohammad. Mohammad Naim racconta il raid: Era notte fonda. Dopo mezzanotte. Improvvisamente c’è stato molto rumore, un rumore enorme, assordante… Sono uscito nel cortile.
Di colpo un uomo mi ha minacciato con la sua arma. Mi sono arreso.
La testimonianza del fratello di Mohammad Naim è simile. Ahmaddullah e Amanullah sono arrestati in una casa vicina. Un altro abitante del villaggio, Khoja Mohammad, è arrestato quando esce da casa sua per vedere quello che succede. (…) I cinque uomini sono portati a Bagram. Mohammad Naim continua il suo racconto: Ci hanno scaraventato in una stanza e ci hanno tenuto con il viso a terra. Siamo rimasti così a lungo. Poi mi hanno rialzato e mi hanno portato altrove. Mi hanno tolto la fascia sugli occhi e ho visto che ero solo. C’erano altre persone nella stanza, ma ero il solo prigioniero. Mi hanno messo a terra, un uomo aveva un piede sulla mia schiena. Un interprete mi ha chiesto il mio nome e glielo ho detto. Mi hanno detto di togliermi i vestiti e mi sono ritrovato nudo. Ci hanno fotografati, nudi. Poi ci hanno dato altri vestiti, di colore blu.
Un uomo è arrivato, con un sacco di plastica. Mi ha passato la mano nei capelli. Poi ha tagliato un ciuffo e dei peli della barba…
L’esperienza peggiore è stata quando ci hanno fotografato nudi. Completamente nudi. È stato terribilmente umiliante.
Secondo Mohammad e Sherbat Naim, l’interrogatorio che si è svolto nel corso dei giorni successivi è stato molto vago e dimostra che gli investigatori americani non avevano alcuna idea di chi fossero i due fratelli: Dopo sedici giorni di detenzione e sei interrogatori, gli americani hanno rilasciato i cinque uomini. Sherbat dichiara: Quando ci hanno rilasciato, un americano ci ha detto: «Vi chiediamo scusa, in nome dell’America e in nome del presidente Bush. Siamo spiacenti». Ci hanno detto che ci avrebbero dato un risarcimento per quello che era successo. Ci hanno detto che avremmo ricevuto un aiuto. Ma non abbiamo avuto nulla.
Ci hanno rimesso il cappuccio e siamo risaliti sull’elicottero per rientrare a Gardez. Siamo atterrati e siamo saliti su un camion.
Abbiamo chiesto all’autista di fermarsi prima del villaggio, per tornare a piedi. L’interprete ci ha dato 30.000 afghanis [vecchi, circa 70 centesimi americani] per poter comprare almeno del tè. (…) I centri di detenzione della Cia Gli agenti della Cia hanno cominciato a operare in Afghanistan subito dopo l’11 settembre 2001, per condurre delle operazioni militari e di informazione. La Cia dispone di un grande centro operativo a Kabul. Situato nel quartiere di Ariana Chowk, questo edificio strettamente sorvegliato è protetto da un muro di cinta alto tredici metri, da filo spinato e da torrette. La Cia possiede inoltre un centro di detenzione e di interrogatorio presso la base aerea di Bagram, sebbene ciò non sia mai stato ufficialmente riconosciuto dagli Stati uniti.
È impossibile sapere chi vi è detenuto, per quanto tempo e in che condizioni. Non si sa neppure quali siano i criteri che motivano i trasferimenti di prigionieri detenuti verso altri campi americani.
Human Rights Watch ha interrogato un ex capo talebano che è stato detenuto per otto mesi in un centro non identificato nei dintorni di Kabul. I suoi carcerieri erano soldati afghani ma era interrogato da americani in civile. In Afghanistan il personale militare americano ha l’obbligo di portare l’uniforme, è possibile quindi che questi uomini fossero della Cia. Questo ex capo talebano ha affermato che c’erano altri prigionieri con lui. Ha sentito le loro voci e le guardie parlavano ad altri detenuti. Ha dichiarato di aver cooperato con gli americani e di non essere stato maltrattato. Pensa di essere stato in una prigione situata nel quartiere di Shashdarak a Kabul, o nel centro appartenente alla Cia che si trova ad Ariana Chowk.
È inoltre provato che gli Stati uniti detengono in Afghanistan delle persone catturate fuori dal paese. (…) Le condizioni legali di detenzione dei civili e dei combattenti in Afghanistan Le leggi internazionali umanitarie tutelano i diritti di qualunque persona arrestata e imprigionata nel corso di conflitti armati. Dopo la formazione del governo Karzai, i combattimenti che si svolgono in Afghanistan sono considerati un conflitto «non internazionale», un conflitto interno. Le persone arrestate nel corso di un conflitto interno devono essere trattate secondo l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra, secondo i termini del diritto internazionale umanitario consuetudinario e secondo la Carta internazionale dei diritti dell’uomo.
In un conflitto interno le persone catturate nel corso dei combattimenti possono essere giudicate per aver preso le armi contro il governo.
Si tratta quindi di una situazione diversa da quella del conflitto internazionale, dove i soldati si vedono riconosciuto il «privilegio del combattente», che impedisce di giudicarli per il semplice motivo di aver preso parte al combattimento. Ciò significa che il governo afghano può processare in base alla legge afghana chiunque abbia partecipato all’attuale conflitto. Tuttavia queste azioni giudiziarie devono essere fatte da tribunali che rispettino le norme legali internazionali.
Le persone catturate che non hanno partecipato alle ostilità devono essere accusate di un reato o rilasciate. Queste persone beneficiano della protezione della Carta dei diritti dell’uomo e in particolare del diritto di conoscere il proprio capo d’accusa, del diritto a un avvocato e a un processo equo condotto da un tribunale indipendente.
Quando lo stato di emergenza è dichiarato alcune di queste procedure legali possono essere sospese, ma «nello stretto limite delle esigenze imposte dall’emergenza della situazione». A questo proposito il diritto a un processo equo condotto da un tribunale indipendente non può mai essere violato.
Anche se gli Stati uniti continuano ad affermare che in Afghanistan c’è un conflitto di tipo internazionale, il loro comportamento nei confronti dei prigionieri si rivela contrario alle leggi internazionali.
Nel corso dei conflitti armati internazionali infatti, i civili possono essere imprigionati per «imperative ragioni di sicurezza», ma non possono essere detenuti per un periodo di tempo indefinito. La quarta Convenzione di Ginevra autorizza la loro detenzione «solo se la sicurezza della potenza occupante è immediatamente minacciata». E in questo caso il prigioniero ha il diritto di vedere la sua condizione rivista «il più rapidamente possibile» da un tribunale o da un’istanza amministrativa istituita dalla potenza occupante. La maggior parte delle regole che disciplinano i conflitti interni si applicano anche ai conflitti internazionali. Non rispettandole, gli Stati uniti violano il diritto internazionale. (…) Maltrattamenti durante la detenzione Base aerea di Bagram Human Rights Watch ha ricevuto testimonianze attendibili su maltrattamenti inflitti ai prigionieri del centro di detenzione di Bagram. Sembra inoltre che alla fine del 2001, nei primi mesi successivi alla creazione di questo centro, i prigionieri siano stati particolarmente maltrattati.
Due prigionieri detenuti a Bagram nel marzo 2002 (che in seguito sono stati inviati a Guantanamo, poi rilasciati e rimpatriati) raccontano di essere stati tenuti in cella per diverse settimane in gruppo e con indosso solo i loro indumenti intimi. Secondo i due uomini, dei fari erano puntati verso la loro cella e i soldati americani si davano il cambio per mantenerli svegli colpendoli con barre o bastoni. Dichiarano di aver vissuto in uno stato di paura e di disorientamento prodotto dalla privazione del sonno, che sarebbe durata diverse settimane.
Durante gli interrogatori erano obbligati a rimanere in piedi per diverse ore con una lampada puntata sugli occhi. Si diceva loro che sarebbero stati interrogati solo se rimanevano immobili per un’ora.
Se si muovevano, anche solo la testa, veniva detto loro che «il cronometro era azzerato». Attraverso degli interpreti, gli americani dietro i riflettori gridavano loro le domande.
Altri due prigionieri detenuti a Bagram alla fine del 2002 hanno dichiarato a un giornalista del New York Times di essere stati obbligati a rimanere in piedi, nudi e incatenati per diverse settimane di seguito.
Sarebbero stati inoltre privati del sonno e picchiati.
Un giornalista dell’Associated Press ha intervistato due prigionieri detenuti a Bagram dalla fine del 2002 all’inizio del 2003: Saif-ur Rahman e Abdul Qayyum. Qayyum era stato arrestato nell’agosto 2002, Rahman nel dicembre 2002. Entrambi sono stati detenuti per più di due mesi. Interrogati separatamente, hanno affermato di aver subito privazioni del sonno, di essere stati obbligati a rimanere in piedi per lunghi periodi e di essere stati insultati da soldatesse. Rahman racconta di aver passato la prima notte di detenzione nudo, in una cella ghiacciata dove lo hanno bagnato con acqua fredda. Secondo lui era detenuto nella base militare di Jalalabad. In seguito a Bagram alcuni soldati americani lo hanno costretto a rimanere disteso per terra, nudo, immobilizzato da una sedia. Dichiara di essere stato costantemente incatenato, anche durante il sonno e di non aver avuto il dritto di parlare agli altri prigionieri. Qayyum e Rahman hanno avuto dei legami con uno dei capi della provincia di Kunar, Rohullah Wakil, eletto nel 2002 alla loya jirga di Kabul. Quest’uomo è stato arrestato nell’agosto 2002 ed è ancora in prigione.
Secondo le testimonianze di detenuti rilasciati, gli americani puniscono i prigionieri di Bagram non appena infrangono il regolamento, per esempio quando parlano a un altro prigioniero o gridano alle guardie.
La persona è obbligata a tenere le braccia incatenate sopra la testa: le catene sono bloccate sopra una porta per impedirgli di abbassare le braccia. La persona è obbligata a rimanere in questa posizione per diversi periodi di due ore. Secondo un detenuto che ha subito una tale punizione, questo trattamento provoca forti dolori alle braccia. (…) Diversi responsabili americani, che hanno scelto di mantenere l’anonimato, hanno dichiarato ai media che gli investigatori dell’esercito e della Cia hanno fatto ricorso alla privazione del sonno e che i prigionieri sono talvolta obbligati a rimanere in piedi o in ginocchio per delle ore, con la testa in un cappuccio o con degli occhiali dipinti di nero, in posizioni dolorose.
Nel marzo 2003 un responsabile americano ha raccontato al New York Times che Omar Faruq, imprigionato a Bagram e sospettato di essere un collaboratore di Osama bin Laden, ha subito delle tecniche di interrogatorio che «anche se non erano delle vere e proprie torture, vi si avvicinavano molto». Faruq è stato privato del cibo, del sonno e della luce, mantenuto in completo isolamento e rinchiuso in una cella dove la temperatura variava tra -12 e 38 gradi. Lo stesso mese, altri responsabili americani hanno raccontato al New York Times gli interrogatori subiti da Abu Zubaydah, sospettato di essere un capo di al Qaeda e probabilmente detenuto a Bagram dal marzo 2003. Nel corso della sua cattura in Pakistan, Abu Zubaydah è rimasto ferito alla schiena, all’inguine e alla coscia. Per farlo parlare le persone che lo hanno interrogato hanno fatto variare le dosi di antidolorifico.
Militari incaricati di condurre l’interrogatorio hanno dichiarato al Wall Street Journal: L’investigatore può fare leva sulle paure dei prigionieri, come la fobia dei topi o dei cani. Si può far passare per qualcuno che viene da un paese dove la tortura è autorizzata o minacciare la persona di inviarla in quel paese. Il prigioniero può essere spogliato, rasato e privato di ogni oggetto di culto o di pulizia personale. (…) I morti in detenzione sotto responsabilità americana Nel dicembre 2002 due afghani detenuti nella base di Bagram sono morti. I medici militari che hanno effettuato l’autopsia sono arrivati alla conclusione che si è trattato di omicidio.
Uno dei prigionieri, Dilawar, di 22 anni, proveniente dalla città di Khost nel sud-est dell’Afghanistan, è morto il 10 dicembre in seguito a «colpi di corpi contundenti alle estremità inferiori che hanno provocato complicazioni a una situazione già compromessa dell’arteria coronarica». Il certificato di morte ottenuto dal New York Times è stato fatto da un medico militare. L’altro prigioniero, Mullah Habibullah, di circa 30 anni e originario della provincia di Oruzgan, è morto il 3 dicembre 2002. Davanti ai giornalisti una portavoce militare della base di Bagram ha confermato che il medico legale militare era arrivato alla conclusione che si trattava di omicidio provocato da «un’embolia polmonare [grumi di sangue nei polmoni] provocata da colpi con corpi contundenti alle gambe». Contattati da Human Rights Watch nel novembre e dicembre 2003 i due medici hanno rifiutato di testimoniare. (…) Le condizioni legali del trattamento dei prigionieri Il divieto di maltrattare e torturare i prigionieri è uno dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario e della Carta dei diritti dell’uomo. (…) L’uso prolungato di catene è una violazione del diritto internazionale e può essere considerato una forma di tortura. Il relatore speciale sulla tortura cita in molte occasioni e in diversi contesti l’uso prolungato di catene come esempio di tortura. Anche il segretario generale delle Nazioni unite ha definito le catene come uno strumento di tortura.
Anche la privazione del sonno e l’esposizione al freddo sono contrarie al diritto internazionale e possono essere considerate delle torture.
Il Dipartimento di stato americano, nel suo «Rapporto sul rispetto dei diritti dell’uomo paese per paese» cita in diverse occasioni la privazione del sonno e il freddo come esempi di tortura. (…)
[da LE MONDE diplomatique – Aprile 2004]