[da «Internazionale Situazionista» n. 1 Milano, 1969, pagg. 15-19.
In una società in cui i proletari sono criminali, le galere si riempiono di proletari. Ma ormai da tutti i luoghi della segregazione sale una minaccia mortale alla totalità delle condizioni esistenti: lo sanno bene i detenuti di San Vittore e di tutta Italia che hanno scatenato la loro rivolta disperata. Tutti gli acrobati del pensiero progressista che affermano che “le cause delle colpe degli individui sono da ricercarsi nella Società”, omettono sempre di dire di quale società si tratta e quali siano realmente queste colpe di cui si macchiano gli individui. Un giornale riporta: “polemicamente il professor Alberto Dall’Ora avvocato e giurista afferma: “Anche i detenuti sono uomini. Come noi, niente affatto diversi da noi”. Quest’infelice ignora evidentemente la differenza tra un bipede beneficiario dei Diritti dell’Uomo e un uomo che sa che la libertà di ognuno passa per la libertà di tutti. Non è facile diffondere il pensiero fra il proletariato in circostanze comunque controllate dal potere; ma nel frattempo si può, con pazienza, sterminare a una a una tutte le formiche umanitarie. Tutti gli specialisti del pensiero della separazione che credono di vedere nella rivolta delle carceri “la crisi del sistema carcerario in questa società” ignorano che si tratta invece delle crisi di questa società che si manifestano inizialmente nei settori più separati della sua organizzazione.
“Al magistrato Sinagra che si rivolgeva (… ) ai detenuti dicendo: “Io faccio parte di quell’ala della magistratura che si è battuta e si batte ancora per la riforma dei codici”, questi rispondevano: “Ormai San Vittore è in mano nostra, non abbiamo più paura della polizia. Voi siete nostri nemici. siete degli sbirri” (Corriere d’Informazione, 15 aprile). L’ala progressista della magistratura è stata ascoltata con il lancio di “pacchetti maleodoranti”. L’ala esterna della riforma della magistratura, l’ineffabile “opposizione extra-parlamentare”, il “movimento studentesco”, essendo dello stesso parere, merita la stessa risposta: impotente a giustificare “teoricamente” la sua posizione, e in realtà sconcertato che si tratti dopotutto, di “delinquenti comuni”, si astiene dall’intervenire; esso accoglie con gioia il “marxismo” derisorio dei suoi nuovi confessori filomaoisti che non riuscendo a spiegare la rivolta “perché non ne se ne può fare un’analisi di classe”, gli forniscono l’alibi preferito per mantenere un’ordine che non ha mai messo in questione. Queste pecore che si credono lupi, e che sono ritenuti tali, non trovano niente di meglio che proporre il sudicio baratto “O dentro Riva o fuori tutti”. La risposta delle carceri era chiara: “Dentro Riva e fuori tutti”. Non è un male che tutto l’infame cinismo borghese, privato della maschera di compassione pretesca, venga a galla e quindi, fattosi giustamente apprezzare, possa andare finalmente a fondo. Per i carcerati, quanto a loro, la rassegnazione non è più possibile. Essi hanno fatto ciò che gli studenti non hanno mai concepito, nemmeno quando hanno avuto la forza di occupare l’università. La rivolta dei detenuti è una rivolta contro la società, contro la proprietà del lavoro che è anche proprietà degli uomini. Essi, allo stesso modo delle bande di giovani che ogni settimana a Londra seminano la distruzione nelle stazioni della metropolitana, ma più radicalmente perché al livello più elementare della costrizione, devono esplodere in un furore in coi gustano, precariamente, la libertà. La sua mancanza è assoluta, anche se è una mancanza vile ammantata di “progresso”, ma è la coscienza di essa che oggi si fa sentire e brucia di più. “Negli avvenimenti è facile avvertire una nota particolare: l’agganciamento, cioè, ad una spinta diffusa, che quasi si respira nell’aria, verso il disordine, verso la protesta tumultuosa e immancabilmente ricattatoria” (Corriere della sera). In queste dichiarazioni inquiete è facile avvertire una nota particolare: ciò che provoca più di tutto il potere è il fatto che i colpevoli rifiutino l’indegnità essenziale come loro qualità sociale e come condizione separata. I detenuti, i prigionieri più degli altri, i condannati senza compensazioni non si sentono nè colpevoli nè rassegnati. Nella loro rivolta vi è l’affermazione confusa di una libertà totale. Si tratta, sia pure limitata a un carcere momentaneamente liberato dai secondini e assediato dalla polizia, di una situazione rivoluzionaria che cerca le sue forme: il movimento scatenato dal proletariato lancia il suo richiamo, non lascia fuori di sè e rade al suolo tutte le prigioni. Nel momento in cui i carcerati prendono il potere nel carcere, nel momento in cui possono gridarlo e distruggere le porte delle celle, non esistono più gerarchia nè prigione. Un carcere occupato non è più un carcere, un “luogo di pena”. “San Vittore si sta distruggendo” scrive la stampa. Nelle distruzioni con cui i carcerati hanno dichiarato la loro battaglia e la loro festa, le parole d’ordine meschine e riformiste vengono superate dai gesti radicali degni della Comune: l’incendio e la devastazione della chiesa nelle Carceri Nuove di Torino, l’assalto all’infermeria, alla biblioteca e alla cappella di San Vittore difesa dai sacristi a Milano, il rifiuto e il disprezzo di trattare con il prete (chiunque conosca il ruolo compiacente del cappellano in un carcere, il suo ascendente a buon mercato anche sui detenuti non religiosi, non può non valutare la portata di questo dettaglio), la distruzione delle porte di ferro, delle inferriate, dei mobili, degli impianti elettrici e igienici, il saccheggio delle mense, la cattura degli ostaggi, la ferocia negli attacchi alla polizia, il coraggio nella difesa. “Il carcere torinese (…) rivela opere di devastazione, di distruzione e di saccheggio assolutamente impensabili e incredibili”. Alle 6 di mattina il terzo raggio di San Vittore “bolliva ancora di rabbia”. Il 29 maggio, durante la rivolta nel carcere di Perugia, un tentativo di sortita dei rivoltosi viene bloccato all’ultimo cancello. Come la sollevazione di Battipaglia, la rivolta delle carceri ha avuto sfumature di festa: saccheggi e trofei a Battipaglia; saccheggi e banchetti (con colossali bevute) nelle carceri. “E’ stata una notte di canti e di autentiche pazzie”. A Battipaglia la gente “normale” compie atti criminosi contro il potere, e nelle carceri i “criminali” si comportano come uomini normali: la libertà è il crimine che contiene tutti i crimini. Ogni gesto di rivolta è una rivolta contro i rapporti sociali esistenti che la suscitano, ma essa deve trovare la via della totalità. E’ questa ricerca dei fatti che viene dichiarata dalla profondità critica della insurrezione delle carceri. Solo il rifiuto di tutta la società come totalità può avere unito i detenuti in attesa di processo (che vanno incontro a sicure condanne) ai condannati, in una lotta che suona irresponsabile per il baratto delle condizioni di sopravvivenza. L’unità del mondo è l’unità della miseria, l’unità del lavoro-merce e della vendita-consumo della vita. Coloro che hanno trasgredito – o preso alla lettera, è lo stesso – le leggi della merce non sono adatti a vivere nella società su cui essa regna. Essi sono i negri della società di classe, gli esclusi dal beneficio di essere sfruttati in vista di una ben più vantaggiosa integrazione. La società dove il lavoro è venduto come merce deve essere fondamentalmente gerarchica, e questa gerarchia classica dell’espropriazione non fa che riprodursi e creare dappertutto i razzismi e le segregazioni. Ma essa è anche la tara originaria della razionalità mercantile, la malattia che essa è costretta ad alimentare e che la mina inesorabilmente. La società della proprietà e della privazione della proprietà, della proprietà di cose attraverso la proprietà di esseri, trova la sua risposta naturale nel furto e nell’omicidio, poiché quella non era affatto proprietà naturale dell’ oggetto dei bisogni, ma la legge universale dell’espropriazione individuale, lo schiavismo e la rapina protetti dalla legge. I detenuti sono gli schiavi disubbidienti, i violatori non tollerati che hanno minacciato i rapporti di proprietà, la base di ogni civiltà! A San Vittore la rivolta è scoppiata nel quinto raggio, quello che contiene gli imputati di “delitti contro la proprietà”. Se essi non hanno potuto sopprimerla o se nel trasgredirla, spesso l’hanno accettata, nemmeno essa ora può sopprimerli. Ma separandoli da sè non li libera dalle sue leggi, leggi di espiazione e di sacrificio. La riammissione al suo cospetto, la riammissione allo sfruttamento deve avvenire attraverso una prestazione gratuita che la assicuri di essere d’ora in poi rispettata. Ma la distruzione che i carcerati di Torino e di Milano hanno compiuto dei laboratori la deve ora disilludere. I laboratori sono l’espressione della loro indegnità, il prezzo del riscatto – mai ottenuto – da una colpevolezza non accettata. Dopo essere stati respinti, non vogliono più essere reintegrati. Tutte le lagnose lamentele elevate al cielo – che è sempre solidale con le lamentele qualificate – non bastano a coprire la bellezza di questo avvenimento. La furia selvaggia si è abbattuta soprattutto sui ‘laboratori’ (…). in queste officine i detenuti potevano imparare un mestiere, c’erano maestri e insegnanti a disposizione ogni giorno: le lezioni avrebbero potuto servire per dopo, per quando sarebbero tornati liberi. Si parla spesso di difficile recupero sociale degli ex detenuti: il fatto che si siano accaniti anche e soprattutto contro le attrezzature di questi laboratori può dare un significato alla rivolta” ( Corriere d’Informazione, 15-16 aprile. I corsivi sono nostri). Ma questo non “dimostra che si è trattato di una cieca, selvaggia ribellione”. Dimostra che i prigionieri ufficiali della società ne portano tutte le contraddizioni, legati ad essa da tutti gli svantaggi particolari ma separati da essa da uno svantaggio generale, assoluto. La segregazione, la salvaguardia della proprietà, contiene in sè la gelosia invincibile quanto la rivalsa segretamente giurata, la propria sconfitta completa come la propria affermazione totale, l’asservimento come la sua negazione radicale. Rifiutando la qualità sociale e dunque puramente umana, la rivolta è oggi la chiara risposta a questa alternativa. La sua ebbrezza è la prova migliore di ciò che si respira dappertutto: lentamente ma con certezza si cominciano a prendere i propri desideri per della realtà. Allontanati dal lavoro ed esclusi dal consumo, i detenuti ripagano tutto ciò con il rifiuto del lavoro e con la sete spaventosa del consumo assoluto, il bisogno di riprendere tutto. “Donne-comunismo-libertà”. Questi uomini potrebbero saccheggiare per dieci anni e non recuperare la metà di quello che gli viene quotidianamente sottratto. Esclusi dalla sopravvivenza organizzata, chiedono la vita. Essi si battono insieme per la libertà totale, dovunque, o per la disfatta totale. “Siamo pronti a morire. Venite a prenderci!”. L’esasperazione dell’annientamento cosciente passa per la ricerca cosciente dell’autoannientamento. Ma la storia ha prodotto una banda Bonnot che non può più essere distrutta. Nella aperta sfida di morte e nel mettere realmente in gioco la vita, si esprime il disgusto incancellabile di questa sopravvivenza e del suo prezzo. E’ nella precarietà di questa rivolta senza riserve (la brava gente diceva: “non hanno ottenuto niente; hanno peggiorato la loro posizione”) che essi esprimono disperazione e speranza. Esprimono così una nuova coscienza proletaria nella coscienza di non essere isolati; ma sono anche l’avamposto degli uomini perduti che sanno di esserlo. La feccia della società è così l’avanguardia della rivoluzione, “la parte cattiva che produce il movimento della storia istituendo la lotta” (Miseria della filosofia). Il pensiero dialettico fa saltare tutti i pregiudizi preistorici ed evade da ogni specializzazione. Nella sua forma mistificata, la dialettica è diventata la mistica gioia dei corifei dottrinari di una generazione intellettuale impotente rimasta prigioniera del bene e del male. Ma nella sua forma storica, la dialettica è scandalo e orrore per il pensiero timorato perché nella comprensione delle condizioni esistenti esclude simultaneamente anche quella della loro negazione, perché non si arresta di fronte a nulla ed è critica e rivoluzionaria per essenza. Dialettica della separazione e della totalità e dialettica della negazione. Lasciamo che gli umanisti piangano sul loro laboratorio di fiori di plastica che è stato il primo ad essere devastato a Torino, che i criminologi piangano sui quaranta milioni del loro “centro di osservazione criminologico” che i detenuti di Milano hanno freddamente distrutto. Esso era “il primo passo verso un rammoderoamento generale. Serviva a classificare i detenuti in gruppi omogenei”. Lasciamo che i bravi cittadini inorridiscano al solo pensiero del “completo dramma (i detenuti per le vie di Milano)” ( Corriere della Sera, 15 aprile). Quando la disprezzata rivolta delle carceri sarà anche, sprezzante, nelle strade, i bastioni dell’alienazione cominceranno ad oscillare paurosamente sulla testa dei loro architetti. Un giornale ha scritto, a tutta pagina: “Il vento della rivolta soffia a Battipaglia”. Avanti! Sono sufficienti un colpo di vento e un colpo di mano perché il gioco diventi totale, perché tutto sia rimesso in gioco, perché la violenza distruttrice liberi la sua positività. Se la rivolta avesse bisogno di una estetica ma essa non si cura di trasformare il mondo, questa sarebbe la sua, estetica macabra e affermazione dei veri desideri. Yeah! “Dal piacere di creare al piacere di distruggere non c’è che un’oscillazione che distrugge il potere” (Traitè de savoir-vivre à l’usage des jeunes gènèrations). Come le rivolte nelle carceri, tutti questi avvenimenti sconcertano il fragile fronte delle menzogne e delle pose demagogiche della sinistra parlamentare e non, e le fanno perdere il bene dell’intelletto anche solo per il fatto che esse spezzano ghignando, con imperdonabili lazzi sciamannati, le analogie classiche con la vecchia rivoluzione. La rivoluzione moderna non è più la rivoluzione pulita, la rivoluzione sterilizzata, la rivoluzione burocratica ben condotta, la rivoluzione della strategia e dello stato maggiore. La rivoluzione moderna accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno. La “rivoluzione” studentesca è stata la rivoluzione bella e disinvolta, la rivoluzione simpatica della discussione generale perché gli antagonismi che erano scoppiati in essa e formavano il suo sostrato avevano raggiunto soltanto l’esistenza vaporosa delle sue parole. La rivoluzione proletaria è la rivoluzione brutta e scomposta, lo rivoluzione torbida, la festa selvaggia, perché al posto della frase è subentrata la mostruosità della cosa. Nessun falso sembiante di vita ha mai sprigionato tanta puzza di cadavere quanto l’attuale simulacro del “movimento studentesco” con la sua caricatura delle assemblee proletarie e rivoluzionarie, con le sue stereotipe declamazioni di rivoluzioni immaginarie e il suo rivoltante opportunismo reale, con il suo seguito di galletti avidi di razzolare nel pollaio travestiti da iene antidiluviane, con le sue riunioni spettrali e appartate di politicanti di carriera, con la tara di tutte le specie di militanti incurabili, piccoli filistei ingenui, schiamazzatori e spie, tollerando tutto e con in più la coscienza grottesca della sua fine inevitabile che esso lascia trapelare nella noia mortale che lo accompagna ovunque e non lo abbandona mai.