dovlatov.jpg[da Noialtri, Sellerio, € 7,75]

Ci siamo conosciuti nel sessantatré. Le cose andarono così. Avevo una stanza con l’entrata indipendente. Le finestre davano sui bidoni della spazzatura. Quasi ogni sera da me si riunivano gli amici. Una volta mi svegliai nel cuore della notte. Vidi i piatti sporchi sul tavolo e una poltrona rovesciata. Ripensai angosciato alla sera prima. Mi venne in mente che per tre volte erano andati a prendere la vodka. Qualcuno si era espresso così:
«Andiamo al negozio Eliseevskij! Trecento metri ad andare e più o meno lo stesso a tornare…».

Cominciai a pensare alla colazione nella stanza in disordine.
D’un tratto mi accorsi di non essere solo. Sul divano, tra il frigorifero e la radio, c’era qualcuno che dormiva. Si udivano fruscii e sospiri. Chiesi:
– E lei chi è?
– Facciamo che sono Lena – rispose a un tratto una tranquilla voce di donna.
Cominciai a riflettere. Il nome Lena non è poi così frequente. Tra le nostre conoscenti prevalevano le Tamare e le Larise. Chiesi:
– E qual è il suo status, Lena? In parole semplici, societas et acta?
Seguì una pausa. Poi la tranquilla voce di donna proferì:
– Mi ha dimenticato Gurevic…
Gurevic era un amico che trafficava in libri. Lo avrebbero arrestato due anni dopo.
– Come sarebbe, dimenticato?
– Gurevic si è ubriacato e ha chiamato un taxi…
– Mi tornò in mente qualcosa.
– Ieri, per caso, lei portava un vestito marrone?
– Più o meno sì. Verde. Lo ha strappato Gurevic. Ho dormito con la camicia di qualcuno.
– È la mia giubba da militare. Una reliquia per così dire. Quando se ne va, me la restituisca.
– Qui c’è una specie di mostrina…
– Quello – dissi – è uno stemma sportivo.
– Non mi ha fatto dormire… Punge in un modo…
– Al suo posto – dissi – avrei fatto lo stesso…

Finalmente mi ricordai di quella donna. Magra, pallida, con gli occhi a mandorla. Nel frattempo si era fatto chiaro.
– Si giri – chiese Lena.

Mi coprii la faccia con un giornale. Subito mutò lo sfondo sonoro. La signorina si avviò alla porta. A giudicare dal rumore, si era infilata le mie ciabatte di velluto. Mi tirai fuori dalla coperta. La giornata iniziava in modo strano e misterioso. Poi ci fu un po’ di trambusto nell’anticamera. Un asciugamano attorno ai miei fianchi non proprio sottili. La giubba militare che le arrivava sopra le ginocchia…

Ci incrociammo non senza fatica. Mi diressi verso la doccia. Di solito dopo la doccia la mia esistenza acquisisce una relativa chiarezza.
Uscii tre minuti dopo: sul tavolo c’erano il caffè, dei biscotti, della marmellata.
Chissà perché del pesce in gelatina…
Nel frattempo Lena si era vestita. L’antico strappo vicino al colletto – traccia dell’indomita sensualità di Fima Gurevic – le stava bene.

– E’ proprio vero – dissi – che è verde…
Facemmo colazione chiacchierando del più e del meno. Tutto era pacato e persino piacevole. Con il correttivo della nostra comune follia…
Lena raccolse le sue cose, si infilò le scarpe e disse:
– Vado.
– Grazie per la bella mattinata.
Improvvisamente si udì:
– Torno verso le sei.
– Bene – dissi…

Mi viene in mente questa storia. Una volta io e un mio amico stavamo tornando dalla sauna. Ci ferma un miliziano. Gli chiediamo un po’ preoccupati:
– Di che si tratta?
E quello dice: – Non vi ricordate quando sono usciti i versi di Rosario dell’Achmatova?
– Nel quattordici. Editore «Giperborej», San Pietroburgo.
– Grazie. Potete andare.
– Dove? – chiediamo.
– Dove volete – risponde. – Siete liberi…
Quella volta mi aveva colpito la commistione di ferialità e follia. E questa volta provavo più o meno la stessa sensazione.

«Torno alle sei» aveva detto…
E io avevo un appuntamento alle cinque e mezzo. E nemmeno con una donna, ma con Brodskij. E dopo, c’era la festa di laurea di qualcuno. Telefonai e rinviai l’appuntamento. Lasciai perdere la festa. Tornai a casa in taxi. «Dovrò far fare un’altra chiave», pensavo.
Aspettai. Arrivò verso le sei. Aprì una sporta: c’erano scatolette, uova, del nasello.
– Intanto – disse – lei faccia quello che deve. Preparo tutto io.
A quel punto mi venne in mente un’idea pazzesca. Non è che mi aveva scambiato per qualcun altro? Per qualcuno che conosceva e a cui voleva bene? Che la follia del mondo fosse arrivata a tanto?…
Cenammo. Io mi misi a lavorare. Lena lavò i piatti. Accese la televisione. La mia televisione erano due anni che non funzionava. Ma ecco che si era accesa di colpo, come fosse nuova di zecca…
Cominciai a notare alcuni cambiamenti. Sul lavandino comparvero dei vasetti d’importazione. Nel mio armadio c’era appeso qualcosa di scamosciato. Accanto al frigorifero si insediarono degli stivaletti beige. Persino l’odore di casa mia era cambiato…
Venne la sera. Lena disse: – Tè o caffè?
– Tè. Bevemmo il tè con biscotti speziati. Era una trentina d’anni che non mangiavo quei biscotti…
Diedi un’occhiata: era l’una di notte. Avremmo ben dovuto andare a dormire.
Lena disse: – Resti in cucina.
Restai in cucina a fumare. Lessi il giornale del martedì precedente. Entrai nella stanza: dormiva. Sempre sullo stesso divano. Solo che invece della giubba militare aveva qualcosa di rosa. Mi coricai, tesi le orecchie: neanche un suono. Si fosse almeno mossa nel sonno, così, per civetteria…

Aspettai una decina di minuti e mi addormentai anch’io. Al mattino, tutto da capo. Lieve imbarazzo, doccia e caffellatte…
– Questa volta – disse – farò tardi. Torno dopo le undici. quindi non si preoccupi…
Andai in redazione. Da lì, al bar del Sindacato dei giornalisti. Conobbi una svedese, mi proponeva di andare da lei in albergo. Continuava a ripetere:
– Cosacco, versami la vodka russa!…
Gli amici andavano a un concerto clandestino. A sentire un avanguardista. E per di più un avanguardista piuttosto insolito, se così ci si può esprimere. Suonava il violoncello sdraiato…
In breve c’erano varie attrattive interessanti. E invece corsi a casa. Mi precipitai nel mio manicomio privato.
La sera la aspettai e le dissi:
– Lena, dovremmo parlare. Mi sembra che sia necessaria una spiegazione. Sta accadendo qualcosa di poco comprensibile. Avrei alcune domande delicate. Posso essere franco?
– Prego – disse. Il suo viso era imperturbabile come una diga.
Le chiesi: – Cos’è? Non ha dove stare?
La fanciulla si offese un po’. O meglio, si stupì leggermente:
– E perché non dovrei? Ho un appartamento a Dacnoe, perché?
– Così, niente, in effetti… Mi era parso… Pensavo… Allora le faccio un’altra domanda. Strettamente amichevole… La prego proprio di scusarmi… Per caso le piaccio?
Seguì una pausa. Sentii che arrossivo.
Finalmente lei disse: – Io non ho alcuna pretesa nei suoi confronti.
Proprio così disse, nessuna pretesa nei miei confronti. Ci fu una pausa ancora più pesante. Per me. Perché lei rigurgitava tranquillità. Lo sguardo era freddo e acuto, come l’angolo di una valigia. A quel punto riflettei.
Che la sua tranquillità fosse al di sopra della selezione sessuale? Superiore alla predisposizione biologica nei confronti di un uomo? Superiore all’idea stessa di una dimora permanente?…
– E’ l’ultima domanda. Solo non si arrabbi. E se ho sbagliato, dimentichi tutto… In poche parole, è solo una supposizione… Lei per caso non è un funzionario del KGB?…