di Alessio Altichieri
Hampstead, il quartiere della sinistra chic, ha case di mattoni rossi, stucchi bianchi, rampicanti verdi. La casa di Doris Lessing, a Hampstead, ha mattoni rossi, stucchi bianchi e fiori colorati in giardino. La porta è aperta, un cartello dice “wet”, vernice fresca, e c’è una tazza d’acqua per il gatto, Yum Yum. Doris Lessing, la maggiore scrittrice inglese, candidata a un Nobel che tarda, aspetta in cima alla scala: “Venga, non si macchi sulla porta”. Anche il soggiorno, con la televisione accesa su un vecchio film in bianco e nero, è da scrittore inglese. Una stanza descritta più volte: sculture africane, libri dappertutto, giornali malpiegati, tazze di tè dimenticate su tappeti sdruciti, i peli di Yum Yum sui cuscini. La signora Lessing si lascia cadere su un divano sfondato, basso come il pavimento, e siede a gambe larghe, aspettando la prima domanda. L’intervistatore preferisce, al divano profondo come un pozzo, una poltroncina secca.
Lessing non ama i giornalisti: “Quelli buoni sono pochi: viene uno, m’intervista, scrive, e il ritratto che esce è il ritratto suo”.
Sarà la noia: le hanno posto per decenni le stesse domande – il comunismo e il femminismo, le donne e gli uomini, l’Africa e l’impero, e un quesito permanente: i suoi romanzi sono autobiografici? Forse è stanca di domande così… “Ma io rispondo come se non le avessi mai sentite prima”. Come dire: vediamo chi è capace d’inventare qualcosa.
Azzardiamo la via frontale: le dà fastidio che la definiscano acida, altezzosa?
Ma io non sono acida. E poi, perché non dovrei esserlo? Sono molto vecchia, ho le mie opinioni ed esperienze. – S’accorge d’essersi esposta, sorride – No, non sono acida, nemmeno con i giornalisti che non hanno letto i miei libri, – aggiunge pungente, con un’occhiata dal basso.
Doris Lessing ha 85 anni, un volto che sotto il casco grigio a chignon conserva un’intatta bellezza caparbia, due mani forti e una voce sicura: tutto quello che ha fatto, se l’è fatto lei. Nata nel 1919 in Persia, figlia d’un inglese amputato in guerra, a cinque anni fu portata in Rhodesia, oggi Zimbabwe, dai genitori che tentavano (invano) l’avventura coloniale. Leggeva come una forsennata (“La mamma mi ordinava i libri a Londra, qualunque libro”), iniziò a scrivere bambina, entrò in collegio, ne scappò a 13 anni quando pubblicò in Sud Africa i due primi racconti, a 15 era già fuori casa, a 19 sposata, subito madre di due figli, e pochi anni dopo di nuovo sola, a Salisbury. Indomita, insofferente, incontrò al Left Book Club, circolo di comunisti “che leggevano tutto e ritenevano tutto indegno d’essere letto”, Gottfried Lessing: lo sposò, e pure da lui ebbe un figlio, Peter. Un disastro: lei era comunista (“Allora tutti lo erano: non si conoscevano altre persone”), ma si ravvide vivendo con un vero comunista. Nel 1949 prese Peter e venne a Londra: trentenne, era libera.
Tentativo di domanda: che ricorda della Persia?
Ricordo l’odore della sabbia al sole, ricordo l’odore di urina. Ho la memoria precisa di quando mi misero a cavallo. E poi ricordo il viaggio per venire via: il battello sul Caspio, il treno in Russia, e tutti quei bambini alla stazione di Mosca, senza genitori, orfani della guerra civile. – Una pausa – Ho messo tutto nella prima parte dell’autobiografia, Sotto la pelle , sa?”. (Bisognava immaginarselo… ).
Vita dura, a Londra, ma di soddisfazione: pubblica il primo romanzo, L’erba canta , naturalmente autobiografico.
E scrive, scrive, scrive.
Che cos’è questa pulsione a scrivere, una malattia o una missione?
Una missione, no. Sono nata per scrivere, geneticamente. Voglio raccontar storie. Tutti, quando sogniamo, ci diciamo storie. E non c’è alcun messaggio: è il lettore che cerca un messaggio, e quindi lo trova.
Messaggio o no, nel 1962 Lessing pubblica il libro che fa sensazione, Il taccuino d’oro , diario a più livelli di Anna Wulf (chi sarà mai questa donna dal nome selvatico?), che cerca una via d’uscita dal caos, dall’ipocrisia, dallo stordimento della sua generazione. Libro femminista come nessun altro, benché forse, come Lessing ha spiegato, inconsapevole. Aggiungiamo noi: la risposta anglosassone al Secondo sesso di Simone de Beauvoir. Così, sistemati i comunisti (definiti una volta “assassini con la coscienza pulita”), liquidiamo in fretta pure le femministe: Anna Wulf voleva “vivere come un uomo”, ma oggi le donne sono “presuntuose, farisaiche” e, senti senti, “spaventano gli uomini”. Meglio perderle.
Tentiamo piuttosto con la fede e, inserita la spina, Lessing s’accende: “Non amo le religioni né le chiese, perché educano al rancore, all’odio, alle guerre: guardi l’Irlanda del Nord. Allevano le persone a credere d’essere meglio degli altri solo perché sono credenti”.
E lei è credente?
Dio è molto più antico delle religioni.
Perché siamo arrivati a parlare di fede? Perché l’ultimo libro di Lessing, Le nonne , che esce in italiano ed è occasione di questa intervista, narra d’una società che sembra di moralità fuori tempo: passi il terzo racconto, Un figlio dell’amore , sui rimorsi dopo un’ora di passione, o il secondo, Victoria e gli Staveney , in cui una ragazza nera consegna la figlia avuta da un ragazzo bianco alla famiglia “liberal” di lui (spassoso ritratto dei ricchi progressisti londinesi). È il primo, che intitola il libro, a parlare di nonne diverse da quelle che uno s’immagina: due donne, Roz e Lil, rimaste sole con un figlio ciascuna, in una località di mare imprecisata ma esotica (“Non è Europa, c’è il piacere di vivere sempre seminudi, in spiaggia”), diventano entrambe amanti del figlio dell’altra, finché i ragazzi crescono, si sposano, Roz e Lil diventano nonne, e la storia ha l’esito che, ovviamente, non si dice. Non che la fede (il peccato) conti, ma non si capisce nemmeno se la doppia storia edipica sia un caso d’indulgenza o di liberazione: “Ma io racconto una storia, che è vera. Me l’ha detta un ragazzo, invidioso di quei due uomini: siamo noi che abbiamo la coscienza più ombrosa”, ribatte sicura Lessing, mentre intanto si riassetta la gonna salita troppo sulle ginocchia.
Sarà un altro esperimento di questa scrittrice che ha provato tutto, anche la fantascienza, pur di rendere lo spirito del tempo, ciò che i critici letterari chiamano, con vezzo, Zeitgeist ? Oltre cinquanta libri, poi saggi, testi per teatro, articoli, più l’autobiografia giunta con il secondo volume (Camminando nell’ombra) agli anni Sessanta, dove però si tronca, “per non ferire persone vulnerabili”, che, evidentemente, condividono con Lessing segreti di vita vissuta. Un’epoca di cui la scrittrice ha memoria non conformista: “La gente idealizza gli anni della Swinging London “, e invece “tutti andavano a letto alle 10 di sera” e “si entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche”. Ovvia la domanda: sarà lo Zeitgeist dei tempi nostri quello espresso dalle due nonne scandalose, Roz e Lil? Un giorno Lessing dettò un epigramma epicureo: “Hai avuto tempi meravigliosi, per un certo tempo: ed è il meglio che tu possa dire della vita”. È questo il carpe diem delle nonne? “Nessuno s’aspetti d’essere felice per tutta la vita. E’ un desiderio infantile: non dura”.
L’intervista è tutta qui. Per il resto Lessing, rilassata, non parla più da scrittrice in attesa di Nobel.
Tony Blair?
È un attore, uno showman , attraente ma non troppo intelligente”.
L’Europa, cioè l’Unione Europea di Bruxelles?
Corrotta e inefficiente.
E chi lo dice?
Tutti lo dicono: corruzione endemica.
L’Italia?
È così bella, e Roma ha quel sindaco così carino. Ci sono stata a maggio, a un festival a Caracalla. C’era da mangiare e da bere, e in più un carretto che vendeva libri. Voglio scrivere al sindaco di Londra, Ken Livingstone: perché non copia qualcosa dagli italiani? Ma a noi manca la scena, il panorama, il vostro senso del teatro”.
Sulla porta, la vernice è ancora fresca. Mattoni rossi, stucchi bianchi, fiori e rampicanti, amore per l’Italia, odio per Bruxelles, supponenza per Blair: ecco Hampstead, capitale della sinistra chic inglese.
[dal “Corriere della Sera”, 17 giugno 2004]