di Gino Frezza
A fine anno 2003, è stato reso noto che ciascuno di noi poteva ritrovarsi vittima di attacchi terroristici viaggiando da Parigi a Las Vegas. Molti commentatori della notizia sono stati colpiti dalla natura del bersaglio scelto dai terroristi: la città di Las Vegas, centro del divertimento e del gioco, dello spettacolo, dell’intreccio politica-criminalità, metropoli della notte ai confini del deserto ma anche della ricchezza dispendiosa, sottratta ai giocatori sfortunati o abbondantemente versata a coloro che risultano baciati dalla Dea Bendata. La minaccia è stata – finora, e purtroppo parzialmente – sventata ma essa può ripresentarsi sotto altre forme da oggi a domani. Il terrorista siede vicino a noi e non sappiamo riconoscerlo; l’amico può svelarsi nemico e ogni confine fra bene e male, occidente e oriente, carnefice e vittima, si dissolve. Vien detto che questa guerra è «infinita» ma ognuno si chiede fin quando il nostro equilibrio psichico potrà sostenere un tale rischio e vivere con l’incombenza sempre più pressante di questa spada di Damocle.
Si è amplificata a dismisura la situazione raccontata in vari film catastrofici-thriller, dove l’evento terroristico cade come un’accetta sulla normalità del tempo quotidiano dell’Occidente e le vittime umane – bersagli scelti a caso – sono avvinte al flebile filo che sostiene la vita di ciascuno: l’imprevedibile sospeso ad ogni attimo nutre la percezione del tempo, il senso di esserci mentre, d’improvviso, potremmo non esserci. La lezione svolta dal cinema thriller-catastrofico, dagli anni settanta ad oggi, è utile a raccontare la situazione attuale. Attorno alla metà dei settanta e dei primi ottanta, il cinema raccontò senza veli gli assalti di terrorismo nelle grandi metropoli. Lo spettatore poté assistere tanto al senso devastante di ineluttabilità che rende penetrabile la vita individuale nell’Occidente civilizzato all’incombenza della morte collettiva, quanto al doppio registro di violenza da parte sia degli organi del potere anglo-americano e occidentale sia delle cellule del terrorismo. Fu un affondo nelle pieghe proibite degli intrecci fra politica internazionale, vendita di armi, strategie di spionaggio, affari d’economia privilegiata, etica o violenza dei corpi armati destinati a fronteggiare l’ondata degli attacchi ciechi e senza speranza del terrorismo. Dopo l’11 settembre una certa sociologia sostiene che siamo tutti divenuti bersagli. Occorre tuttavia precisare che il processo di nullificazione dell’esistenza posto in atto dal terrorismo fondamentalista è parallelo alla logica economico-produttivistica, pervasivamente anomica, scarsamente relazionale, del sistema occidentale di vita. Chi architetta e muove le azioni terroristiche di oggi sembra essere un grande antropologo dei media e dell’Occidente. Colpisce i non-luoghi dei trasporti e della comunicazione, quegli spazi dove – secondo Marc Augé – la nostra identità è sospesa e quindi il mimetismo del nemico sotto le vesti dell’amico, uguale a noi, può in essi meglio agire. Occorrerebbe chiedersi se tali non-luoghi non siano quindi da concepire e allestire in forme affatto diverse dal puro scambio di merci e di persone, fra attese e vetture aeree, consumi (oggetti, abiti, alimenti ecc.) funzionali a sopravvivere al tempo sospeso che contraddistingue i non-luoghi stessi. E forse andrebbe aggiunta da parte delle forme con cui si esprime la politica internazionale una verifica – perché no? – antropologica del profilo dell’odierno terrorista. Non solo suicida senza speranza, o martire del fondamentalismo, o ancora, pateticamente, agente “spento” che d’improvviso si riaccende attuando le decisioni operative incorporate, nella sua più celata identità, dai capi del terrorismo (secondo l’idea del “lavaggio del cervello” di KGBeana memoria). Immaginarsi antropologicamente il nemico prefigura scelte in grado di intaccare in profondità il nostro sistema di vita, nei gangli che possono scoprire possibilità di morte non solo esterne, ma interne al nostro ambiente. Mi sono sempre chiesto perché non si è ancora raccontata con esattezza di particolari la storia dei passeggeri dell’aereo che, l’11 settembre 2001, decisero di sacrificarsi tutt’assieme per evitare che i terroristi colpissero il proprio obbiettivo. Forse nella loro storia giace un elemento che li rende eroi difficili da sopportare (mentre i pompieri morti nel crollo delle Twin Towers sono assumibili da eroi secondo l’idea “semplice” dell’aiuto e del soccorso umano). I passeggeri eroici di quell’aereo hanno probabilmente vissuto una prossimità scandalosa alla condizione dei terroristi, sono dovuti divenire fino alla morte terroristi di se stessi, per evitare a sé e a coloro che amavano una catastrofe maggiore.
Comprendere il nemico secondo idee che lo rendano prossimo a noi, non diverso ma forse uguale in alcune dinamiche fondamentali della quotidianità, può servire a smontarne se non la logica militare almeno quella ideale, legata ad una differenza che potrebbe essere in tal modo spiegata nei suoi rivoli nascosti, se solo l’Occidente volesse compiere uno scandaglio di tale profondità. Ma: si vuol fare una tale operazione? In ogni caso, si tratta di un crinale decisivo degli scenari della politica internazionale e, ancor più, del delicato rapporto fra vita quotidiana e immaginario, fra sistemi di pensiero e forme della politica.
[da il manifesto]