UN IBRIDO CRESCE A BROOKLYN
di Valerio Evangelisti (da L’Unità)
E’ curioso trovarsi tra le mani un romanzo che inizia con una pagina apparentemente tratta di peso da Ultima fermata a Brooklyn, per violenza di situazioni e crudezza di linguaggio, e prosegue spostandosi all’epoca di Dante Alighieri, in crisi per non avere ancora scoperto la chiave giusta da utilizzare nello scrivere la Commedia che ha in mente. Eppure proprio così comincia lo scrittore newyorchese Nick Tosches nel suo La mano di Dante (Mondadori, pp. 380, € 18,00). E prosegue alternando tre moduli narrativi: quello alla Hubert Selby jr. (il riferimento a James Ellroy, contenuto nei risvolti di copertina, è a mio parere improprio), brutale e infarcito di oscenità, con cui vengono seguite le gesta di una laida canaglia di nome Louie; quello un po’ più composto e divagante con cui Tosches in persona, associatosi a quel Louie per recuperare l’originale della Divina Commedia, traccia la propria autobiografia (dai bassifondi alla letteratura); e infine quello lirico usato per seguire Dante in un viaggio in Sicilia, alla ricerca dell’ispirazione che non riesce a trovare.
Siamo chiaramente in presenza di un pastiche che ha il sapore di una provocazione, consistente nel rivolgersi a lettori che vivono in universi separati per coinvolgerli tutti e, al tempo stesso, per scandalizzarli tutti. Dico subito che l’esperimento non è riuscito. In primo luogo perché se ne avverte spesso la meccanicità, e in secondo luogo perché la fusione tra i diversi tasselli della narrazione non avviene mai. Ma aggiungo anche che il romanzo merita comunque di essere letto, poiché alcune sue pagine sono veramente straordinarie. Piacerà a pochi: non è fatto per essere amato, e sembra anzi scritto per conseguire l’effetto opposto. Tuttavia interesserà, e moltissimo, al lettore esigente, per la sua originalità e per l’autentica bellezza che, a intervalli irregolari, riesce a sprigionare.
La parte più debole è sicuramente quella ambientata all’epoca di Dante. Non vi è dubbio che Tosches abbia fatto le sue ricerche, anche approfondite, ma il ritratto che offre del “sommo poeta” non convince. Verso la fine, quando quelle pagine si impoveriscono ulteriormente rispetto alle prime, pare di avere a che fare con il Robin Williams de L’attimo fuggente, più che con il Dante aspro e problematico che ci è noto (dalle opere, non dalle interpretazioni). Resta comunque geniale il suo rovello su quel verso — Nel mezzo del cammin di vita nostra — in cui qualcosa sembra non tornare, e che blocca la stesura dei successivi. Siamo però dalle parti del divertissement.
Molto migliore il resto del romanzo, in cui Tosches, a parte i brevi brani scopertamente ricalcati su Selby Jr (ma non si tratta di un’imitazione: il riferimento è dichiarato innumerevoli volte), ci parla di se stesso e si abbandona a considerazioni sui temi più vari. E’ qui che si concentrano le pagine migliori, le osservazioni più pertinenti, le provocazioni vere. Grazie al cielo, Tosches è impudico. Non tanto quando inanella sfilze di oscenità un po’ gratuite (le pagine su Louie), ma quando rivela un ego smisurato e tuttavia incrinato dal senso della tristezza e della solitudine. Qui le vette raggiunte dall’autore sono indubbiamente alte. Interessanti anche, però solo agli occhi degli addetti ai lavori, le molte pagine consacrate alle miserie del mondo editoriale statunitense. Costituiscono un corpo avulso dal resto del romanzo, e tuttavia sono capaci di incuriosire, in attesa che la vicenda autobiografica riprenda a scorrere con la sua elegante fluidità.
Volendo giungere a un giudizio univoco, che la materia stessa rende poco praticabile, La mano di Dante mi pare un romanzo in sé non bello, ma pieno di belle cose e di sorprese. E’ un po’ lo specchio di certa letteratura americana d’avanguardia, in cui è difficile discernere dove termini la pura volontà di épater le bourgeois (si pensi alla pagina di Tosches sull’11 settembre, certo sconvolgente, nella sua freddezza, per il lettore statunitense) e dove inizi la sincerità dell’artista. Senza contare l’omaggio ormai di rigore alla narrativa di genere, qui presente nell’impianto noir dell’intera storia, laddove altri autori si rivolgono alla fantascienza.
Proprio in quanto specchio, dunque riflettente anche ciò che di imperfetto esiste nell’oggetto che gli è anteposto, La mano di Dante è un romanzo raccomandabile. Poi, a fini di raffronto, chi è interessato all’avanguardia troverà in William Vollman e in molti altri scrittori esperimenti egualmente provocatori ma più compiuti, e chi privilegia il genere saprà scoprire decine di autori di ottimo livello. Sta di fatto che Nick Tosches riassume meglio di costoro la figura del “ribelle senza causa”, tipica di periodi in cui le antiche certezze — culturali, politiche — sono cadute e quelle nuove stentano ad affacciarsi. La contraddittorietà diviene dunque il terreno naturale dell’artista. E del recensore.