chalmers.jpgL’autore parte dalla considerazione che l’esperienza conscia è contemporaneamente la cosa più familiare ma anche la cosa più misteriosa al mondo. Da un punto di vista oggettivo, il cervello è relativamente comprensibile. Ma oltre a tale aspetto ne esiste anche uno soggettivo. Insieme tali esperienze costituiscono la coscienza. Per tanti anni il problema della coscienza è stato evitato dai ricercatori, in quanto incompatibile con i parametri scientifici allora vigenti. L’idea prevalente era che la scienza, fondandosi esclusivamente sull’oggettività, non poteva ammettere qualcosa di così soggettivo come la coscienza. Negli ultimi anni un numero sempre crescente di neuroscienziati, psicologi e filosofi si stanno però avvicinando allo studio della coscienza, tentando di carpirne i segreti.

1591761484.187Come in ogni nuovo campo di studio, si sovrappongono teorie diverse e conflittuali. Esse spaziano dalle teorie riduzioniste (secondo le quali la coscienza può essere spiegata dai metodi standard della neuroscienza e dalla psicologia), alla posizione dei misteriani (secondo i quali la coscienza non potrà mai essere compresa). L’autore ritiene estremi entrambi questi punti di vista, esprimendosi a favore di una via intermedia. I dettagli completi di questa nuova teoria sono ancora al di fuori della nostra portata. Probabilmente questo richiederà l’elaborazione di nuove leggi fondamentali ed il concetto di informazione potrebbe giocare un ruolo fondamentale.
L’autore pone una distinzione tra problemi facili ed il problema difficile della coscienza. Per “problemi facili” non si intendono questioni banali, bensì i meccanismi oggettivi del sistema cognitivo (ad esempio la discriminazione tra stimoli differenti e la conseguente reazione appropriata o l’integrazione svolta dal cervello delle informazioni provenienti da fonti diverse). Di contro il problema difficile riguarda il come i processi fisici nel cervello possano dare luogo all’esperienza soggettiva. Quest’enigma coinvolge l’aspetto interiore del pensiero e della percezione, ossia di come il soggetto “percepisce” . E’ questo il fenomeno che pone il vero mistero della mente. Infatti, nessuno sa perché questi processi fisici siano accompagnati dall’esperienza conscia. Perché, ad esempio, quando il nostro cervello processa la luce ad una certa lunghezza d’onda noi viviamo l’esperienza di un verde brillante? Per rispondere a queste domande avremmo bisogno di una teoria della coscienza. Chalmers non nega che l’esperienza soggettiva emerga da un processo fisico, ma non si ha nessuna idea di come o perché questo accada.
Una volta specificati dalla neurobiologia i meccanismi neuronali adeguati, i problemi facili sono risolti. Di contro il problema difficile della coscienza, va oltre il come le funzioni vengono eseguite. Anche se ogni funzione comportamentale e cognitiva collegata alla coscienza fosse spiegata, rimarrebbe ancora un ulteriore mistero: il perché l’esecuzione di queste funzioni sia accompagnata dall’esperienza conscia. E questo problema si ripresenterà ogni qualvolta tenteremo di ideare una teoria della coscienza basata esclusivamente su processi fisici e neurofisiologici. L’autore non sta, ovviamente, negando l’importanza che le neuroscienze assumono nei confronti degli studi riguardanti la coscienza. Solo grazie ad esse siamo infatti in grado di svelare la natura della correlazione neurale della coscienza (i processi cerebrali più direttamente associati con l’esperienza conscia) e dare una corrispondenza dettagliata tra i processi specifici nel cervello ed i componenti correlati dell’esperienza. Ma finché non sapremo perché questi processi diano luogo all’esperienza conscia, non saremo in grado di superare ciò che il filosofo J. Levine chiamò la lacuna della spiegazione tra i processi fisici e la coscienza.
Per riuscire però a compiere questo salto, è necessario ideare una nuova teoria. Durante la costruzione di tale teoria è utile ricordare che non tutte le entità nella scienza sono spiegate in termini di entità più basilari. Nella fisica, per esempio, spazio-tempo, massa e carica sono considerate come caratteristiche fondamentali, non essendo riducibili a niente di più semplice. Chalmers propone che l’esperienza conscia venga considerata come una caratteristica fondamentale, irriducibile a qualsiasi cosa di più basilare. E dove c’è una proprietà fondamentale, ci sono leggi fondamentali. In questo caso le leggi devono raccordare l’esperienza agli elementi della teoria fisica. Quindi sarà una teoria completa e comprensiva di due componenti: le leggi fisiche (che ci informano del comportamento dei sistemi dall’infinitesimo al cosmologico) e le leggi psicofisiche (che ci informano di come questi sistemi siano associati all’esperienza conscia). Queste due componenti costituiranno una vera e propria “teoria del tutto” e saranno queste stesse a creare quel ponte che andrà a colmare la lacuna della spiegazione di cui sopra. Mentre le leggi fisiche sono state e continuano tuttora ad essere oggetto di studi approfonditi, le leggi psicofisiche originano dalle esperienze personali, le quali costituiscono un ricco tesoro utilizzabile per la formulazione di teorie.
L’autore delinea le basi delle leggi psicofisiche. La prima potrebbe essere evidenziata dall’osservazione che quando siamo consci di qualcosa, siamo generalmente in grado di reagire ad essa e parlarne. Di contro quando delle informazioni sono direttamente disponibili, per le azioni e i discorsi, sono generalmente consce. Così risulta che la consapevolezza è oggettiva e fisica, mentre la coscienza no. E’ allora possibile vedere qui i contorni di una legge psicofisica: dove c’è consapevolezza c’è coscienza, e viceversa. Un altro concetto chiave è il principio della coerenza strutturale: la struttura dell’esperienza conscia è rispecchiata dalla struttura dell’informazione nella consapevolezza, e viceversa. Un altro principio enucleato da Chalmers è quello dell’invarianza organizzazionale, per il quale i sistemi fisici con la stessa organizzazione astratta daranno luogo allo stesso tipo di esperienza conscia, a prescindere da quali che siano i suoi componenti. Chalmers ritiene che le leggi psicofisiche primarie coinvolgano centralmente il concetto d’informazione. L’informazione, o almeno alcune informazioni, ha due aspetti di base: uno fisico e uno esperenziale. L’ipotesi ha lo status di un principio fondamentale che potrebbe essere alla base della relazione tra processi fisici e l’esperienza. Ovunque troviamo l’esperienza conscia, essa esiste come un aspetto dello stato d’informazione, mentre l’altro aspetto è incorporato in un processo fisico nel cervello. Un problema potenziale è posto dall’ubiquità dell’informazione. Anche un termostato incorpora qualche informazione, per esempio, ma è conscio?
A questo punto ci si chiede se la coscienza possa sorgere in un sistema sintetico complesso. Un cervello artificiale, se organizzato appropriatamente, avrebbe lo stesso tipo di esperienze consce di un essere umano? Consideriamo pertanto un sistema a base di silicio, nel quale i chips siano organizzati e funzionanti nello stesso modo dei neuroni cerebrali. Ogni chip nel sistema al silicone eseguirà quindi ciò che esegue il suo analogo naturale e sarà interconnesso agli elementi che lo circondano con le medesime modalità. Il comportamento esibito dal sistema artificiale sarà quindi esattamente lo stesso del nostro cervello. La domanda che ci si pone è se esso sia conscio nello stesso nostro modo. Supponiamo che non lo sia e che i chips ed i neuroni, in quanto aventi la stessa funzione, siano intercambiabili. Potremmo, ad esempio, sostituire tutti i neuroni della nostra corteccia visiva con una versione in silicone organizzata in modo identico. Pertanto il cervello risultante, con una corteccia visiva artificiale, avrà un’esperienza conscia diversa dall’originale (dove si vedeva rosso ora si può esperire il viola). Entrambe le cortecce visive sono successivamente attaccate al nostro cervello attraverso un interruttore a doppia posizione. Collocato in una posizione si usa la corteccia visiva naturale, nell’altra è attivata la corteccia artificiale. Quando l’interruttore è azionato la nostra esperienza cambia dal rosso al viola, e viceversa. Quando invece l’interruttore è azionato ripetutamente, la nostra esperienza “danza” tra i due stati consci (rosso e viola) conosciuti come qualia. La tecnica di ragionamento fin qui adottata (conosciuta come reductio ad absurdum) dimostra come sia insostenibile l’ipotesi della diversità dei due sistemi, in quanto elementi intercambiabili tra loro non possono generare risultati differenti. Possiamo dunque concludere che un sistema artificiale, con organizzazione e funzioni identiche, ha un’esperienza conscia uguale a quella di un cervello neurale. L’implicazione incredibile è che la coscienza potrebbe, un giorno, emergere nelle macchine…
Neurobiologi come Francis Crick e Christof Koch ritengono che in questo momento si ritiene che il miglior approccio al problema della spiegazione della coscienza sia quello di concentrarsi nel trovare i correlati neuronali della coscienza, cioè quei processi che nel cervello sono i diretti responsabili della coscienza. Non è possibile trasmettere, con parole e idee, la natura esatta di un’esperienza soggettiva. E’ possibile però trasmettere una differenza tra esperienze soggettive (ad esempio la distinzione tra il rosso e l’arancione). L’implicazione consiste nel fatto che non potremo mai spiegare agli altri la natura di un’esperienza conscia, ma soltanto la sua relazione con le altre.
Ora ci si chiede il perché abbiamo esperienze consce. L’autore propone, a questo riguardo, l’introduzione dell’esperienza come una nuova caratteristica fondamentale del mondo, relativa all’abilità di un organismo di processare delle informazioni. Per spiegare quanto detto si preferisce un approccio che comprenda il concetto di significato. Infatti tra i neuroni esistono delle associazioni ed il significato deriva proprio dai collegamenti tra essi, organizzati in una rete associativa. Più sono diverse queste connessioni, più ricco è il significato. Per fare un esempio, nel caso della prosopagnosia (incapacità di un individuo a riconoscere consciamente facce familiari, addirittura la propria, sebbene la persona può ancora identificare una faccia come una faccia) l’output sinaptico dei neuroni predisposti al riconoscimento delle facce è bloccato; le cellule rispondono ancora alla facce delle persone ma si è perso il significato associativo e conseguentemente l’esperienza connessa. Inoltre, a questo riguardo, è importante citare due esperimenti condotti dalla professoressa Daniela Peroni, ricercatrice dell’Istituto di Neuroscienze e Bioimmagini di Milano, su soggetti con lesioni in alcune zone della parte destra del cervello. In un esperimento veniva chiesto a tali pazienti milanesi di descrivere la piazza del Duomo immaginandolo di spalle. Essi sapevano immaginare e descrivere solo la parte destra della piazza, ma non la sinistra. Se poi veniva chiesto loro di girarsi idealmente verso la cattedrale, immaginavano e descrivevano esattamente la parte destra, che prima non avevano saputo indicare, mentre non erano più in grado di descrivere la parte sinistra. Dunque, possiamo dedurre che la coscienza sia coinvolta non solo nella capacità di essere consapevoli della realtà, ma anche in quella di saperla rappresentare e immaginare mentalmente. L’altro esperimento consiste nel mostrare ai medesimi pazienti, il disegno ingrandito di due case identiche se non per un particolare, una è intatta e l’altra ha la metà sinistra in fiamme. Se chiediamo loro di indicare istintivamente, solo con un gesto, in quale delle due vorrebbero abitare nalla maggior parte la scelta cade sulla casa intatta. Pertanto possiamo affermare che le informazioni visive della parte sinistra del disegno, quella di cui non hanno consapevolezza e che non sanno descrivere a parole, sono giunte al loro cervello e hanno influenzato il loro comportamento (in questo caso la scelta). Cappa, professore di neuropsicologia a Brescia, spiega che l’esperienza della casa che brucia prova che il loro comportamento si è basato su una scelta razionale, anche se i pazienti non ne sono consapevoli.
L’informazione può essere veramente il concetto chiave, come sospetta Chalmers, se considerata come una caratteristica fondamentale, irriducibile ad un qualsiasi elemento più basilare. Vengono considerati flussi paralleli di informazione, collegati, come i neuroni, in reti complesse. Pertanto sarebbe utile cercare di determinare quali caratteristiche una rete neuronale deve avere per generare significato.

[a cura di Claudia ABBRUGIATI
Rossana BUCCHERI
Francesca CHIUSANO
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