di Luca Masali
Quante volte, presentando un saggio, lo sciagurato recensore comincia il discorso dicendo che il tomazzo di cui si appresta a banfare “è appassionante come un romanzo?” Novanta su cento è una balla clamorosa, significa semplicemente che il volume analizzato è talmente arido da aver prosciugato pure il cervello di chi lo recensisce, lasciando al poveretto solo l’appiglio del più immondo e scontato luogo comune che la sua negletta arte possa offrire.
È dunque con molta vergogna che, dopo aver giurato a me stesso che mai e poi mai avrei detto una roba del genere, devo confessare che questo Cacciatori di dinosauri, di Deborah Cadbury, ottimamente tradotto da Matteo Cais (Sironi Galapagos, 23 euro — Ahia!- per 400 pagine) è davvero un libro che si legge come un romanzo. Un gran bel romanzo, oltretutto. Vieni che ti racconto il perché.
Nel 1925, a Dayton, nel Tennessee, i cristiani fondamentalisti cercarono di trascinare Darwin in tribunale. Cioè, non il vecchio Charles, all’epoca già morto e sepolto, quanto il coraggioso John Scopes, professore di liceo, reo di aver insegnato la biologia dell’evoluzione umana ai suoi studenti adolescenti. L’evento, che i cronisti dell’epoca dipinsero come “il processo del secolo”, ispirò il dramma Inherit the Wind di Jerome Laurence e Robert E. Lee, trasformato nel film E l’uomo creò Satana di Stanley Kramer, con Spencer Tracy nei panni dello sgarruppato avvocato di Scopes. Impedibile la scena iniziale, con Leslie Uggams che canta, con una cadenza lenta scandita dai tamburi, Give Me That Old Time Religion, mentre gli sbirri vanno a ingabbiare il tapino.
Ora, da noi simili esempi di beceraggine sono sempre stati rari. Vabbé, Moratti a parte. Ma non divaghiamo, parliamo di cose serie.
Nel mondo anglosassone, i conati di idiozia biblica sono da sempre un bel problema; e se lo erano nell’America pre-depressione figuriamoci come dovevano esserlo nell’Inghilterra di inizio ottocento, quando il momento della creazione della Terra era stata fissata al 23 ottobre del 4004 avanti cristo dai raffinati calcoli di tal arcivescovo James Ussher. Così era, punto e basta.
Ma attorno agli anni dieci dell’ottocento, una scienza neonata stava muovendo i primi passi: Una scienza rivoluzionaria, all’inizio piuttosto ridicola, fatta di gentleman in cilindro che raccoglievano sassetti felici come bambini, poi vagamente blasfema, alla fine terrorizzante, al punto da far esplodere dall’orrore il povero reverendo Sedwick, impossibilitato a credere l’evidenza che le serie fossili gli sbattevano sotto il naso: “L’uomo e la donna sono solo bestie migliori”.
La scienza neonata era la geologia, e il libro di Deborah Cadbury racconta il romanzo della Terra. Un libro che non è fatto di polvere e vecchie ossa, ma di carne e sangue. Che cesella come un thriller di razza le tragiche vite di coloro che vennero stritolati dalla potenza del terrificante segreto che stavano tirando fuori dal Giurese (e non Giurassico, che è una maldestra italianizzazione che viene dal film di Spielberg; grazie Matteo Cais, grazie per una traduzione finalmente rigorosa di questo e tantissimi altri termini così spesso macellati da traduzioni a orecchio).
Questo libro è la storia di Mary Anning, la fragile signora dalla povertà dickensiana che portò alla luce il Plesiosauro, mostruoso rettile acquatico che nuotava in mari che non sarebbero mai stati visti da occhio umano. Lei dedicò tutta l’esistenza alla geologia, talvolta vendendo in cambio di patate i fossili che per strappare alla terra spesso rischiava la pelle, un sacrificio necessario per pagarsi la scelta di non prendersi un marito che l’avrebbe rinchiusa in cucina lontana dalle sue ossessioni pietrificate. Analfabeta e povera, da viva non poté mai nemmeno mettere piede nella prestigiosa Società geologica, dove intere carriere nascevano rubando i frutti del suo lavoro. Solo quando i dolori di un cancro al seno la fecero impazzire, visto che non aveva i soldi per comprarsi gli analgesici, ricevette un’elemosina da parte della possente Società Geologica. Danari elargiti da Richard Owen, il potentissimo padre-padrone della geologia vittoriana. Questo libro è la storia della parabola della vita di Richard Owen, anatomista di grandissima fama, che fece una gavetta durissima e quando arrivò alle leve del potere, soprattutto grazie al lavoro di Mary, le usò malissimo, maciullando esistenze. Questo libro è la storia di Gordon Mantell, medico senza pazienti, perché nella sua vita non c’era posto che per lui, l’Iguanodonte, il dinosauro che aveva scoperto in modo terribilmente frammentario e che dedicò trent’anni della sua vita a cercarne la sfuggente mandibola che gli avrebbe finalmente permesso di scoprirne il mistero. Mantell per tutta l’esistenza subì le crudeli vessazioni di Owen, che si appropriava sistematicamente del suo lavoro, lo ridicolizzava e finalmente riuscì a rovinarlo, a fargli perdere la moglie e quel che peggio la preziosa collezione di fossili, unica ragione della vita di Mantell. Quando finalmente la ebbe tra le mani, la disperse, perché non restasse nulla dell’avversario che aveva osato tenergli testa. Non pago della vittoria, Owen si trasformò lui stesso in mostro, ma un mostro peggiore dei suoi dentuti incubi fossili: stroncato da una vita difficile, Mantell sviluppò una mostruosa deformità alla colonna vertebrale, che trasformò gli ultimi anni della sua esistenza in un inferno lenito solo dalla droga e dall’alcool. Alla sua morte, povero, solo e dimenticato, Owen ottenne che il museo acquisisse la contorta colonna vertebrale del nemico, per esporla nell’alcool nella collezione dei mostri. Un destino cinico e baro fino alla fine, tanto che anche quando i nomi di Owen e Mantell scivolarono finalmente nell’oblio, la burocrazia britannica impedì di seppellire il misero resto, finché nel 1944 una pietosa bomba della luftwaffe hitleriana non pose fine alla gogna post mortem dello sfigatissimo scienziato.
Owen crebbe in potere e onori elaborando acrobatiche teorie che consentissero di spiegare l’esistenza dei dinosauri (nome che aveva inventato lui) senza contraddire la bibbia e senza lasciare il minimo spiraglio ai primi, timidi tentativi di proporre delle teorie evolutive. Mentendo spudoratamente e falsificando documenti, se necessario. Fino a diventare paladino della Chiesa nell’ultima battaglia, quella che l’avrebbe rovinato e gettato prima nella vergogna e poi nel dimenticatoio, quando arrivò un nuovo avversario, ben poco disposto a finire sotto formalina nella collezione di Owen. Perché questo libro è anche la storia di Darwin, l’uomo che seppe spiegare quello che era sotto gli occhi di tutti, il meccanismo che dimostrando come si formassero le specie sottraeva l’Uomo dalla creazione. Un osso troppo duro per Owen, che volendo trasformare il dibattito intellettuale in “uno scontro aperto tra la scienza e la Chiesa” perse tutto. Gli imbrogli e i furti su cui aveva costruito una vita vennero alla luce, il sangue di Mary Anning e la colonna vertebrale di Mantell ebbero la loro vendetta. Al punto che pochi anni dopo un professore di Oxford, commentandone la figura, lo liquidò come “un maledetto bugiardo, che mentì per dio e per malignità”.
Questo libro è anche molto altro: è la storia della rivalità scientifica tra Francia e Inghilterra che facevano a chi ce l’ha più grosso (l’impero coloniale dal quale attingere fossili), questo libro è la poetica e tragica storia di William Buckland, che impazzì nel tentativo di conciliare i dinosauri con Dio; non riuscì mai a credere che potessero essere carnivori, visto che secondo la genesi la morte nasce col peccato originale, e predicò un’arcadia in cui i mastodontici dinosauri del paradiso terrestre non potevano che vivere in perfetta felicità.
Questo libro è meraviglioso.