di Mario Scarpellini
[da homolaicus]
Raccogliendo un tema centrale che aveva elaborato nei suoi saggi sul Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, ma che avrebbe poi sviluppato in maniera indipendente e autonoma da Wittgenstein, la Bachmann individua l’unico linguaggio autentico nella tensione della parola nei confronti della sfera dell’indicibile, dell’ombra e della tenebra. Un linguaggio dunque che si esercita nella tensione verso ciò che nel linguaggio si mostra , ma che non può essere detto e esplicitato, e che costituisce il risvolto oscuro dell’esistenza, dove la parola riacquista significato e insieme un impegno etico e il valore di una speranza. Ed è questo nesso indivisibile di analisi critica del linguaggio, di impegno etico nei confronti di un mondo nuovo a costituire la struttura essenziale alla base della poesia e della prosa di Ingeborg Bachmann .
La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto.
Non si tratta soltanto di un’esperienza strettamente intellettuale, letteraria e filosofica, ma anche di un nuovo impegno spirituale, etico e esistenziale. “Una nuova lingua deve avere un nuovo modo di incedere, il che può accadere soltanto se un nuovo spirito la abita”. Il linguaggio non è per lo scrittore una provvista di materiali sociali e istituzionali , destinata al possesso e all’uso perché esso corrisponde invece, secondo la Bachmann, a una spinta necessaria che per ora non saprei definire se non come spinta morale che precorre ogni morale, una forza d’urto per un pensiero che agli inizi non si preoccupa della propria direzione, un pensiero che tende alla conoscenza e che vuole raggiungere qualcosa con e attraverso il linguaggio.
Questo “qualcosa” da raggiungere con il linguaggio, questa sfera oscura e imprevedibile è ciò che la Bachmann definisce la “realtà”.
La Bachmann recepisce l’indicazione di Wittgenstein sui limiti del linguaggio e al tempo stesso la svolge in modo indipendente dal filosofo austriaco. Infatti la metafisica è il tentativo erroneo, come spiega la Bachmann in Scigbares und Unsagbares. Die Philosophie Ludwig Wittgensteins, di esprimere il sentimento della vita nel linguaggio destinato a designare i fatti, il che risulta impossibile e insensato, ma la Bachmann precisa anche che il sentimento della vita, che al linguaggio della metafisica è vietato di comunicare, può trovare la sua espressione attraverso la forma artistica della poesia e della letteratura.
Ma il sentimento della vita può trovare la sua espressione attraverso la via della conformazione artistica. Un’opera d’arte non argomenta, la metafisica invece argomenta e consiste nel compito di trasmettere conoscenze.
La Bachmann dichiara pertanto che lo scrittore deve scoprire un nuovo linguaggio e un nuovo mondo operando dall’ interno dei limiti imposti dal linguaggio ordinario e del mondo istituzionale: “all’interno dei confini che gli sono dati, lo scrittore dovrà fissare i segni della lingua [ … ] e dovrà riportarla in vita”. Nel caso della Bachmann si tratta dì una speranza linguistica e di un impegno etico entro i quali il linguaggio è sospeso fra l’accertamento positivistico dei fatti, del “mondo così come io lo trovai”, per usare l’espressione dei Tractatus logico philosophicus e il mondo che è quel tempo che non c’è ancora. In un passo decisivo delle Frankfurter Vorlesungen la Bachmann dice infatti che al poeta nel migliore dei casi riusciranno due cose rispetto al mondo storico determinato, nel quale è immerso, e rispetto al mondo che non è ancora, e che costituisce soltanto una certezza vivente.
Nel migliore dei casi, al poeta riusciranno due cose: rappresentare l’epoca sua, e presentare qualcosa per cui il tempo non è ancora venuto.
Occorre considerare queste due alternative dal cui rapporto sorge la tensione specifica del dire poetico e della narrazione letteraria della Bachmann. Da un lato la Bachmann considera il momento in cui si tratta di rappresentare il mondo che c’è stato sino al presente, fino all’istante puntuale in cui emerge il discorso poetico, e poi c’è il momento in cui non si tratta di rappresentare, bensì di presentare. Il rappresentare è un ripetere, un descrivere, un constatare, un rispecchiare “il mondo, così come io lo trovai” o, come viene detto di Malina che “per lui il mondo è evidentemente quello che è, come lo ha trovato”, mentre il presentare è parlare di un mondo che non c’è ancora, che non è iscritto nella dimensione del tempo. Nel primo momento il linguaggio riflette quello che c’è, ossia rappresenta, mentre nel secondo momento il linguaggio opera di proprio pugno; esso presenta, inaugura. Il rappresentare esprime il processo storico, esistenziale nel suo decorso temporale, mentre il presentare è l’indicazione di una utopia, un non-luogo e un non-tempo, di una dimensione verticale al di fuori dello spazio e del tempo.
Nell’arte – scrive la Bachmann – non c’è alcun progresso lineare, bensì soltanto e sempre il nuovo spalancarsi di una linea verticale.
Qui la Bachmann riprende il tema di un autore dal quale ammette di essere stata influenzata, e cioè Otto Weininger, il quale riconosce la libertà e la comprensione che l’uomo può avere di sé esclusivamente nell’istante presente, nel Moment nel quale egli diviene “un atto atemporale che continuamente si compie”. Cioè, quel presente atemporale che corrisponde all’oggi, che costituisce l’istante decisivo e fatale rispetto al quale il linguaggio si rivela impotente, disperato quanto una contraffazione e che costituisce il tema d’apertura e di chiusura di Malina:”Perché è quasi impossibile dire “oggi” tanto è privo di speranza il mio rapporto con l’“oggi”, perché questo Oggi lo posso passare solo con una tremenda angoscia e una fretta pazzesca, e scrivere perché si dovrebbe distruggere subito quello che viene scritto sull’Oggi “.
L’oggi è il momento fuori del tempo, l’utopia etica e poetica dell’istante, come la Bachmann scrive in Malina, dell’ovunque e in nessun posto: “il tempo non è oggi” “il tempo non c’è più”. “Per le unità di tempo, in cui intervengono altri tempi, non c’è misura, non c’è misura fuori del tempo, dove entra in gioco quello che nel tempo non ci fu mai”. L’oggi, come l’istante che si sottrae al tempo, si radicalizza nell’adesso.
Rispetto a questa scadenza decisiva verso cui volge il mondo storico-temporale si pongono in luce gli avverbi “ancora”, “non ancora”; cioè si accende l’impegno etico di un’autoaffermazione dell’io, mentre il mondo da presentare non è un oggetto di descrizione, ma segnala l’atto di un’autoaffermazione etica dell’io che aspira a diventare mondo, che si affaccia soltanto nella parola. In questa scadenza, sottolineata dagli avverbi temporali, “il tempo dilazionato” della Bachmann, vuol significare che il tempo non è il neutro e lineare scorrere indifferente di istanti, ma è un tempo che esige prese di posizioni, decisioni, dunque che è un tempo urgente. L’urgenza del tempo è tutt’uno con l’impegno etico della scrittura della Bachmann. Essa significa il congedo dal linguaggio e dall’ordine sociale del patriarcato, dalla disciplina e dal potere dei padri che poi sono stati anche i mariti e che poi tutti sono stati assassini,come il padre-assassino nel secondo capitolo di Malina.
Ma non si può nemmeno amare quello che non si è conosciuto, ed è questa la ragione per la quale in Malina l’io si affida a Ivan. Ossia, il vecchio mondo da rappresentare e il nuovo mondo da presentare non sono due sfere indipendenti ,si tratta piuttosto di un diverso concetto di bellezza, di una bellezza che ha a che fare con la storicità. Infatti, il compito della poesia non è quello di costruire un’utopia concreta, un’ideologia o utopia chiusa in alternativa al mondo storico vissuto, l’utopia delineata dalla Bachmann non è suscettibile di trasformarsi in uno stato storico-sociale durevole.
Il mondo della poesia della Bachmann e della sua utopia emerge come tensione nei confronti di valori traditi dalla lingua e dalla società esistenti. E da questi che prende congedo, ma è anche verso di essi che continuamente la Bachmann fa ritorno. Non è che ci sia stato fin dall’inizio un assassino, piuttosto c’è stato un padre, che è stato un assassino: “Non è mio padre, è il mio assassino” dice l’Io in Malina; un padre che nel sogno cerca di afferrarle e di strapparle la lingua per portarle via la parola, il diritto alla risposta e all’affermazione, ossia ciò che vi è di più umano in lei: “mio padre cerca di afferrarmi la lingua, me la vuole strappare, in modo che anche qui nessuno senta il mio No”. La circostanza che il mondo da rappresentare non sia separato dal mondo da presentare è testimoniato dalla presenza continua e insistente di antinomie nelle figure e nelle situazioni nella scrittura della Bachmann. L’assassino è assassino non perché è semplicemente un uomo crudele o spietato, ma soprattutto perché è l’assassino dei valori che ha rappresentato, perché alla fine dietro ogni demone vi è stato anche un angelo.
La poesia della Bachmann è la testimonianza di valori traditi. E si tratta di valori che occorre andare a cercare nello scenario del silenzio nel quale mentre ammutolisce il mondo, mentre tace “il linguaggio cattivo”, si leva una parola che fa segno all’indicibile.
Dunque la parola deve tacere; in questi versi la Bachmann si rivolge alle parole ammonendole a non dire il mondo, esortandole a ritirarsi, ma al tempo stesso manifesta il suo dire, ancora una parola, per esortare a non dire: “Lasciate, vi dico, lasciate”. Il linguaggio poetico fa tacere il linguaggio cattivo, il linguaggio della canaglia, esprimendo un’ultima parola che è la testimonianza della vicissitudine finale e disperata del suo destino tracciato nella tensione al limite tra il dicibile e l’indicibile. Nasce la parola poetica che è figlia di questo destino nel senso che è al tempo stesso “tenera di pazienza e d’impazienza”.
Dunque l’utopia della Bachmann non disegna una linea retta che misura semplicemente il distacco dal mondo degli assassini, dalla sfera del potere e della sopraffazione, ma traccia un moto circolare lungo il quale la parola poetica va alla ricerca dei valori che nella loro realizzazione storica sono stati traditi e assassinati. Questa situazione rende ragione della necessità affermata dalla Bachmann per la quale gli uomini devono soffrire fino in fondo il proprio passato. L’utopia della poesia e della letteratura non è il mero oltrepassamento del mondo che è stato, nella direzione di un nuovo ordine del mondo idealizzato e sublimato. L’utopia della poesia è l’espressione della tensione e dell’amarezza che il linguaggio attraversa elaborando il lutto del passato in presenza di nuove esigenze etiche e di nuove istanze espressive che rivisitano le cose che sono accadute, scoprendo gli inganni, le illusioni, le mistificazioni, gli insulti e la violenza della civiltà umana. L’utopia del nuovo linguaggio e dunque di un mondo nuovo si svolge lungo la spirale della sua critica linguistica e etica della storia passata. L’intreccio fa della poesia un’espressione “acuta di conoscenza e amara di nostalgia” Cosi in scrive la Bachmann in Malina:“Bisogna soffrire fino in fondo il passato,bisogna soffrire fino in fondo le cose, gli altri non hanno tempo per questo, nei loro paesi dove si danno da fare e fanno progetti e agiscono, perché sono senza lingua, sono quelli che non hanno una lingua che governano in tutti i tempi”.
La lingua autentica è la messa in atto della nominazione e dell’iscrizione originaria del passato e della storia. Gli uomini comuni, pragmatici, impegnati negli affari ordinari della vita sono senza lingua e perciò sono incapaci di rivivere e di soffrire il passato, cioè tutto quello che sono stati e sono. L’impulso etico immanente alla poesia e alla narrazione si manifesta nell’asserzione essenziale della Bachmann formulata in Malina: la lingua è il castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e debbono poi scomparire secondo la loro colpa e secondo la misura della loro colpa.
Pensare è parlare, e scrivere è parlare. Scrivere e pensare è alla fine ricordare, è far risuonare l’eco dell’origine. Scrivendo, l’uomo prende coscienza di sé e dunque prende atto della colpa che egli è stato, e il linguaggio in ultima istanza scrive la colpa che l’uomo è stato ed è. Questo è il segreto terribile testimoniato dalla Bachmann in Malina. L’utopia tracciata dalla Bachmann è l’utopia dei valori e dei significati che erano immanenti e virtuali nel mondo storico che li ha traditi.
Questa situazione illumina l’uso del linguaggio letterario da parte della Bachmann, la quale mette in discussione i rapporti ordinari di corrispondenza nel linguaggio comune tra parole e referenti, perché come in Malina il termine “padre”, finisce per designare l’assassino, come “Wildermuth” è il nome sia del giudice cosi come dell’imputato in Ein Wildermuth, così in Unter Mórdern und Irren l’assassino, che non è mai riuscito a uccidere perché ogni motivazione dell’etica e della società istituzionali avrebbe costituito una falsificazione della sua autentica e genuina volontà di uccidere, questo assassino è addirittura assassinato da uomini che non sono veri assassini. Questa figura di sconosciuto con la vocazione all’assassinio che finisce per essere assassinato, risulta nel racconto della Bachmann una figura religiosa, nella quale e nel sangue della quale, che le è rimasto attaccato addosso, l’Io-narrante, trova una protezione e una redenzione dall’ira, dalla vendetta dalla disperazione dal momento che “l’assassino non aveva ucciso nessuno ed era soltanto una vittima – per niente. Ma chi sa questo? Chi osa dirlo?”. Questa è la torsione etica e espressiva che la Bachmann imprime al linguaggio facendone un contro specchio di se stesso.
Nella poesia e nella prosa della Bachmann il linguaggio è l’estraneazione che esso fa di se stesso. Anche il rapporto di omosessualità esemplifica in questo racconto le antinomie e le tensioni interne nelle quali si trova coinvolto ogni volta il linguaggio. L’intrascendibilità del linguaggio nella Bachmann consiste nella circostanza che il linguaggio non si lascia afferrare nella sua totalità, che esso non si lascia dire esaustivamente, come se esso contenesse un grande tema pre-verbale che non si può enunciare, ma al quale si può soltanto fare segno. Il linguaggio è nella sua essenza questo auto-trascendimento. Il concetto del limite insuperabile del linguaggio non implica semplicemente un insuccesso, una perdita secca dal momento che la parola poetica, percorsa da un impulso etico, ristabilisce una tensione che non è una capitolazione resa al linguaggio comune.
Il limite del linguaggio non è superabile e non lo si può trascendere neanche una volta, ma, dall’interno del linguaggio, il linguaggio viene messo in discussione con se stesso, come in altro modo dalla Bachmann ha fatto anche Thomas Bernhard in tutta l’opera sua. Questo apre nuove possibilità perché dal suo interno illinguaggio mostra ciò che continuamente lo trascende, la sua tensione immanente che Bernhard ha definito come il “contenuto di verità della menzogna”. Il linguaggio non è trascendibile in quanto esso è le sue norme, i suoi vincoli, le sue rigidità, ma è pur vero che un nuovo linguaggio è il termine che designa questo esercizio critico con il quale il linguaggio, che abbiamo a disposizione, si sottopone al proprio esame, alla propria revisione, come accade dei resto a ogni pensiero che sia non semplicemente consistente e coerente, cioè un pensiero morto, ma che sia coerente e al tempo stesso radicato nei recessi oscuri della nostra coscienza, che sia dunque un pensiero vivo.
Il nuovo linguaggio, del quale parla la Bachmann, resta un’utopia perché diversamente si cristallizzerebbe in un nuovo sistema di vincoli. Proprio perché il limite del linguaggio è insuperabile, si estrinseca la tensione della parola verso tale limite come un gesto intenzionale che spinge il linguaggio oltre le sue convenzioni e i suoi significati pietrificati. Il nuovo linguaggio non è semplicemente un linguaggio diverso, ma è la tensione dalla quale il linguaggio comune è attraversato nella misura in cui esso, come avviene in ogni gesto poetico, è intenzionato verso l’indicibile. L’utopia di un nuovo linguaggio è la garanzia di qualcosa di ineffabile che mette in discussione ogni linguaggio che abbiamo a disposizione.
Come la Bachmann, sia pure muovendo da premesse e atteggiamenti diversi, anche Thomas Bernhard ha praticato il linguaggio nel giuoco delle sue alternative paradossali che coinvolgono sia istanze etiche, sia esigenze estetiche e espressive. La Bachmann dichiarò di essere rimasta profondamente colpita dall’opera di Bernhard e in particolare da Perturbamento, nel quale si domanda se lo scrittore austriaco non costituisca la voce del futuro che la letteratura tedesca attende da lungo tempo . La Bachmann e Bernhard condividono una disperazione linguistica, per effetto della quale non c’è più un mondo da rispecchiare, da riflettere e da descrivere in quanto è venuta meno la corrispondenza tra realtà da un lato e linguaggio, possibilità di comunicazione fra gli uomini dall’altro. E questa disperazione che porta a compimento l’isolamento e la solitudine nei quali sono immersi i personaggi dei due scrittori austriaci.
Ma il tema della falsificazione, inerente al nostro linguaggio, è naturalmente centrale nell’opera della Bachmann. Di falsificazioni si dichiara vittima l’Io in Malina, la quale percepisce il mondo come un’unica falsificazione: “Ma soprattutto c’era una falsificazione. lo ero completamente falsificata, mi hanno messo in mano carte false. Alla fine ero tutta una falsificazione”. Non c’è una verità comunicabile a disposizione dei personaggi della Bachmann e di Bernhard, che sono gettati in un mondo che non è preparato per gli uomini e per i quali resta soltanto la consapevolezza critica dell’impossibilità di esprimere la verità. Alla scrittura è riservato allora il compito, come dice Bernhard, di scoprire “il contenuto di verità della menzogna”.
Sia il mondo della Bachmann come quello di Bernhard è “il mondo così come io lo trovai”, cioè un mondo indifferente o addirittura ostile agli uomini che al di sopra di loro incombe come una potenza oscura. Anche per Bernhard la scrittura è pena, è castigo come la definisce la Bachmann.
In Malina la Bachmann designa il suo luogo di fuga nella sua abitazione in Ungargasse, numero 6, che l’lo difende disperatamente dalle minacce esterne, dalla vendetta di tutti i paesi.
Ma l’Ungargasse numero 6 è anche il carcere nel finale di Malina, dell’Io che in essa giunge alla solitudine disperata, al soffoco, all’estinzione finale. “Qui non c’è nessuna donna” risponde Malina a Ivan nella chiusa del romanzo . L’lo in quel luogo che da centro di fuga è diventato un carcere si estingue nella crepa del muro che si è andata allargando sotto il suo sguardo fisso. “Fisso la parete dove si è formata una crepa, deve essere una vecchia crepa che adesso si allarga leggermente, perché la fisso sempre”. In questa crepa si estingue l’lo, non c’è più una donna, Malina dice che non c’è mai stata nessuna donna che portasse il suo nome. Nell’Ungargasse numero 6 è stato consumato l’assassinio di una donna.
“Squilla di nuovo il telefono [ … ] Egli [Malina] sa che è Ivan. [ … ] “Sì, Ungargasse 6. No, non c’è. Qui non c’è nessuna donna. Ma le dico che non c’è mai stato qualcuno con questo nome. Non c’è nessun altro qui”. Era assassinio”.
La scrittura è il luogo estremo di questa fuga rispetto alla pressione dei fatti, di fronte alla pressione altrimenti intollerabile dell’esistenza governata, come dice la Bachmann, dalla “legge del mondo che resta più incompresa che mai al di sopra di tutti”.
L’Io in Malina scopre e mette in discussione le proprie componenti, le componenti della sua complessa stratificazione che ne fanno un io doppio, che non cessa di riduplicarsi. In Malina l’io è scisso, è il doppio di, se stesso, ma ciascuna componente nella sua parzialità considera e investe le altre componenti fino a raggiungere un livello di complessità che risulta ingovernabile. L’esistenza diviene un processo in cui una parte sconosciuta si insinua in un’altra parte sconosciuta.
“Lei disse [ … ] in sostanza non era il ritratto di una persona, ma di due, in estremo contrasto l’una con l’altra, doveva essere per me una continua lacerazione, con quegli aspetti Per me è stato sempre così: una sconosciuta si è insinuata dietro un’altra sconosciuta”.
L’opera della Bachmann definisce un regime linguistico ed esistenziale di domande che continuamente si ripropongono e che non ottengono mai una risposta; per l’lo in Malina l’impossibilità di una risposta è la condizione che contrassegna il destino dell’esistenza e che la fa ammutolire.
“Io scuoto di nuovo la testa, non vuol dire niente, e poi non so niente, e se sapessi o lui me lo dicesse, non ci sarebbe una risposta, non qui e non ora e mai più sulla terra. Finché vivo non ci sarà una risposta”.
Si potrebbe riconoscere il tema della relazione tra anima e esattezza, nella relazione fra la passione amorosa dell’Io in Malina e la figura di Malina; nella Bachmann il rapporto fra quei due poli non viene ricomposto e piuttosto si risolve in una tensione mortale, per effetto della quale Malina non assassina l’lo, come la Bachmann ha peraltro precisato in una intervista, bensì induce l’lo a rinunciare alla sua storia d’amore ammonendola che lei non può andare più oltre. Ma tale rinuncia porta al dissolvimento e all’estinzione finale dell’Io nella crepa che si è aperta nella sua vita.
Mentre l’espansione e perfino lo studio della tenebra e delle antinomie irresolubili costituisce il risultato della scrittura che in Bernhard e nella Bachmann si esercita spietatamente su se stessa, vengono messe contemporaneamente in discussione le immagini. Le immagini costituiscono il non-pensato, sono l’imposizione violenta di un’univocità della rappresentazione che blocca il movimento del pensiero-linguaggio il quale si misura con l’oscuro, con l’indicibile. Il linguaggio non è per i due scrittori austriaci una raffigurazione iconica, ma è un impegno etico e insieme un esercizio espressivo su un mondo che non si può cogliere come una totalità esaustiva, sul filo della tensione tra ciò che è stato ed è, e ciò che non è ancora o non sarà mai. La scrittura diviene un’attesa che vive nel regime di una permanente interrogazione che estende la tenebra come se quest’ultima fosse una scienza.
In Malina la Bachmann scrive che l’uomo è fondamentalmente guidato in tutti i suoi movimenti e in tutti i suoi gesti da qualcosa che è irrapresentabile come un nero profondo, che è il mistero che lui costituisce per se stesso e che lo immerge nell’esperienza indicibile del mistero generale che circonda la sua esistenza, come il silenzio circonda la parola, come la morte circonda la vita. “Gli uomini [ … ] passeggiano per il bosco o se ne vanno nello spazio portando in un mistero il loro mistero”.
La Bachmann denuncia la corruzione del nostro pensiero e della nostra sensibilità ad opera della civiltà, cosi come denuncia l’arroganza delle pubbliche istituzioni che hanno tolto agli uomini ogni pudore, e alla fine riconduce la responsabilità di questa mortificazione e di questa corruzione dell’esistenza umana a quell’“Illuminismo che già perpetua le peggiori devastazioni tra i minorenni confusi”, come scrive in Malina.
“Perché il nostro pensiero e la nostra sensibilità per una parte, per la loro parte guasta, sono legati alla civiltà, alla nostra conquista della civiltà, per cui da molto tempo abbiamo perduto veramente il diritto di chiamarci uomini come i più selvaggi tra i selvaggi e da noi non è solo la tracotanza dei pubblici uffici che ci ha tolto l’ultimo resto di pudore, ma prima dei dati da elaborare e dei questionari agiva già uno spirito affine, anticipatore, che si richiama sicuro di sé a quell’illuminismo che già perpetua le peggiori devastazioni tra i minorenni confusi”.
L’esistenza dei personaggi della Bachmann trascorre, come nel caso dell’Io in Malina, in attesa della “fine del mondo”, di una “caduta catastrofica nel nulla”,di un “crollo”; l’Io in Malína dichiara: “il mondo in cui impazzisco è finito”.
Il mondo diventa un’immensa camera a gas: “ e prima che possa gridare aspiro già tutto il gas, sempre più gas. Sono nella camera a gas, ecco cos’è, la più grande camera a gas del mondo, e ci sto dentro sola. Non ci si difende dal gas”.
Anche per la Bachmann l’infelicità è il fattore che intreccia la trama delle relazioni umane, l’infelicità naturale che è responsabile del coinvolgimento di ciascuno nella vita di un altro.” Questa infelicità, che ciascuno provoca, a suscitare il pensiero nell’altro. Il pensiero nell’altro è risvegliato dalla infelicità che gli provochiamo. Non c’è relazione di pensiero, non esiste fenomeno di pensiero senza l’infelicità perché soltanto attraverso l’infelicità raggiungiamo la mente degli altri”.
In Malina questo tema è svolto nell’àmbito delle relazioni tra le donne e gli uomini.
Quando sei sicuro di aver procurato all’altro una vera infelicità, allora anche l’altro pensa a te. Altrimenti la maggior parte degli uomini rendono infelici le donne e non c’è una reciprocità, perché la nostra sorte è l’infelicità naturale, inevitabile, che deriva dalla malattia degli uomini di cui le donne debbono occuparsi tanto Che cos’è la vita? È quello che non si può vivere.
La Bachmann in un passo di Malína rappresenta uno di questi uomini semplici e ignari che, senza averne consapevolezza, racchiudono in sé come qualcosa di impenetrabile il destino segreto della vita, alla fine di ciò che “era più importante”.
“Non ho mai visto nessun altro così tormentato, cosi gravemente ignaro. Qualcosa di impenetrabile [ … ]. Quel meccanico, che non dimenticherò mai, da cui sono andata in pellegrinaggio per poi chiedere alla fine il conto, nient’altro, era più importante per me. Per me era lui più importante”.
Attraverso i suoi esercizi intellettuali l’uomo diviene la vittima del suo linguaggio e del suo pensiero che assumono progressivamente l’aspetto di una concatenazione meccanica e coattiva che porta alla scissione della personalità, alla depressione e all’estinzione finale.
La Bachmann nel finale di Malina stabilisce, mediante la figura del personaggio Malina, un limite e un arresto all’Io, all’Io-narrante. Come lei scrive l’Io narrante e Malina sono “personaggi doppi” e “entrambi diventano reali nella tensione del loro rapporto”. Ella stessa dichiara: Il finale [di Malina] è scritto quasi come una partitura. Ci sono soltanto due voci messe insieme o l’una contro l’altra che, come in musica, ricevono delle indicazioni: sottovoce, con sentimento, ecc. Allora si capisce molto esattamente che cosa in realtà succede. Malina prende il sopravvento, cerca di far capire all’Io femminile che non può più andare oltre.
Dice infatti Malina all’Io:”Devi rimanere sul posto. Deve essere il tuo posto. Non devi farti avanti e nemmeno retrocedere. Allora su questo posto, sull’unico posto veramente tuo, vincerai”.
Non dunque per quello che dicono e vogliono dire nel corso della loro esistenza gli uomini possono salvarsi dalla disperazione e dalla follia, bensì per il fatto che essi stessi e i loro pensieri e le loro frasi vengono raccontati, che c’è una scrittura che si fa carico di loro. Ed è per questo che la Bachmann ha stabilito un regime e una condotta di scrittura che è sia filosofica, sia letteraria in quanto si tratta di una scrittura che è un pensiero raccontato.
La Bachmann introduce in Malina un’autorialità complessa e stratificata, che si articola intorno a tre poti, costituiti dall’Io-narrante, da Malina e da Ivan, altrettanti poli e proiezioni dell’Io-scrivente e queste figure assumono il loro significato nei loro rapporti e nelle loro tensioni reciproche, come del resto ha confermato la stessa Bachmann. È la struttura stratificata di un’autorialità a più voci, responsabilte delle crescenti lacerazioni dell’Io-narrante, che rende ragione di due passi così in contrasto fra loro in questo romanzo.
“Verrà un giorno in cui gli uomini avranno occhi di oro rosso e voci siderali, le loro mani saranno fatte per l’amore, e la poesia del loro sesso sarà ricreata [ … ] e le loro mani saranno fatte per la bontà, prenderanno i beni più grandi con mani innocenti”.
Ma l’lo-scrivente, che dà voce all’Io-narrante, il quale fonda la speranza della sua salvezza nella possibilità di scrivere “il bel libro” per Ivan, alla fine della vicenda, mentre ha portato a compimento la disperazione e la scissione dell’Io-narrante, manifesta l’impossibilità di scrivere quel libro. In forza di questa struttura complessa dell’autorialità della sua opera, la Bachmann mostra come la scrittura effettiva, il libro rea le sono la scrittura e il libro che scaturiscono da un precedente atto mancato di scrittura. Si potrebbe dire che la Bachmann ha scritto Malina perché l’Io-narrante non ha potuto scrivere il “suo bel libro per Ivan”.
“Non posso più scrivere il bel libro, ho smesso da un pezzo di pensare al libro, senza motivo, non mi viene più in mente una frase. Ma ero così sicura che il, libro esistesse e che lo avrei trovato per Ivan. Non verrà un giorno, gli uomini non saranno mai, la poesia non sarà mai, e loro non saranno mai, gli uomini non avranno mai occhi neri, cupi, dalle loro mani verrà la distruzione, verrà la peste, sarà la peste, che è in tutti, e la peste, da cui tutti sono contagiati, li mieterà, presto sarà la fine”.
Malina è precisamente il libro che la Bachmann ha scritto dal momento che l’Io-narrante non ha scritto “il suo bel libro per Ivan”. E ciò trova conferma nella funzione ineliminabile delI’Io-scrivente sulla quale insiste la Bachmann che è al tempo stesso la testimonianza di una fede disperata nella scrittura. Nella terza di queste conferenze, intitolata L’io che scrive , dopo aver osservato una serie di mutamenti ai quali l’io nella storia della letteratura è andato sottoposto, per cui esso variamente dapprima è nella storia, poi è la storia a trovarsi nell’io, la Bachmann delinea ora, nell’epoca in cui siamo immersi, un io dissolto, il quale non ha più alcuna garanzia.
E nondimeno, grazie anche a questa perdita di certezza, l’io ha conseguito un guadagno, nel senso che ha raggiunto un livello di maggiore complessità, che si manifesta come autorialità caratterizzata da una pluralità di voci. Alla fine la Bachmann conclude osservando che il miracolo dell’io consiste nel fatto che ovunque esso parli, sia pure privato di ogni garanzia e di ogni certezza, anche se nessuno crede ad esso, perfino se l’io perde la fiducia in se stesso, nondimeno dal momento in cui entra in scena e dal momento in cui prende la parola, separandosi dal coro uniforme di tutti gli altri interlocutori, dal coro uniforme di tutte le altre voci, l’io deve credere in se stesso.
“Il miracolo dell’Io è appunto questo: dovunque parli, l’io vive; non può morire – per quanto schiantato, o oppresso dal dubbio, non più credibile e amputato – questo lo privo di garanzie!”.
La Bachmann mostra che la scienza letteraria presume erroneamente di dare indicazioni sulle opere come se fossero fatti compiuti, neutrali e obiettivi, anziché indagarli in relazione al modo di essere nostro e al modo di essere del tempo, e così constata gli effetti ridicoli suscitati dal bisogno di certezze. La storia letteraria trascura la dimensione essenziale degli scrittori del passato rispetto alle ansie presenti nel nostro tempo, connesse alla ricerca di quella che la Bachmann definisce una dismisura, anziché di una misura, di un codice, di un paradigma. Dismisura che si manifesta come sogno di un nuovo orientamento di pensiero e di scrittura.
La tradizione filosofica e letteraria, le opere degli antichi maestri , come “fatti compiuti” direbbe la Bachmann, non hanno significato nei momenti più decisivi della nostra esistenza. Ce ne occupiamo e li sottoponiamo al nostro esame intellettuale quando non abbiamo un effettivo interesse per loro e non appena siamo afflitti da un effettivo tormento della nostra vita essi non ci dicono più nulla e li mettiamo da parte.
Analogamente in Malina scrive la Bachmann che l’Io in un momento decisivo della sua esistenza non sa cosa di tutti i libri che ha letto: “mi guardo intorno nella biblioteca fra i miei libri [ … ] che assurdità, perché quel che ho letto finora a cosa mi serve se non posso usarlo per Ivan”.
Valga per tutto la parola indimenticabile, struggente di nostalgia per questo mito, che la Bachmann ha scritto in Malina:
Io mi riproduco nelle parole e riproduco anche Ivan, creo una nuova stirpe, dall’unione mia e di Ivan viene al mondo ciò che la creazione ha voluto: / Uccelli di fuoco / Azzurrite / Tuffo di fiamme / Gocce di giada.