Recensione di Tommaso De Lorenzis
Il misterioso suicidio dell’industriale Gian Maria Dondi riporta a galla un passato celato tra le pieghe di quattro vite. L’eco di uno sparo risuona in una villa sui colli felsinei e si propaga sotto la volta del tempo. La pistola ha già esploso colpi mortali. Dove? Quando? E in che modo un torbido gioco di affari e speculazioni, consumato sui circuiti della finanza internazionale, intreccia fatti risalenti alla fine degli anni Settanta?
Accade tutto in una manciata di giorni, nell’epilogo fulminante di una vicenda rimasta in sospeso per due decenni. Accade a Bologna. Tra il tre e il diciannove settembre del 1993, dopo che una valanga di futili e volgari istantanee ha finito di seppellire la stagione del movimento, delle passioni, della condivisione.
Il tempo ha preteso un sacrificio umano. Così Barbara è volata giù dal tetto di una discoteca con troppa droga nelle vene. Barbara, che amava la pittura, la boxe, la radio, la politica e un uomo. Un uomo che un giorno se n’è andato e un altro giorno ha deciso di raccontare questa storia. Uno stravagante narratore senza nome, di professione detective privato, scolpito dalla penna di Girolamo De Michele a metà tra il marmo del cliché e la pietra viva dell’invenzione, tra la scoperta dell’oblio sul fondo di un bicchiere e la ricerca di un’inafferrabile lucidità annegata in una tazza di caffè.
Il tempo è trascorso anche per Cristiano. Settimane, mesi, anni tutti uguali. In carcere il tempo scorre con lentezza sfibrante. Cristiano Malavasi ha sparato. Ha sparato, ha ucciso, Cristiano, che aveva scelto la lotta armata.
Per Andrea, invece, il tempo sembra non passare. Andrea Vannini è un duro. Parla poco, esita ancora meno. Un bel mattino, senza un motivo, senza una spiegazione, ha mollato Università e collettivo per entrare in polizia. Ora, è diventato l’ispettore Vannini.
In una Bologna crepuscolare come il cinema di Peckinpah, malinconica come certe pagine noir, sfuggente come la Bolognina (non a caso il più controverso dei suoi quartieri), l’indagine va assumendo i contorni di un’odissea nella memoria, di una deriva terapeutica, di un viaggio a ritroso tra i resti di un amore finito, la desolazione di un’esistenza spezzata, le rovine di vecchie amicizie.
Ma la scoperta della verità non placherà l’inquietudine, non concederà soddisfazione, non elargirà cure. In fondo, la vita è abbastanza schifosa e Tre uomini paradossali fornisce una solenne lezione di “grammatica nera”, trasportando l’epica di Sergio Leone dalle parti della via Emilia per shakerarla con il meglio del “genere”.
Dietro il teatro di ombre cinesi, su cui scorrono i luoghi comuni dello sbirro democratico, del detective triste e del prigioniero politico irriducibile, si nascondono le tinte forti di una magistrale capacità descrittiva: l’ossessione per il caffè di un improbabile investigatore privato, l’erudizione manzoniana di un detenuto, il perfezionismo razionalista di un poliziotto, il gusto per il non-sense di una donna che trasmette sulle frequenze di una radio, la comune passione per il cinema western vissuta attraverso la lente deformante della militanza. Era da parecchio tempo che non si leggeva di personaggi tanto umani da provocare una brusca vertigine nel punto esatto dove la finzione si confonde con la realtà. Del resto, alle radici degli accadimenti umani alberga il “paradosso” ed è proprio questo che li rende veri.
Un risultato notevole, oggi che il noir e l’hard-boiled sono diventati comodi travestimenti commerciali, tanto inverosimili quanto scontati, inverosimili proprio perché scontati; assolutamente stupefacente se pensiamo che il libro è stato scritto dieci anni fa ed è rimasto a decantare in un cassetto, fino a quando iQuindici, esperienza di lettura collettiva nata intorno all’atelier Wu Ming, non l’hanno segnalato all’editore Einaudi. Non si tratta di un esempio dell’importanza dell’intelligenza diffusa per il funzionamento dell’industria culturale, bensì della conferma definitiva che quest’ingegno comune è in grado di svolgere funzioni un tempo riservate a ristrette enclaves intellettuali. Alludiamo alle ragioni per le quali il mainstream editoriale si rivela insufficiente ad assorbire il complesso di sollecitazioni che lo stimolano. Se troppe buone storie non riescono a trovare spazi di circolazione, allora, da qualche parte, un problema esiste. In questo senso la “critica” riscopre il meno retorico e il più artigianale dei suoi significati, che è capacità di lettura, disponibilità all’ascolto, sforzo per fornire risposte, pareri, considerazione e, soprattutto, occasioni di diffusione.
Grazie al bollettino telematico Inciquid e al forum di discussione, iQuindici una soluzione hanno provata a fornirla, applicando un principio semplicissimo: è inutile delegare ciò che si può fare da sé. Gli dà ragione questo romanzo ricco di sottili riferimenti e gonfio di musica, la cui colonna sonora rimane composta dalle camuffate note di Yesterday e il cui epitaffio va cercato fuori dall’ultima pagina, nelle parole che, in C’era una volta in America, Noodles rivolge al vecchio Max: “Molti anni fa avevo un amico. Era una grande amicizia. Andò male a lui e andò male anche a me”.
Girolamo De Michele, Tre uomini paradossali, Torino, Einaudi, 2004, pp. 193, euro 8.50