di Nicholas D. Kristof
[da The New York Times ]
Lo scandalo degli abusi nelle prigioni si rifiuta di finire nel dimenticatoio, perché le spiegazioni rassicuranti della Casa Bianca continuano a cozzare contro le rivelazioni sui prigionieri morti e sulla sempre più evidente connivenza degli ufficiali di alto grado, oltre che la scoperta di nuove vittime, come, per esempio, Sean Baker.
Se Sean Baker non suona come un nome iracheno, è perché non lo è. Il soldato speciale Baker, trentasettenne, è infatti americano, ed era un orgoglioso soldato dell’esercito degli Stati Uniti. Veterano dell’Air Force e membro della guardia nazionale del Kentucky, ha combattuto nella prima guerra del golfo e più recentemente ha fatto parte della polizia militare di stanza nella base di Guantanamo.
Finché, nel gennaio del 2003, un ufficiale della base non gli chiese di fingersi un prigioniero in una specie di esercitazione. Come gli era stato detto, il soldato Baker si infilò la divisa arancione da detenuto sopra la sua uniforme e sgattaiolò su una brandina in una cella, così che la «forza di reazione interna» potesse esercitarsi a cavarsela con un detenuto “poco cooperativo”. Ai cinque soldati americani della “forza di reazione”, infatti, era stato detto che Baker era un vero detenuto che aveva appena aggredito un sergente.
Nonostante più di due settimane di insistenza, non sono riuscito a convincere Sean Baker a rilasciare un’intervista. Ma lui aveva già raccontato tutto a una stazione televisiva del Kentucky:
«Mi hanno afferrato per le braccia e le gambe, prendendomi di peso e rivoltandomi, e uno di loro mi è salito sulla schiena per spingermi giù con forza mentre ero bloccato a pancia in sotto. Poi, sempre lo stesso, mi è girato intorno e ha preso a soffocarmi mentre mi spingeva la faccia contro il pavimento nudo. Ha continuato per 20 o 30 secondi, che a me sono sembrati un’eternità perché non potevo respirare. E siccome non potevo respirare mi sono fatto prendere dal panico e gli ho detto la parola d’ordine, quella che si supponeva dovesse far terminare l’esercitazione. Ma quell’individuo mi ha sbattuto la testa contro il pavimento e ha continuato a soffocarmi. In qualche modo sono riuscito a prendere un po’ d’aria e a mormorare: “Sono un soldato americano… sono un soldato americano…”».
Poi i soldati si sono finalmente accorti che indossava una divisa militare americana sotto i panni da carcerato. Così, Sean Baker è stato trasportato in un ospedale militare a causa delle ferite riportate alla testa, e successivamente trasferito in una clinica della Marina, a Portsmouth. Dopo sei giorni di degenza, è stato infine dimesso con due settimane di convalescenza.
Ma a quel punto il soldato Baker ha iniziato a soffrire di brevi assenze di tipo epilettico, così l’esercito l’ha spedito al Walter Reed Army Medical Center, ospedale specializzato nel trattamento dei traumi cranici e cerebrali. Rimase in quell’ospedale per 48 giorni, dopodichè fu trasferito e messo a servizio in un cimitero militare a Fort Dix con un compito non faticoso, e alla fine è stato congedato per motivi di salute, due mesi fa.
Nel frattempo, un’inchiesta militare concludeva che il soldato Baker non aveva subito alcun abuso. Sostenendo anche che non era stato possibile trovare la videoregistrazione dell’accaduto di cui si era in precedenza sostenuta l’esistenza.
Come se non bastasse, quando Baker raccontò la sua storia a un reporter del Kentucky, l’esercito cominciò a mentire gettandogli fango addosso solo per minare la sua credibilità. Il maggiore Laurie Arellano, portavoce del comando della circoscrizione militare del Sud, mise in discussione l’entità delle ferite riportate dal soldato Baker, dicendo ai cronisti che in ogni caso i suoi problemi di salute non erano dovuti alle ferite riportate in quella “esercitazione”.
Di fatto, però, la cartella clinica dell’esercito datata il 29 settembre del 2003 attesta che: «Il trauma cerebrale è stato riportato dal soldato Baker mentre interpretava il ruolo di “detenuto non cooperativo” durante un’esercitazione all’interno di una cella di detenzione della Base di Guantanamo».
Il maggiore Arellano ha poi ammesso di aver frainteso i fatti e di essere stata male informata dal personale medico. Adesso sostiene che i problemi di salute di Baker sono dovuti in parte, ma soltanto in parte, a quello che chiama “incidente”.
Il soldato Baker, che è sposato e ha un figlio di 14 anni, adesso è disoccupato. Prende nove tipi diversi di medicinali e continua a soffrire di frequenti assenze epilettiche. A Bruce Simpson, il suo avvocato, è stato detto che il signor Baker non potrà iniziare a percepire gli assegni di invalidità prima di diciotto mesi. Se gli fosse riconosciuta un’invalidità del 100 per cento, potrebbe arrivare a percepire un massimo di 2100 dollari al mese.
Se l’esercito degli Stati Uniti tratta in questo modo un suo stesso soldato, permettendo che sia malmenato e per di più mentendo per coprire il fatto stesso, be’, si può solo immaginare quello che succede agli Afgani e agli Iracheni. Il presidente Bush ha attribuito quanto è venuto alla luce nella prigione di Abu Ghraib a «pochi, isolati soldati americani che hanno disonorato l’intero Paese».
Ma, caro Presidente Bush, la faccenda è più complicata, e riguarda ben più di qualche mela marcia.
(Traduzione di Riccardo Rita – da dsonline.it)