di Robert Coover

lacrimeberl.jpgLa differenza fondamentale tra un eroe tragico e un pagliaccio è
che un eroe, una volta finito con il sedere a terra, non si rialza più. Allora, se si
prendono le cadute come unità di misura, si spendono meglio i propri soldi con un
pagliaccio che con un eroe; ma il conteggio delle cadute non è il modo migliore per
misurare la storia e delineare il destino di una nazione.

La capacità di alzarsi e cadere e rialzarsi ancora è tuttavia
esemplare: ognuno di noi, benché ammiri l’eroe, l’equilibrista o
l’acrobata, finisce per imitare il pagliaccio; sperando, però, di non rivelarsi
così imbranato da coprire di ridicolo la propria temporanea sopravvivenza. E
probabilmente ognuno di noi teme e detesta quel ridicolo e amorale pagliaccio che finisce
per imitare, così come disprezza la propria codardia e stoltezza, così come teme la
parte di sé più incivile e oscura.

nixon.jpgL’incivile pagliaccio infatti, amorale come amorale è un bambino,
e capace di oltraggiare atrocemente ciò che viene fatto oggetto di maggiore venerazione,
è sempre un emarginato, una figura solitaria e assorta che balla spasmodica lungo i bordi
estremi della nostra visione sociale, un tipo strambo e unico. Il pagliaccio non si fida
di nessuno perché in realtà non condivide minimamente le avventure dell’umanità.
Può capitare che per un certo periodo, come durante una carnevalesca festa dei folli, si
ritrovi a capo di quelle avventure, ma soltanto per tempi brevi; è sempre e soltanto ciò
che è, e in realtà a quelle avventure non partecipa mai. E se ci prova, pericolosa
aberrazione che altro non è (sinistra creatura, troppo vicina al nulla), dovrà essere
bandito.

Ma per quanto vicino al nulla quel pagliaccio la sa a volte più lunga
di re o di eroi. La sua conoscenza non è frutto di apprendimento (come nel processo di
"civilizzazione"), ma semplicemente un qualcosa da cui è posseduto. Là dove
altri vedono un mondo razionalmente organizzato, lui vede un’atroce beffa. E così
quel pagliaccio, quando si ritrova altrettanto vicino al potere che al nulla, è in grado
di mostrare cose che altri mai potrebbero mostrare.

All’inizio dell’inverno del 1969 avevo cominciato a lavorare
a un testo che sarebbe poi stato pubblicato con il titolo The Public Burning2. Nata come satira teatrale, la storia collocava le esecuzioni
di Julius e Ethel Rosenberg, accusati di spionaggio durante la guerra fredda, sulla pista
centrale di un grande circo storico presentato da un supereroe demoniaco di nome Zio Sam.
Man mano che il testo, infarcito di svariati numeri di equilibrismo, si spostava verso la
prosa, mi rendevo conto della necessità di avere un pagliaccio che di tanto in tanto
entrasse in scena, si calasse le brache, facesse partire uno o due razzi3
e riportasse lo spettacolo con i piedi per terra, così da farmi vedere certi aspetti del
circo che tenendo gli occhi sempre rivolti verso l’alto non potevo vedere. Lanciai
una buccia di banana per sondare il terreno e quello stesso inverno ecco Richard Nixon,
con la sua falcata asincrona alla Buster Keaton e una giacca da Charlie Chaplin, avanzare
verso il podio inaugurale per assumere la presidenza, e scivolarci sopra.

Richard Nixon, che non riusciva a smetterla di fare il buffone
("Non ho mai conosciuto nessuno che sia cambiato così poco" aveva detto in quei
giorni sua madre), ma che quando lo scelsi (se pure fui io a scegliere) non aveva ancora
messo bene a punto il suo numero, sarebbe poi scivolato su qualche altra buccia di banana
prima che potessi finire quel libro, ostentando l’inequivocabile potere del
pagliaccio di usare il randello come fanno le marionette: colpire e uccidere senza
rimorsi, in quella farsa mortale e interminabile che conosciamo con il nome di
Realpolitik. Il pessimo numero da avanspettacolo che alla fine lo fece cacciare dal
palcoscenico della storia del mondo ebbe luogo circa a metà del mio, di numero,
costellando così anche il mio cammino di bucce di banana ma confermando la saggezza
intuitiva ("saggezza intuitiva" significa: bisogna esserlo per capirlo) grazie
alla quale gli avevo assegnato il ruolo del buffone nella mia storia sulla guerra fredda.

Il fatto che, come ogni pagliaccio, Nixon fosse sempre fedele a se
stesso e inconfondibile come Groucho Marx o come Bozo, ne fece in qualche modo
un’icona (temibile o accattivante) dei nostri tempi. I pagliacci sono sempre quello
che sono e i loro numeri di routine, messinscene del potere e dell’umiliazione, si
rivelano semplici veicoli per mostrare la loro intrinseca stoltezza. Nella loro assoluta
imprevedibilità i pagliacci sono assolutamente prevedibili, e ci forniscono
un’immagine non troppo rassicurante di come si fa a restare sulla cresta
dell’onda. Si potrà forse essere d’accordo con Eraclito quando dice che non è
possibile entrare due volte nello stesso fiume, eppure si può finire allo stesso modo con
il sedere a terra ogni volta che si prova a cadere. In effetti, la sfumatura patetica nel
numero di un pagliaccio triste è dovuta alla sua incapacità di smettere, nonostante i
tentativi, di essere un pagliaccio.

Ad attirarmi, di Nixon, erano poi altre qualità claunesche, non ultima
la sua vicinanza al potere nel ruolo di vicepresidente nel giugno del 1953, quando i
Rosenberg vennero giustiziati, vicinanza che paradossalmente lo tenne lontano e isolato
come un buffone a corte, tollerato dal Generale ma non ammesso alla corte di Ike. Anelava
a quell’ammissione (che non venne mai), e diventò così il modello perfetto di una
diligenza inutile, comicamente concentrata su un obiettivo.

Anche il fisico si adattava alla parte, la faccia bianca come il gesso
e i movimenti scoordinati, le gote paffute (fool, buffone, deriva dal latino folles,
gote paffute) e il naso a goccia. Il suo sorriso ufficiale era una specie di problema
meccanico mai risolto, quasi che esponesse un cartello con su scritto "SMILE",
sorridi, ma essendosi rotto il meccanismo ne veniva fuori un che di artificiale, vagamente
strampalato e minaccioso. Quale effettivamente era.

Più di qualsiasi altra cosa, però, ritengo che a qualificare Richard
Nixon come pagliaccio fosse la sua assurda visione dell’esistenza come gestione di
una crisi, idea da cui presi spunto per il narratore di The Public Burning e per il
tema centrale di un libro successivo, Whatever Happened to Gloomy Gus of the Chicago
Bears?
4. I pagliacci non fanno che mettersi in situazioni
critiche, oppure ci si ritrovano dentro impotenti; i loro ridicoli sforzi per uscirne
suscitano in noi il riso. Dopotutto finire con il sedere a terra non è che una crisi in
due fasi: prima si tenta disperatamente di non cadere, poi si tenta di rialzarsi.

Si potrebbe sostenere che tutti i Presidenti americani sono in un certo
senso icone di pagliacci, e che questa loro qualità (come Lear apprese dal suo buffone)
è intrinseca al lavoro che fanno: comandanti in capo, certo, ma anche bersagli per torte.
È ovvio che il nostro leader attuale, con la sua faccia bianca come il gesso, le gote
paffute e il naso a goccia, sembra cosciente degli aspetti clauneschi del suo incarico, e
bisogna dire che si veste perfettamente per la parte. Le battute alle feste in cui si
offriva per essere preso di mira5, le comparse alla MTV, le
facezie nel bel mezzo di un discorso, le barzellette dal prato della Casa Bianca e i finti
spot televisivi potrebbero davvero essere, almeno fino a ora, i risultati più rilevanti
del suo mandato; se non altro ci fanno sentire maggiormente a nostro agio di fronte
all’esercizio di un potere che incute terrore.

Il vero buffone, avverte Socrate, è colui che non sa di esserlo: Bill
Clinton, che conosce la battuta, è meno pericoloso di Richard Nixon ma anche più
ironico, meno iconico. E decisamente meno memorabile. La famosa frase di Richard Nixon ai
giornalisti fu di per sé una specie di gag, che venne assolutamente fraintesa (come lui
ben sapeva nel momento stesso in cui la pronunciò). Egli verrà bistrattato per sempre6.

 

(traduzione di Roberto Cagliero)


 Note del traduttore

1. Il presente articolo
è comparso con il titolo The Tears of a Clown in "New York Newsday",
mercoledì 27 aprile 1994, pp. A31-32. L’ultimo romanzo di Robert Coover è John’s
Wife: A Novel
, Simon & Schuster, New York 1996.
ROBERT COOVER scrittore americano, è nato nel 1932. Il romanzo The Public Burning (1977)
riscostruisce in chiave postruoderna il periodo della guerra fredda, del processo ai
Rosenberg e dell’ascesa di Richard Nixon. In italiano sono comparsi Sculacciando la
cameriera
(1987), Un campione in tuUe le arti (1989), e La babysitter (1992)
presso Guanda; La festa di Gerald (1988) e Una serata al cinema (1992)
presso Feltrinelli.

2. Viking Press, New
York 1977 (non tradotto in italiano).

3. Coover mi ha così
spiegato questa espressione: "Nei vecchi numeri circensi, un pagliaccio raggiungeva
faticosamente il centro del palco, trascinando un enorme razzo di quelli che si usano per
fare i fuochi artificiali. Un secondo pagliaccio gli gridava: ‘Oh no, George! Non
vorrai fare partire quel razzo qui dentro!’ e poi cominciava a rincorrerlo
(l’altro, intanto, aveva già acceso la miccia); con un paio di forbici tentava
magari di tagliare la miccia, e invece tagliava le bretelle dell’altro ecc. ecc. Il
numero terminava invariabilmente con uno scoppio accompagnato da rumori di scoregge".

4. Linden Press, New
York 1987 (Un campione in tutte le arti, tr.it. L. Schenoni, Guanda, Parma 1989).
Su questo testo e più in generale sull’utilizzazione della Storia in chiave
postmoderna nei testi di Coover cfr. R. Cagliero, Robert Coover e il Watergate del
romanzo storico
, "Paragone Letteratura" 20, 482 (aprile 1990), pp. 110-12;
H. Ickstadt, History, Fiction and the Designs of Robert Coover,
"Amerikastudien" 28, 3 (1983), pp. 347-60; R. Kunow, Without Telos or
Subject? Coover’s and Doctorow’s Presentation of History
, in Günter Lenz
(et al., ed.), Reconstructing American Literature and Historical Studies, Campus
Verlag, Frankfurt a. M. 1990, pp. 372-90; R.A. Mazurek, Metafiction, the Historical
Novel, and Coover’s
The Public Burning, "Critique" XXIII, 3 (1982), pp.
29-42; E. Viereck, The Clown Knew It All Along: The Medium Was the Message,
"Delta" 28 (juin 1989), pp. 63-81.

5. I roasts sono
occasioni sociali in cui un personaggio consenziente, e generalmente famoso (ad esempio un
candidato politico), viene preso di mira da tutti i presenti.

6. A metà degli anni
Sessanta, dopo avere perso la corsa alla Casa Bianca contro John F. Kennedy e poi quella
per diventare Governatore della California, Nixon decise di "ritirarsi" dalla
politica. Quasi in lacrime, sfogò il proprio risentimento contro la stampa dicendo ai
giornalisti che "non avrebbero più avuto un Dick Nixon da bistrattare". La
frase è poi diventata famosa.