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Abbiamo visto come il personaggio di Maurice Leblanc, Arsène Lupin, si ispiri forse — non nel primo racconto dedicato al ladro gentiluomo, ma piuttosto in alcuni dei successivi – alle gesta del ladro anarchico Alexandre Marius Jacob (1879-1954), capo della banda dei Lavoratori della Notte. Personaggio di primo piano nelle fila dell’anarchismo “illegalista” francese, che più tardi trovò il proprio organo teorico nel settimanale L’Anarchie di Albert Libertad e di Victor Serge e il proprio epilogo nelle gesta sanguinose della Banda Bonnot, Jacob fu condannato nel 1905 alla deportazione nella Guyana per quasi 150 furti.

Definire Jacob “ladro gentiluomo” sarebbe improprio. E’ vero che faceva un uso limitato e difensivo delle armi da fuoco, ma ciò non vale per gli altri membri della sua banda, spesso per nulla politicizzati e reclutati tra la malavita comune. Quanto ai furti, non è che richiedessero particolare destrezza: si trattava il più delle volte di svaligiare, a ritmi addirittura quotidiani, ville di campagna e soprattutto sacrestie. La vita consueta di Jacob fu poi l’opposto di quella brillante attribuita da Leblanc al suo Lupin (ultranazionalista in politica).
Ciò non toglie che Jacob resti un personaggio affascinante e singolare. Basti dire che quando si suicidò, per sfuggire alle malattie della vecchiaia, con una dose letale di morfina (dopo avere ucciso alla stessa maniera il proprio cane, decrepito e cieco), si premurò di lasciare in frigo due bottiglioni di vino rosé per chi avesse trovato il suo corpo.
La prima breve biografia di Jacob apparsa in Italia, scritta dal giornalista di estrema destra Enrico De Boccard, fu pubblicata nei primi anni ’70, in un numero speciale di Playmen intitolato L’Anarchia. A Jacob è dedicato un capitolo del libro di Pino Cacucci I ribelli. I brani che seguono — una descrizione del modus operandi di Jacob e il suo proclama letto ai giudici (che circola in rete, ma in una pessima traduzione) — sono invece tratti dal volume di Bernard Thomas Jacob Alexandre Marius, detto Escande, detto Attila, detto Georges, detto Bonnet, detto Féran, detto Duro a morire, detto Il ladro, ed. Anarchismo, 1989 (trad. di Melina Di Marca).
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Una raccolta degli scritti di Jacob, di cui in marzo è uscita la seconda edizione ampliata, è pubblicata dalla casa editrice francese L’Insomniaque.
(V.E.)

IL METODO JACOB

Due libri divennero ben presto i favoriti di Alexandre: l’orario ferroviario, che permetteva le più sottili acrobazie geografiche se solo si sapeva leggere tra le coincidenze; e l’elenco telefonico edito dal Bottin, orgoglio dello snob che vi si vedeva inserito e provvidenza del “recuperatore” a caccia d’indirizzi. Certe descrizioni di castelli facevano sognare. Non rimaneva che andare a verifìcare sul posto.
Jacob aveva dichiarato guerra alle ricchezze, non agli uomini. Assalire una banca, che avrebbe evidentemente reso di più (anche se l’uso dei conti in banca non era ancora generalizzato), significava trovarsi quasi costretti a sfoderare il revolver e forse a sparare su degli innocenti impiegati. Entrare in una casa abitata aveva lo stesso rischio. Non c’era neppure da discutere: Stalin non manifesterà gli stessi scrupoli.
Ognuno in cambio manteneva il diritto di difendersi come meglio credeva contro chi era armato. Alexandre, da parte sua, si dichiarava pronto, se fosse stato il caso, a comportarsi come Etiévant, ex collaboratore del “Libertaire”, che, ricercato dalla polizia per complicità con Ravachol, si recò al commissariato di rue Berzélius, crivellò il piantone con ventidue colpi di coltello, ne trafisse un altro tredici volte, scaricò il suo revolver su un terzo e al processo dichiarò: “Non ci tengo a vivere; la vita per me non è fatta che di miserie. Capisco che ci teniate voi, signori giurati e anche voi, signor sostituto procuratore generale, ma per me è indifferente e io vi chiedo di non accordarmi le circostanze attenuanti.”
In funzione di questi diversi imperativi, egli prese l’abitudine di delegare nella città prescelta un solo uomo “colle mani in tasca”, meno vistoso e meno costoso di un gruppo organizzato. Costui aveva il compito di far scivolare delle zeppe, dei sigilli o dei normali pezzetti di carta, nell’interstizio delle porte dei palazzi più allettanti. Se ventiquattro o quarantotto ore dopo non erano caduti, significava che il locale era, almeno provvisoriamente, disabitato. L’uomo allora spediva a Parigi un telegramma il cui contenuto poco importava, ma che, se firmato “Georges” significava “Venite in due”, se firmato “Louis” “venite in tre”. Inoltre, la prima parola usata indicava, secondo un codice convenuto, il materiale da portare. Non rimaneva quindi, dopo aver verificato ancora una volta i sigilli, che visitare il posto prima di riprendere il primo treno dell’alba o della notte per Parigi.
Un altro dettaglio: una sentinella, a mezzanotte in una strada deserta, poteva farsi notare. Alexandre ebbe dunque l’idea machiavellica e campestre di munirsi di un rospo, quando il tempo lo consigliava. L’animale veniva abbandonato nel canaletto dello scolo dinnanzi alla casa prescelta. Finché quello gracidava, si stava tranquilli: nessun intruso s’avvicinava nei paraggi. In caso contrario, ci si preoccupava di far fagotto.
La scelta della vittima rispondeva ad un ultimo criterio. Nessuna pietà per i forzieri dei tre “parassiti” di Cimourdain: il prete, il giudice, il soldato, né per i responsabili più in vista dell’ingiustizia sociale: i grandi latifondisti, i possidenti e altri profittatori.
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Rispetto, invece, per quelli che s’erano guadagnati il loro denaro lavorando, purché quel lavoro fosse stato costruttivo: medici, architetti, scienziati e scrittori. Fu così che un giorno, a Rochefort, dopo essersi introdotto nella sontuosa dimora di un capitano di fregata, scoprì che in realtà il proprietario era Pierre Loti, pseudonimo di Viaud (famoso scrittore dei primi del ‘900, simpatizzante anarchico, n.d.r.). Vuotò immediatamente i sacchi che aveva già riempito, rimise accuratamente ogni oggetto al suo posto e lasciò in vista un biglietto così concepito: «Entrato da voi per sbaglio, non saprei prender nulla a chi vive della sua penna. Ogni lavoro merita il salario. Attila. – P.S. Aggiungo dieci franchi per il vetro rotto e la persiana danneggiata».
Alexandre stabilì anche che la divisione del bottino sarebbe stata fatta secondo una regola tassativa: ogni “recuperatore” era tenuto a versare alla Causa un minimo del dieci per cento dei propri guadagni e il resto veniva utilizzato per vivere o per preparare le spedizioni successive. Il numero dei partecipanti era generalmente fissato a tre e quindi era press’a poco un terzo della refurtiva che andava alla propaganda. Lui stesso non teneva per sé che il minimo necessario.
Gli inquirenti saranno stupiti di scoprire che quell’uomo che maneggiava milioni, che avrebbe potuto scorrazzare in auto o in De Dion per i viali del Bois, mangiava al risparmio nelle osterie da un franco del boulevard Voltaire e non frequentava gli alberghi internazionali.

IL PROCLAMA DI JACOB

Signori,
Ora sapete chi sono: un ribelle che vive del frutto dei suoi furti. Inoltre, ho incendiato diversi palazzi e ho difeso la mia libertà contro l’aggressione di agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta; la sottopongo alla vostra intelligenza come un problema. Non riconosco a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. Non prego quelli che odio e che disprezzo. Voi siete i più forti; disponete di me come volete. Mandatemi al bagno penale o al patibolo, poco importa. Ma prima di separarci, lasciate che vi dica un’ultima parola (…)
Voi chiamate un uomo ladro e bandito, applicate contro di lui i rigori della legge senza chiedervi se egli poteva essere altro. S’è mai veduto un possidente farsi svaligiatore? Confesso di non conoscerne. Ma io, che non sono possidente né benestante, che non sono altro che un uomo che possiede le sue braccia e il suo cervello per assicurarsi di che vivere, io ho dovuto tenere un ‘altra condotta. La società non mi accordava che tre vie di esistenza: il lavoro, la mendicità il furto. Il lavoro, ben lungi dal ripugnarmi, mi piaceva. L’uomo non può nemmeno fare a meno di lavorare; i suoi muscoli, il suo cervello, hanno una somma di energie da dispensare. Quel che mi ha fatto ripugnare è sudare sangue, e linfa per l’elemosina d’un salario, è creare delle ricchezze di cui sarei stato depredato. Insomma, m’ha fatto ripugnanza darmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha diritto al banchetto della vita.
IL DIRITTO DI VIVERE NON SI MENDICA, LO SI PRENDE.
II furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto che esser rinchiuso in un ‘officina come in un penitenziario, piuttosto che mendicare ciò cui avevo diritto, ho preferito rivoltarmi e combattere palmo a palmo i miei nemici facendo la guerra ai ricchi, attaccando i loro beni. Certo, capisco che avreste preferito soggiacessi alle vostre leggi, che come operaio docile e infrollito creassi ricchezza in cambio d’un salario irrisorio e che, col corpo consumato e il cervello inebetito, me ne andassi a crepare all’angolo d’una strada. In quel caso non mi chiamereste “bandito cinico”, ma “onesto operaio”. Con blandizie mi avreste perfino premiato con la medaglia del lavoro. I preti promettono un paradiso a quelli che riescono ad abbindolare; voi siete meno astratti, voi promettete loro della carta straccia.
Vi ringrazio molto per tanta bontà, per tanta gratitudine, Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariatide!
Da quando sono entrato in possesso della mia coscienza, mi sono dedicato al furto senza alcuno scrupolo. Non ho niente a che fare colla vostra pseudo-morale che esalta il rispetto della proprietà come una virtù, mentre non esistono ladri peggiori dei proprietari.
Ritenetevi fortunati, Signori, che questo pregiudizio abbia messo radici nel popolo, perché è lui il vostro gendarme migliore. Conoscendo l’impotenza della legge o, per meglio dire, della forza, ne avete fatto il più sicuro dei vostri protettori. Ma state attenti, tutto finisce. Tutto ciò che è costruito, edificato colla forza e l’astuzia, forza e astuzia possono demolire.
Il popolo progredisce ogni giorno. Non vedete che, consci di queste verità, consapevoli dei loro diritti, tutti i morti di fame, tutti i pezzenti, insomma tutte le vostre vittime, s’armano di grimaldello, vibrano l’assalto alle vostre case per riprendere le ricchezze che essi han creato e che voi avete loro rubato? Credete che sarebbero più infelici? Io son convinto del contrario. Se ci riflettessero meglio, preferirebbero correre qualunque rischio piuttosto che ingrassarvi gemendo nella miseria. La prigione… Il penitenziario… Il patibolo, si dirà! Ma cosa sono tali prospettive in confronto a una vita bestiale, fatta di ogni sofferenza? Il minatore che strappa il suo pane alle viscere della terra, senza mai vedere la luce del sole, può morire da un momento all’altro, vittima d’una esplosione di grisù: il conciatetti che vaga per i tetti può cadere e ridursi in briciole; il marinaio conosce il giorno in cui parte, ma ignora se ritornerà in porto. Un gran numero di altri lavoratori contrae malattie fatali nell’esercizio del proprio mestiere, si sfinisce, s’avvelena, si uccide per creare per voi; perfino i gendarmi, i poliziotti vostri servi che, per un asso da rosicchiare che tirate loro, trovano a volte la morte nella lotta che intraprendono contro i vostri nemici.
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Cocciuti nel vostro egoismo meschino, rimanete scettici nei confronti di questa prospettiva, vero? Il popolo ha paura, sembrate dire. Noi lo governiamo col terrore della repressione; se grida, lo getteremo in prigione; se brontola, lo deporteremo al bagno penale; se passa all’azione, lo ghigliottineremo! Calcolo errato, Signori, credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro i gesti di rivolta. La repressione, anziché un rimedio o un palliativo, non è che un aggravamento del male.
Le misure coercitive non possono che seminare odio e vendetta. È un ciclo fatale. Del resto, da quando tagliate le teste, da quando gremite le prigioni e i bagni penali, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Parlate. Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Da parte mia, sapevo per certo che il mio comportamento non poteva aver altro sbocco che il bagno penale o il patibolo. Vedete bene che non è stato questo a impedirmi di agire. Se mi sono dedicato al furto, non è una questione di guadagno, di lucro, ma una questione di principio, di diritto. Ho preferito conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo piuttosto che essere creatore della fortuna d’un padrone. In termini più banali, senza eufemismi, ho preferito essere ladro che derubato.
Certo, anch’io disapprovo che un uomo s’appropri colla forza o coll’astuzia del frutto della fatica altrui. Ma è proprio per questo che ho fatto la guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri. Anch’io vorrei vivere in una società da cui il furto fosse bandito. Io non approvo il furto e non l’ho utilizzato che come mezzo di rivolta in grado di combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà privata.
Per distruggere una conseguenza, bisogna prima distruggere la causa. Se esiste il furto, è solo perché c’è abbondanza da una parte e penuria dall’altra, perché tutto appartiene solo ad alcuni. LA LOTTA SCOMPARIRÀ SOLO QUANDO GLI UOMINI METTERANNO IN COMUNE LE LORO GIOIE E LE LORO PENE, IL LORO LAVORO E LA LORO RICCHEZZA, SOLO QUANDO TUTTO APPARTERRÀ A TUTTI.
Anarchico rivoluzionario, io ho fatto la mia rivoluzione, l’Anarchia verrà!