[da Radio Città Aperta (88.9 FM / Roma e Lazio) – 29 Maggio 2004]
In Colombia la situazione è gravissima: centinaia di sindacalisti, militanti di sinistra e semplici cittadini vengono uccisi ogni anno da formazioni paramilitari che acquistano sempre più potere e sono sostenute in maniera quasi esplicita da oligarchie locali e multinazionali straniere. Una situazione che sta diventando ancora più grave a causa del “Plan Colombia”, un piano promosso dall’amministrazione statunitense che militarizza ulteriormente un paese già in ginocchio a causa delle violenze perpetrate ogni giorno da esercito e paramilitari. Abbiamo raggiunto telefonicamente un dirigente della CUT (Central Unitaria de los Trabajadores), che ha voluto rimanere anonimo per evitare ritorsioni. Non si tratta di una precauzione esagerata: nel 1995 abbiamo intervistato il sindacalista Cesar Herrera sulla condizione dei lavoratori delle banane in Colombia. Herrera è stato assassinato nel 1999 a causa delle sue posizioni. Nel 2002 abbiamo intervistato l’esponente indigeno Neburubi Chamarra, che ora è costretto alla latitanza per non fare la stessa fine di Herrera. Il nostro interlocutore ci ha descritto la situazione intollerabile nella quale versano i lavoratori colombiani della Cocacola, e in particolare quelli iscritti al sindacato Sinaltrainal.
Cosa chiedono i lavoratori della Cocacola iscritti al Sinaltrainal?
In primo luogo chiedono che la Coca-Cola cambi le sue politiche: la politica della Coca-Cola prevede una serie di ristrutturazioni, che si realizzano prima di tutto flessibilizzando completamente la manodopera e impedendo che si facciano contratti di lavoro a lungo termine, per fare in modo che vengano invece fatti contratti temporanei che permettono che l’impresa possa sostituire continuamente la manodopera.
Una delle modalità meno costose ottenute dall’impresa prevede che i lavoratori si associno in cooperativa in modo che la Coca-Cola possa pagare i suoi lavoratori a seconda del lavoro realizzato, e questo riduce enormemente i salari degli operai.
A tal punto che oggi un lavoratore di questo tipo guadagna 45 centesimi di dollaro all’ora, un compenso molto vicino al salario più basso del mondo, che è quello cinese con 30 centesimi di dollaro.
Il sindacato chiede che questo tipo di flessibilità finisca, che tutti i lavoratori abbiano contratti stabili e che i salari siano decenti, ovvero salari che permettano ai lavoratori di vivere bene.
In secondo luogo il sindacato chiede che l’impresa elimini le sue politiche di delocalizzazione degli impianti e quindi la soppressione di tutta una serie di fabbriche che tradizionalmente hanno operato in Colombia.
L’impresa ultimamente, all’inizio del 2004, ha chiuso undici impianti.
Il sindacato esige che questi impianti rimangano aperti ,che i lavoratori che stavano lì continuino a lavorare, e che si mantengano quelle strutture anche perché i municipi e le regioni dove si trovano possano continuare ad avere delle entrate, attraverso le tasse e attraverso quelli che potremmo definire i “benefici economici derivanti dall’attività industriale dell’impresa”.
In terzo luogo il sindacato esige che finisca la persecuzione verso i sindacati, che nella Coca-Cola è molto forte. Coca-Cola ha violato permanentemente il diritto a sindacalizzarsi. I lavoratori non sindacalizzati che hanno un contratto a tempo indeterminato vengono obbligati a rinunciare alle convenzioni collettive di lavoro. Chi viene assunto nella fabbrica viene obbligato a non relazionarsi con i lavoratori sindacalizzati, che vengono isolati completamente. E se un lavoratore vuole comunque parlare con un lavoratore sindacalizzato l’impresa immediatamente gli sospende il contratto di lavoro. Il sindacato esige anche che la Coca-Cola rispetti le normative minime sul lavoro in vigore nel paese, che sono state sancite dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Coca-Cola viola sistematicamente queste norme: perché non rispetta le convenzioni collettive, perché opera in modo arbitrario violando tutti i passaggi determinati dalla legge colombiana, e infine perché viola tutti i principi stabiliti al livello internazionale sulla libertà sindacale.
Molti dirigenti del sindacato Sinaltrainal sono stati uccisi: quanti sono?
Sono stati uccisi nove dirigenti, in momenti differenti e a seguito di azioni differenti. Altri sono dovuti fuggire e altri sono stati incarcerati e torturati.
Ci sono stati lavoratori sequestrati dai paramilitari e infine ci sono state pressioni sulle famiglie dei dirigenti. Gli ultimi due casi riguardano un figlio del compagno Limberto Carranza, dirigente nazionale della sezione di Barranquilla, e la famiglia della sposa del presidente della sezione di Bucaramanga. Il primo è stato sequestrato dai paramilitari, torturato e abbandonato in una stalla nella città; la famiglia della sposa del compagno di Bucaramanga è stata massacrata ad Aprile.
E’ una politica violentissima che si prolunga dal 1987 fino ad oggi. Un elemento importante è che quasi tutte le morti, quasi tutti gli incarceramenti e gli sfollamenti operati dai paramilitari sono stati commessi nel mezzo di negoziazioni con l’impresa.
Cosa può fare il sindacato per cambiare questa situazione? Dopo lo sciopero della fame di Marzo, che ha avuto una grande visibilità mediatica, la Coca-Cola non ha comunque fermato le violenze. Cosa pensate di fare ora?
Il sindacato, da un po’ di tempo, sta realizzando una serie di azioni per ottenere che la compagnia modifichi le sue politiche. Queste azioni non devono essere azioni isolate: è necessario un grande appoggio a livello nazionale e internazionale.
Stiamo portando avanti una politica di denuncia a tutto il mondo; abbiamo promosso tre udienze: una ad Atlanta, una a Bruxelles e l’altra a Bogotà. In queste udienze diverse organizzazioni, ONG e movimenti popolari hanno condannato la Coca-Cola per la sua politica intransigente e per la sua politica che viola i diritti fondamentali del lavoratore, e in generale i diritti umani.
Stiamo inoltre promuovendo un boicottaggio mondiale contro la Coca-Cola.
E ci sono state anche altre forme di protesta, come ad esempio lo sciopero della fame, che ha comunque ottenuto che dopo una decisione già presa, quella di chiudere gli impianti ,approvata e permessa in maniera unilaterale dal governo colombiano ,si aprisse un tavolo di negoziazione alterna tra sindacato e impresa, con l’obiettivo di ricollocare i lavoratori.
Oggi possiamo dire che Coca-Cola ha preso sì la decisione concreta di chiudere gli impianti, ma non ha potuto prendere una decisione rispetto ai lavoratori, che si sono sostenuti fra loro e che oggi continuano a rimanere dentro gli stabilimenti realizzando attività di altro tipo. La Coca-Cola finora non ha potuto cacciarli. Entriamo quindi in una nuova fase di negoziazione dove abbiamo l’obiettivo che i lavoratori vengano ricollocati, che non perdano il loro posto di lavoro, e che possano continuare a lavorare per Coca-Cola nelle migliori condizioni possibili, anche se aderendo al sindacato.
I paramilitari in Colombia non uccidono solo i sindacalisti del Sinaltrainal. Uccidono anche i lavoratori di altri settori e sindacati, uccidono gli indigeni… Qual è la situazione sociale che produce questa violenza generalizzata?
Il problema dei paramilitari c’è da molti anni. Sono circa trent’anni che il progetto paramilitare si sta consolidando. Esiste un’alleanza tra proprietari terrieri, industriali, banchieri, grandi burocrati dello Stato, partiti politici tradizionali, militari, membri delle forze di sicurezza dello Stato e nordamericani. Questi soggetti, uniti ai narco-trafficanti, hanno disegnato un progetto di aggressione permanente contro la popolazione che ormai in Colombia è molto esteso. E’ un attività che si sta sviluppando su tutto il territorio nazionale.
Agiscono in due maniere: la prima è la guerra selettiva, ovvero l’assassinio dei dirigenti politici e sociali di sinistra. La seconda è la generalizzazione del terrore, quindi massacri, che sono commessi in molti luoghi della geografia colombiana, senza nessuna motivazione apparente. Questi massacri indiscriminati servono a seminare il terrore nella popolazione perché questa non si organizzi e non protesti. E’ una specie di azione preventiva, tenendo conto che comunità intere si sono organizzate contro l’operato dello Stato e contro il neoliberismo, che in Colombia ha prodotto un livello di povertà estrema.
Trenta milioni di colombiani vivono in povertà e dodici milioni nella miseria assoluta, quindi morendo di fame. La reazione della popolazione è sempre più grande e c’è il tentativo costante di organizzarsi per rispondere agli oltraggi commessi, soprattutto dalle multinazionali e dall’oligarchia colombiana.
Queste due forze organizzano i paramilitari per evitare che la popolazione arrivi a livelli ancora più grandi di organizzazione nel confronto contro le classi sociali che dominano il paese in maniera assoluta.
Il paramilitarismo opera con un’impunità assoluta, con una mobilità completa nel paese ,e colpisce in accordo con gli ordini impartiti dai loro capi politici, che sono le oligarchie e le multinazionali, e dai loro capi militari ,che sono gli alti comandi militari della Repubblica, e che sono direttamente implicati nel progetto.
I paramilitari compiono una funzione antisovversiva, in linea con la dottrina per la sicurezza nazionale applicata dai nordamericani, che può essere riassunta nella frase “togliere l’acqua al pesce” ,ovvero distruggere qualsiasi base sociale e qualsiasi legame possa avere la popolazione con le forze insorgenti della Colombia per impedire che queste forze si rafforzino, crescano e abbiano un appoggio politico e sociale.
Questo è il programma dei paramilitari, e secondo questo programma colpiscono indiscriminatamente qualsiasi movimento, che sia sindacale, popolare, contadino o studentesco, basta che sia a sinistra della sinistra socialdemocratica.