di Sbancor
No. Non manifesteremo per gli ostaggi. E non manifesteremo nemmeno per il gruppo che li tiene prigionieri!
Se c’e’ uno slogan da lanciare domani e’ “NOT IN OUR NAME!”.
Che vuol dire “non in nostro nome”.
Non in nostro nome e’ stata decisa questa guerra che per i nostri parlamentari neanche e’ una guerra, nonostante i caduti da entrambi le parti. (Ricordatevelo quando votate o quando, meglio ancora, vi astenete!)
Non in nostro nome sono stati rapiti i “soldati di ventura” italiani (nonostante cio’ che dica Magdi Allam che meglio farebbe ad occuparsi della democrazia nel “suo” paese”, l’Egitto).
Non in nostro nome.
Chiunque pensi di collegare il solito “videoclip” sui prigionieri alle manifestazioni del 4 giugno e’ uno sporco provocatore.
Chiunque pensi che il popolo della pace abbia qualcosa a che fare con i “signori della guerra” iracheni e’ peggio di un provocatore.
Chiunque domani non si atterra’ ai principi della resistenza senza violenza, e’ semplicemente un cretino. E come tale sara’ trattato.
La presa di ostaggi e le trattative con i prelati islamici non sono nel costume dei movimenti. Ne’ in quello dei rivoluzionari. Sono piuttosto un agire tipico dei servizi segreti di mezzo mondo.
La resistenza irachena e’ la materiale opposizione all’occupazione, e’ la resistenza delle donne, dei bambini degli uomini a un potere che sentono ed e’ ostile e nemico. Guai confonderla con i gruppetti armati che giocano con gli ostaggi il “risiko del potere”.
Non in nostro nome, perche’ noi – il movimento – siamo un’altra cosa. Siamo quelli che a Seattle iniziarono a contestare il neoliberismo. Siamo quindi americani. Siamo quelli che Quebec City, a Praga, a Goteborg, a Genova abbiamo continuato a contestare il potere dei pochi e lo sfruttamento dei molti. Siamo quelli di Mombai, e quindi siamo dei “paria” indu’. Siamo i black bloc, i cattolici, gli islamici, gli ebrei, i zoroastriani. Siamo i boy scout, gli anarchici, i disobbedienti. Siamo quelli dei centri sociali. Siamo africani, asiatici, latino-americani, cinesi, siamo tutti i migranti del mondo.
Siamo esperti di informatica. Siamo ecologisti. Siamo precari. Siamo operai dell’ATM di Milano. Siamo contadini francesi. Siamo sin tierra brasiliani, siamo gli indiani della Patagonia (estinti), siamo il popolo della Bolivia in lotta. Siamo quelli che hanno contestato la discarica nucleare in Basilicata.
Siamo dunque terroni. Siamo ceceni. Siamo russi. Siamo afghani. Siamo cognitariato. Siamo analfabeti. Siamo gente a cui hanno provato in tutti i modi di affibbiare una etichetta. Siamo studenti iraniani in lotta contro gli Ayatollah. Siamo tutto quello che i governi, i preti di ogni religione, i gruppi del terrore non potranno mai comprendere.
Siamo cio’ che siamo e che sapremo essere. Anche domani, a Roma.