di Luca Masali
Qual è la differenza tra la Guerra di Troia e una rissa da osteria? Nessuna, risponde senza esitazioni l’esecrabile Wolfgang Petersen, regista del più indigesto peplum mai confezionato a memoria d’uomo. Pur di dimostrare il becero assunto, il regista spoglia Iliade e Odissea di ogni contenuto favolistico, epico e divino per lasciare quello che a lui deve essere sembrato l’aspetto sostanziale: i cazzotti, appunto. Quelli non mancano davvero. Tanti e noiosi. Far duellare Ettore (Eric Bana) e Achille a colpi di katana giapponese e mossette di kung-fu, droga preferita del cinema americano dai tempi di Matrix, dev’essere essere sembrato eccessivo pure al Petersen. Che però non è riuscito inventarsi niente per sostituire i latrati cinesi seguiti dalle coreografiche sventole, così abbiamo un Achille (Brad Pitt pompato) che fa zompi come quelli di Kabir Bedi nei telefilm di Sandokan, perfetti per il ruolo di completo imbecille che la sceneggiatura gli ha cucito addosso.
Un Achille laico, che invulnerabile non è; se qualcuno gli chiede se per caso è vero che non può essere ucciso, il biondo (orrore) eroe lo guarda con aria di disprezzo e risponde “eh già, secondo te se fossi immortale sarei così scemo da girare in armatura, col caldo che fa?”. Ragionamento che non fa una piega. D’altronde il fascinoso Achille è un uomo coi piedi per terra, agli dèi non ci crede, nemmeno alla mamma Teti, che in una manciata di secondi appare sotto forma di vecchia signora un poco svampita a dirgli frasette tipo “guarda che se vai a fare la guerra coi tuoi amichetti finisce che ti fai male”. Con una divinità simile in famiglia, in effetti sarebbe diventato ateo pure il vecchio Zeus. Di altri dèi non se ne vede l’ombra per tutto il film. E come si può rifare l’Iliade senza gli dèi che usano gli eroi a mo’ di pedine per il loro role game celeste? Non si può, infatti. E Troy con l’Iliade non centra un fico secco, mancano gli dei e mancano i mostri di mare che attaccano Laocoonte. Anzi, manca pure Laocoonte. E manca Cassandra, l’infelice che unica tra i troiani ebbe abbastanza sale in zucca da rendersi conto che quel cavallo di legno sembrava un po’ sospetto, meglio bruciarlo sulla spiaggia e non pensarci più. Il ruolo di Cassandra passa allora al belloccio Paride, e giustamente nessuno gli dà retta visto che per tutto il film non ha combinato altro che casini, rivelandosi un idiota formidabile tanto quanto il padre Priamo; e, almeno su questo punto, Petersen non tradisce il povero Omero.
A ben guardare manca anche Achille, nonostante l'(eccessiva) presenza in scena del Brad Pitt ossigenato. Perché l’Achille che ricordavamo, quello dell’ira funesta, era sì un mercenario attaccabrighe senza freno alcuno, ma era anche una figura epicamente ambigua, a partire dall’ambiguità sessuale. Il Brad Achillitt mi diventa invece un macho sciupafemmine, con l’idea fissa dell’immortalità delle sue proprie gesta, visto che il regista si è dimenticato dell’immortalità del corpo. Un fessacchione capace di ire temibili come quelle di un marito ubriacone: la manifestazione più grande della collera dell’eroe Achillitt ce l’ha quando Ettore per sbaglio gli accoppa il cugino (solo cugino, non suggerito amante come era nelle intenzioni di Omero, visto che il nostro eroe è macho garantito al 100%). Ma tutta l’ira “che infiniti addusse lutti agli Achei” si risolve in un pugno in un occhio tirato all’incolpevole schiava Briseide. Ouch. Che comunque lo ama tanto lo stesso e alla fine si riprenderà la rivincita accoppando l’immondo re Agamennone (Brian Cox), ma guarda, questa non ce la ricordavamo proprio.
Il resto della pellicola, spogliata di eroi che siano almeno presentabili (Ulisse/Sean Bean fa ridere tanto è insulso, Elena/Diane Kruger è una figa di legno senza un briciolo di fascino, Priamo ha il cervello in pappa e sembra pronto al pannolone per incontinenti, Menelao è un cretino, Aiace sembra un cavernicolo subnormale, si salvano solo un Ettore fin troppo pacifista, una dignitosa Polidora/Siri Svegler e una splendida Briseide/Rose Byrne, unici tre personaggi con un minimo di spessore) si trascina per 163 insostenibili minuti. Le noiose scazzottate fanno un fracasso tale da svegliare gli spettatori che dormicchiano beati negli intervalli intercalati da alcuni dei dialoghi più banali della storia del cinema.
Finalmente Ulisse, talmente scialbo che ogni volta che entra in scena qualcuno lo chiama per nome, per ricordare ai tapini in sala che quello lì non è un inserviente capitato per caso nell’inquadratura, vede un soldato che scolpisce un cavallino di legno e gli viene l’ideuzza attesa per dieci anni e 163 minuti.
Gli achei entrano in Troia e ammazzano tutti quanti; Achillitt, che come dicevamo non è immortale, si becca la freccia di Paride nel tallone. Non essendoci dèi all’orizzone, non è un Apollo giustamente incazzato a guidare la mano dello sciocco principino troiano bensì la conclamata incapacità d’arciere di quest’ultimo a far sì che il dardo si conficchi proprio nel fatale tendine, lasciando comunque ad Achillitt il tempo di salvare Briseide da Agamennone, permettere che quest’ultima sgozzi il re miceneo (ma pensa te), e prodursi in un monologo pre-mortem tanto prolisso quanto insignificante. Intanto Elena se la batte con la moglie di Paride attraverso un passaggio segreto, dove incontra un tale con la faccia da scemo mai apparso prima nel film: “Ciao come ti chiami, io sono Elena”. “Piacere, io sono Enea”. “Piacere mio. È di qua che si scappa?” titoli di coda e sospiro liberatorio del pubblico. Peccato che Ulisse non abbia detto ai suoi egei “Coraggio, ragazzi, ai remi: in un paio di giorni arriviamo a casa”, sennò il delirio di Petersen per lo meno si sarebbe ritagliato un posticino nell’Olimpo dei film più cialtrone del secondo millennio.