La sinistra non comunista in esilio
di Valerio Evangelisti
Le fotografie dei primi fuoriusciti politici italiani, sfuggiti alle leggi eccezionali del 1926, ci mostrano gruppi di anziani signori dall’espressione seria e dagli abiti un po’ logori, impegnati a tenere vivi brandelli di passato nei retrobottega delle osterie o tra i tavolini dei caffè dei boulevards parigini. Si intuisce che il loro mondo è un mondo piccolo.
“Una volta alla settimana”, racconta Angelica Balabanoff, “l’esecutivo del partito si riuniva in uno dei caffè più economici di Parigi, Dato che la maggior parte di noi erano disoccupati, dovevamo fare bene attenzione quando ordinavamo il cibo: a volte si doveva scegliere tra la colazione e la tariffa del taxi (…). Una volta al mese, la domenica pomeriggio, i membri ordinari si riunivano in una stanza dello stesso ristorante, e in quelle occasioni le assemblee diventavano così rumorose che il padrone del locale saliva di sopra per vedere cosa stesse accadendo”.
La sorte di questi vecchi sovversivi, costretti al ruolo pittoresco e umiliante dei rivoluzionari da trattoria e rimasti a capeggiare partiti che potevano trovare ospitalità in una sola stanza, è la più efficace dimostrazione di come la storia del movimento operaio sia una linea continuamente spezzata, irta di fratture, cancellazioni, improvvise obsolescenze, decessi senza resurrezione.
Nel corso di un processo durato quattro anni, ma che ha avuto il proprio epilogo nell’arco di pochi mesi, i grandi leaders del movimento operaio italiano non comunista – Turati, Treves, la Balabanoff, Borghi, Modigliani – hanno assistito alla collettiva e rapida dissociazione dai partiti della sinistra dell’intera massa dei loro ex aderenti. Fenomeno che la brutalità sistematica del fascismo non è di per sé sufficiente a spiegare» E si sono ritrovati in esilio alla testa di vuoti involucri che il pur consistente proletariato emigrato stanziato nelle pampas argentine, nei cantieri parigini, nelle fattorie della valle del Rodano, negli slums newyorkesi non può in alcun modo colmare. E nemmeno lo vuole, proteso com’è all’integrazione in quella che ogni giorno che passa sempre più gli appare come una nuova patria.
Nel 1927 il PSI conta un paio di migliaia di iscritti, di cui solo 150-200 effettivamente attivi; il Partito repubblicano ha poco più di 600 aderenti, destinati presto a dimezzarsi; il Partito socialista unitario qualche centinaio, come pure l’Unione anarchica italiana; i raggruppamenti minori – anarcosindacalisti, gruppi comunisti dissidenti – ancora meno. E non si tratta di militanti come quelli di un tempo. Per molti, il solo legame col proprio partito è costituito dalla tessera, dall’abbonamento a un periodico e da quote di iscrizione versate assai saltuariamente. Oltre alle riunioni domenicali in qualche caffè di periferia, di cui si può sospettare il non altissimo livello.
Le cifre citate sono condannate a una progressiva erosione» Seguendo l’evoluzione del PSI massimalista, che anche dopo la scissione operata nel 1930 da Pietro Nenni resta, per qualche anno anno ancora, uno dei più consistenti raggruppamenti di fuoriusciti, troviamo che conta 1500-2000 soci nel 1930, 684 nel 1934, 600 nel 1939. L’oscillazione delle cifre fa comprendere che si tratta di una base tutt’altro che sicura, composta in misura soverchiante di simpatizzanti ispirati a motivi affettivi. Come del resto avviene in tutti gli altri partiti. Inutile aggiungere che, a parte i grossi aggregati di Parigi, di Zurigo e di Londra, la consistenza numerica delle organizzazioni di sinistra va suddivisa per tre continenti e una molteplicità di paesi. E che gli iscritti rimasti in Italia assommano a qualche decina di volonterosi, privi di ogni possibilità di comunicazione continuativa con le direzioni trasferite all’estero.
I dirigenti dei gruppi antifascisti, nei primi anni dell’emigrazione, sembrano non rendersi del tutto conto della realtà rimpicciolita con cui devono confrontarsi. Lo si desume da tre elementi. In primo luogo, la tendenza a riprodurre all’estero su scala ridotta le medesime forme organizzative che avevano in patria, ricreando federazioni territoriali a suo tempo modellate sulle circoscrizioni elettorali italiane e dando vita a sezioni comprendenti un numero irrisorio di soci. In secondo luogo, l’evidente tentazione di pensare la propria condizione come assolutamente provvisoria, sebbene nessun dato del reale conforti tale supposizione. Illusione che fa sì che il primo antifascismo paia assillato dalla preoccupazione di preservare la propria identità, da riproporre all’Italia in tempi migliori. E infatti vediamo, nei primi anni d’esilio, i partiti della sinistra accentuare addirittura i .propri tratti caratteristici contro ogni rischio di appannamento, in una sorta di deformazione iperrealistica.
I repubblicani rinverdiscono le proprie radici risorgimentali e richiamano in vita la “Giovane Italia”, gli anarchici aderiscono a progetti di spedizione armata che richiamano alla mente la banda del Matese o si dedicano agli attentati individuali, i socialisti massimalisti divengono più intransigenti che mai e i socialisti unitari più gradualisti che mai. Tutti, indistintamente, parlano e agiscono come se la loro forza fosse rimasta intatta e come se la vittoria fosse vicina per spontaneo indebolimento del nemico.
II terzo elemento consiste nel ristagno delle iniziative di lotta, che si prolunga anche dopo la creazione della Concentrazione antifascista (1927). Nei primi anni dell’esilio, l’azione della sinistra è sostanzialmente limitata all’attività assistenziale a favore dei profughi, all’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica dei paesi ospitanti e alla propaganda per mezzo di conferenze e stampati. Questi ultimi hanno per destinatari essenzialmente gli emigrati. Solo di tanto in tanto vengono inviati in Italia a mezzo di corrieri, o spediti in plichi anonimi a ex simpatizzanti, a perfetti sconosciuti o a gerarchi fascisti – col risultato di compromettere i primi, terrorizzare i secondi e spingere i terzi a raddoppiare la vigilanza.
Tale passività – interrotta solo dalla nascita di Giustizia e Libertà – trova spiegazione nella accennata fiducia in un crollo spontaneo del regime fascista, cui nessuna forza pare sottrarsi. Fiducia che dimostra come l’illusione ottica dei fuoriusciti sia duplice: l’incapacità di cogliere le proprie dimensioni rimpicciolite è complementare alla sottovalutazione delle dimensioni dilatate dell’avversario.
In ogni partito antifascista l’errore percettivo assume una fenomenologia diversa. I socialisti riformisti, in un inatteso sussulto di marxismo deterministico, si mostrano convinti che il grande capitale eserciti sul fascismo un controllo assoluto, e dopo averlo usato per i propri fini di restaurazione sia pronto a sbarazzarsene non appena si accorga della sua scarsa funzionalità per le proprie mete di profitto. Al tempo stesso, in un prevedibile sussulto di antimarxismo interclassista, i riformisti rifiutano di identificare nella classe operaia o nel proletariato il soggetto antagonista destinato ad assumere il potere dopo la caduta del regime. Ma non potendo nemmeno individuarlo nei vecchi ceti dominanti, pongono al centro del conflitto un soggetto immateriale tutto da costruire, fatto non di persone ma di “interessi” non meglio specificati.
“Già comincia la parabola discendente”, recita una mozione del PSULI (Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani) del dicembre 1927. “L’oligarchia, sottratta al libero democratico controllo di tutti gli interessi storicamente vitali, li tradisce e li opprime tutti spingendoli alla ribellione. Le libertà democratiche riappaiono come la premessa e la garanzia della difesa dei singoli interessi, sia di quelli che tramontano, sia di quelli che domineranno. E all’isolamento dittatorio del regime risponde ormai una ricerca crescente di intese per conquistare finalmente alle genti italiche un patto di convivenza politica che, nella ripristinata civiltà della lotta delle classi, assicuri il progresso umano degli individui e l’ascensione sociale delle masse”.
Benché invero confusissimo, il brano lascia intuire che meta dei riformisti è un ritorno all’ordinamento politico prefascista, nel cui ambito le classi subalterne possano riprendere la loro graduale ascesa verso l’emancipazione. Per cui la scelta dei mezzi d’azione non si pone nemmeno, essendo semmai posposta alla caduta del fascismo, gettato in un canto dai suoi padroni come una marionetta spezzata. Nel frattempo, è bene non turbare le classi privilegiate (gli “interessi che tramontano”), ad esempio evitando di attaccare direttamente la monarchia, e alleare l’antifascismo al vasto arco di forze ansiose di liberarsi del regime dopo avere contribuito alla sua edificazione. Posizione che solleva una vasta indignazione tra i fuoriusciti, e che per due anni confina i riformisti, pur egemoni nella Concentrazione antifascista, in una posizione moralmente isolata.
Completamente diversa è l’illusione ottica dei rivoluzionari (anarchici e massimalisti), che pure sottovalutano le capacità di consolidamento del regime almeno quanto le correnti gradualiste. Anche per loro il fascismo crollerà, ma non motu propio e non per iniziativa del capitale, I fattori oggettivi di crisi economica e morale provocano indebolimento, non morte. Quest’ultima verrà invece dal moto semi spontaneo delle forze proletarie, che la crisi avrà risvegliato da un momentaneo letargo.
“In mezzo alla calma apparente”, afferma un manifesto dell’Unione anarchica italiana del 1926, riproposto senza mutare una virgola nel 1934, “malgrado il mentito consenso, vediamo il malcontento che dilaga, sentiamo fremiti repressi che annunziano la tempesta. L’ora della riscossa si avvicina. La forza degli attuali dominatori è forza apparente. II regime è troppo contrario ai sentimenti reali della popolazione, troppo in contrasto con lo spirito dei tempi, troppo minato da interna corruzione per poter durare. Esso crollerebbe alla prima energica scossa. Bisogna prepararsi e tenersi pronti a profittare della prima occasione favorevole, o a provocarla”.
Con qualche lieve correzione o spostamento d’accenti, brani simili a quello citato sono reperibili in tutta la pubblicistica dei rivoluzionari fuoriusciti estranei alla metodologia leninista. Certo, non è affatto scontato che gli estensori di tanti ruggenti manifesti credano davvero in ciò che scrivono. Che siano, cioè, effettivamente convinti dell’esistenza di malumori diffusi e tanto acuti da sfociare in insurrezione spontanea contro il fascismo. Si sa, la propaganda si adagia spesso sugli stereotipi. Ma proprio perché si tratta di propaganda dovrebbe avere un interlocatore. Ed è qui che si manifesta la percezione alterata dei rivoluzionari.
II loro interlocutore è un ectoplasma, puro prodotto della fantasia. Un proletariato sempre pronto all’azione, fedele al proprio partito anche quando questo non esiste più, fremente nella gabbia entro cui l’hanno costretto. Un proletariato inesistente, e dunque risolutamente muto.
Anarchici e massimalisti paiono dunque vittime del più letale errore che un rivoluzionario possa commettere. Presupporre una massa operaia che perennemente lotta, ruggisce, avanza, preme, guidata da una volontà illimitata e da una memoria illimitata. Illusione che, oltre a paralizzare l’azione, avviluppa il sovversivo in una maglia di luoghi comuni, non consentendogli né di sopravvivere al riflusso, né di interpretare in termini costruttivi le ragioni della sconfitta.
Quest’ultima forma di occlusione visiva, solo in parte comune ai riformisti, trova la sua più limpida espressione in queste righe della Balabanoff:
“In Italia, il fascismo come idea non trionfò mai. Ci fu soltanto una vittoria dell’olio di ricino, del pugnale, della bomba. La fede dei lavoratori nel socialismo e il loro odio per il fascismo rimasero intatti”.
E’ una visione non solo semplicistica – cui la stessa Balabanoff, in altri interventi, dimostra di non credere del tutto — ma anche priva di sbocchi. Se infatti l’affermazione del fascismo è stata mera questione di rapporti di forza, solo una forza dispiegata può rovesciare il regime. Ma se il movimento operaio non possedeva sufficienti capacità d’urto e di reazione al momento del suo massimo sviluppo, non si vede come possa accumulare tanta energia allorché si trova smembrato in minuscole formazioni senza peso né consenso. Di qui la speranza in un moto spontaneo che risolva la contraddizione, e la fiducia – più esibita che sentita – in una classe operaia mantenutasi viva sotto le ceneri delle sue organizzazioni.
Coltivando posizioni del genere, la sinistra rivoluzionaria non leninista dimostra di non cogliere affatto due elementi fondamentali della restaurazione in corso. Il primo è che la controrivoluzione fascista ha usato, oltre all’arma scontata della violenza, quella più sottile della cultura. Ha vinto, cioè, non solo reprimendo gli avversari, ma anche propugnando una serie di valori, di comportamenti, di modi d’essere e di pensare, globalmente alternativi a quelli della sinistra, organici e saldamente ancorati alle caratteristiche strutturali del periodo. Che si tratti di una cultura retriva e poco originale è certo; tuttavia il fascismo è riuscito a fare identificare in essa il “nuovo”, con ciò contagiando ampiamente le giovani generazioni. Stando così le cose, ogni anno trascorso in un silenzio forzato significa, per la sinistra, un legame culturale sempre più debole con la realtà del proprio paese, e una sempre minore probabilità di moti spontanei ispirati a ideali che progressivamente scompaiono dalla memoria collettiva.
Il secondo elemento è che il regime sta attivamente lavorando allo smantellamento delle stesse basi strutturali del movimento operaio. Operazione fondamentale è, in questo senso, la già avviata trasformazione dei braccianti – referente tradizionale delle forze socialiste – in piccoli e piccolissimi proprietari. Ma anche il nuovo peso accordato al terziario burocratico va nello stesso senso, così come l’introduzione intensificata del lavoro a catena nella grande industria settentrionale. Sono gli stessi soggetti sociali su cui la sinistra ha, in un lungo percorso storico, modellato i propri programmi che vengono sgretolati, sottraendo senso e risonanza alla sloganistica tradizionale.
Simile situazione di impotenza colpisce le correnti rivoluzionarie assai più duramente di quelle riformiste. Infatti i gradualisti – che interpretano la vittoria fascista non come questione di semplice violenza, ma come frutto delle condizioni economiche, politiche e soprattutto morali del dopoguerra – rinunciando a usare la forza restano coerenti con se stessi. Invece, per i rivoluzionari, inazione significa rinuncia a una strategia e perdita dei propri connotati, affidati a parole e slogan tanto più vuoti quanto più reboanti.
Si è accennato a come gli anarchici non si rassegnino del tutto all’inattività, e attraverso gli attentati individuali – pur privi di efficacia come tutti i gesti sprovvisti di senso di classe – mantengano in vita quanto più possono della propria immagine. Non così i massimalisti, condannati a parlare di violenza senza praticarla. A ciò si oppongono tre fondamentali handicap, scaturenti dalla storia stessa dei movimenti rivoluzionari italiani.
Il primo è l’assenza, rilevata da molti autori, di una tradizione di lotta clandestina nel passato del Partito socialista. Anche quando, tra il 1919 e il 1922, i socialisti di talune località accedono a costituire corpi armati (Guardie rosse, milizie municipali, ecc.), questi assumono un prevalente carattere di servizio d’ordine, né rinunciano in alcun modo ad agire alla luce del sole. In ciò, i massimalisti sono svantaggiati nei confronti dei repubblicani, nella cui memoria vivono le cospirazioni risorgimentali e l’attività delle società segrete. Invece il socialismo italiano è nato rinunciando, con Andrea Costa, a ogni ipotesi di azione cospirativa, e non gli è facile invertire una scelta tanto profondamente iscritta nel suo codice genetico.
Il secondo handicap è costituito da un freno di natura, per così dire, etica. Tra le ragioni che hanno impedito alla sinistra rivoluzionaria prefascista di reggere all’offensiva delle camicie nere c’è l’impossibilità psicologica non già di esercitare violenza (molta parte della sua storia ne è intessuta), bensì di condurre tale esercizio fino agli estremi limiti. E ciò perché la weltanschauung coltivata nei militanti socialisti, anche negli anni crudeli del dopoguerra, non prevede né il cinismo né lo scatenamento di istinti omicidi, ma al contrario è tutta intessuta di temi solidaristici, di pulsioni fraterne, di moventi di elevato contenuto morale. Elementi che, anche nell’uso della forza, rendono la sinistra incline ad atteggiamenti quasi esclusivamente difensivi, e dunque – come noterà Emilie Lussu nella sua Teoria dell’insurrezione, riferendosi al socialismo austriaco -impotente a fronte di una violenza sistematica liberata da ogni remora di coscienza. Ciò inibisce ai rivoluzionari in esilio l’adozione di quelle poche forme di lotta violenta consentite in una condizione di assoluta inferiorità, essendo del tutto estranee al loro modo di intendere l’azione rivoluzionaria.
Il terzo handicap risiede nella difficoltà a ipotizzare modalità di lotta che prevedano l’iniziativa di una élite di combattenti risoluti. Sentendosi portatori della volontà di una classe, i massimalisti non intendono agire se non con quella classe, in ciò coerentissimi con la propria ideologia. Non a caso, il più frequente rimprovero che rivolgono ai bolscevichi, specie dopo il 1923, è di essersi sovrapposti al proletariato, tiranneggiandolo invece di interpretarne i bisogni. La funzione di avanguardia da loro concepita è quella di avanguardia interna. Ed è più facile ai comunisti, che prevedono la nozione di avanguardia esterna, che ai socialisti, che non la prevedono, gestire un partito minuscolo come se fosse un partito di massa. I socialisti non possono muoversi se il proletariato non si muove – atteggiamento che li condanna a non anticipare mai un movimento, ma a seguirne evoluzioni e involuzioni.
Con la nascita di Giustizia e Libertà, nel 1929, quest’ultimo preconcetto è il primo a essere posto in discussione. Nell’elaborazione di Carlo Rosselli, ma soprattutto di Emilio Lussu, è l’élite a rivestire il ruolo di agente rivoluzionario, anche se è il popolo — intendendo con questa espressione proletariato e ceti medi – il protagonista ultimo dell’insurrezione,
“Senza gli eserciti regolari”, scrive Lussu nel 1932, “oggi, le guerre sarebbero una carnevalata, Parimenti, senza una minoranza insurrezionale, avanguardia audace e organizzata, le insurrezioni sarebbero dei castelli di carta”. E già nel 1930, quando Giustizia e Libertà è agli esordi, elabora un piano basato, secondo il rapporto di una spia rintracciato da Manlio Brigaglia, sull’azione di gruppi di una decina di uomini “risoluti e votati alla morte, che a un determinato segnale, contemporaneamente, in tutte le città uccidano gli esponenti del Regime, sia governativi che di partito, creando in tal modo un generale panico, che deve permettere l’impossibilità immediata di ordini, ma facilitare una subitanea mossa popolare che possa divampare prima che le forze armate del Regime possano essere impiegate”.
Pare, da testimonianze, che le concezioni di Carlo Rosselli sull’élite armata differissero da quelle di Lussu, e fossero più prossime a quelle di intonazione cospirativa e di ascendenza risorgimentale care ai repubblicani. Sta di fatto che, nell’una e nell’altra variante, la teoria insurrezionale adottata da GL – e molto più tardi sistematizzata da Lussu nel citato studio, che però deve essere considerato opera sua propria, più che patrimonio dell’intero movimento – presenta tre caratteristiche salienti.
La prima è di prevedere quella funzione di avanguardia rivoluzionaria esterna che i socialisti, come si è visto, sono restii ad accettare. Tale funzione però differisce da quella contemplata dai comunisti, derivante direttamente dalla teoria e dalla prassi bolsceviche. L’avanguardia esterna di matrice leninista necessita di una legittimazione di classe, che le deriva dall’essere a contatto con gli strati più evoluti del proletariato – quelli, cioè, che meglio manifestano e sanno esprimere la volontà collettiva di tutti i settori delle masse subalterne. C’è dunque un collegamento diretto, che va continuamente verificato e rinsaldato, tra avanguardia e masse, determinato da una serie di deleghe e di rappresentanze “a cascata”. Invece la minoranza attiva propugnata (e in parte costituita) dai giellisti non ha bisogno di collegamenti o di investiture, E ciò non tanto per il ben noto “interclassismo circoscritto” di GL, quanto perché la funzione del1’élite non è di interpretare, bensì di risvegliare.
“L’obiettivo immediato”, scrive Aldo Garosci, “consisteva nel rompere il contagio della paura, nel richiamare alla lotta una opposizione polverizzata, nel creare una coscienza e una volontà rivoluzionarie in una minoranza audace capace, col tempo, di trascinare le masse”.
Si nota bene la distanza dal marxismo in tutte le sue versioni, nessuna delle quali prevede un ruolo dei rivoluzionari in sé compiuto, anche quando si assumono funzioni pedagogiche nei confronti del proletariato. Ma ciò che scava un vero abisso tra le diverse concezioni rivoluzionarie è la seconda caratteristica di GL, concernente modi e fini del suo agire.
Le minoranze attive gielliste devono essenzialmente stimolare, provocare, dare l’esempio. Per cui le azioni che intraprendono (dal volo di Bassanesi, alle progettate esplosioni nelle Intendenze di Finanza, agli attentati dimostrativi contro i consolati) hanno natura non già di lotta armata, come pretendono, bensì di propaganda armata. O, meglio ancora, di gesti esemplari il cui obiettivo non è colpire l’avversario (che riporta danni irrisori), bensì dimostrare che c’è qualcuno in grado di farlo.
Nessuna parentela, in ciò, con l’azione dei bolscevichi, con la Comune di Parigi o con qualsiasi altro momento della storia del movimento operaio – salvo forse 1’autoimmolazione dei socialisti di James Connolly nell’insurrezione di Dublino del 1916, a valenza prevalentemente dimostrativa. Molto in comune, invece, con l’episodio fiumano e, più in generale, con il dannunzianesimo. A testimonianza di come GL si differenzi così vistosamente dall’antifascismo con radici prefasciste perché partecipe della cultura diffusasi in Italia dopo la prima guerra mondiale. Cultura sicuramente estranea a un Treves o a una Balabanoff, e invece visibilissima nel “militarismo” di Lussu e, in genere, nell’arditismo inconfessato e nel culto per l’azione che pervade il nuovo movimento.
La terza caratteristica – di tutte la meno vistosa – è lo “spontaneismo” coltivato da Giustizia e Libertà. Spontaneismo che concerne non già i compiti dell’avanguardia – che, anzi, deve essere ferreamente strutturata – bensì il “dopo”, il momento dell’insurrezione. La scintilla accesa dall’élite rivoluzionaria deve appiccare l’incendio insurrezionale, come si è visto; ma non può certo appiccarlo se non trova un terreno predisposto. Vale a dire una massa tra cui regni latente un impulso di rivolta, che si tratta semplicemente di sprigionare e di indirizzare.
Qui, come si vede, il pensiero di GL torna a coincidere con quello dei massimalisti e della maggior parte delle formazioni antifasciste. Ma è l’unico punto di somiglianza. Perché mentre tutti i partiti giudicano il fascismo debole, GL lo ritiene forte e intende affrontarlo con la forza; mentre tutti i partiti si comportano come partiti di massa anche se non lo sono più, GL agisce da organizzazione d’avanguardia né pretende di essere qualcosa di diverso. Lo si desume dall’intelligente elenco di cose da evitare che Rosselli compila a uso degli altri gruppi:
“Presentare il fascismo come in procinto di cadere da un istante all’altro; esagerare l’importanza dei movimenti esistenti; impiegare un tono roboante, minaccioso; (…) condurre le requisitorie su motivi prevalentemente sentimentali o sulle violenze del passato…”.
Ci sì potrebbe chiedere, a questo punto, come mai Giustizia e Libertà possa nel 1931 giungere a divenire il “braccio armato” degli altri partiti, e in particolare del Partito socialista, di cui quasi rappresenta un’antitesi. Il fatto è che GL non si allea al Partito socialista italiano massimalista, diretto erede – sia pure in formato ridotto – della tradizione socialista rivoluzionaria prefascista. Con quest’ultimo, malgrado una breve convivenza nella Concentrazione antifascista (interrottasi nel 1930), esiste incompatibilità assoluta, salvo su un punto che vedremo in ultimo. No: GL si allea con un nuovo Partito socialista che del vecchio ripete il nome, ma che con esso non ha più nulla in comune. Mentre con GL qualcosa in comune sicuramente ha: la data di nascita, salvo uno scatto di pochi mesi.
Se si guarda al passato del movimento operaio con lenti appannate dall’esigenza di scoprire una continuità legittimatrice, si vedrà una lunga e ampia autostrada. Se invece non si obbedisce a sollecitazioni di quel tipo, si scorgerà un sentiero continuamente spezzato da ostacoli, bivi e divaricazioni, da cui si dipartono minuscoli viottoli che fino a un attimo prima facevano parte integrante della via maestra. In relazione alla storia del movimento socialista, si noterà dunque che il socialismo di Andrea Costa nulla ha a che vedere con quello di Turati, così come quest’ultimo ha poco in comune col PSI ridisegnato dal congresso di Bologna del 1919 o dai successivi. E così via. In ogni epoca, nella sinistra, poche forze possono asserire di venire da lontano, quale che sia la loro meta.
Il Partito socialista di Nenni e Saragat, pur accogliendo alcuni personaggi “storici” del socialismo riformista e pur dichiarandosi continuatore del PSI tradizionale, è un classico esempio di biforcazione della storia. Il vecchio albero da cui si è staccato – il PSI massimalista – vede ai propri vertici, specie dopo la scissione, una larga prevalenza di elementi di estrazione popolare. Si tratta per lo più di quadri intermedi, di ex capilega, di agitatori, di segretari di sezione proiettati a livello di comando dall’esigenza di colmare i vuoti provocati dalla diaspora. Operai ed artigiani di mestiere tanto in patria che in esilio, sono autodidatti dalle capacità intellettuali e direttive limitate. Hanno solo, oltre a una magnifica integrità personale, una fedeltà ai princìpi di quello che chiamano “il vero socialismo” che rasenta il fervore religioso.
Nel PSI rinnovato i dirigenti di analoga estrazione sono rari (l’esempio più illustre è Filippo Amedeo). Sia tra gli esuli – con Saragat, Faravelli, Tasca, ecc. – che nel Centro Socialista Interno costituito in Italia (Morandi, Luzzatto, Basso, ecc.), l’elemento sociale prevalente è lo stesso tra cui recluta GL. Giovani della piccola e media borghesia, avvocati, medici, studenti. Molti, moltissimi hanno inizialmente militato in GL, e conservato un’avversione profonda per gli errori passati del movimento operaio, unita al desiderio di tentare una rifondazione. “Si poteva tentare solo con dei giovani”, ricorda Lelio Basso, “con la generazione che si era impegnata nella politica negli anni incandescenti del dopoguerra e non si trascinava dietro vecchi clichés”.
Oltre all’età anagrafica del partito, il secondo elemento in comune con GL è infatti l’età anagrafica dei leaders, sebbene nel PSI nenniano siano ancora presenti alcune di quelle che Lussu definisce “le vecchie barbe”. Lo stesso Nenni, all’atto della scissione dai massimalisti, non ha ancora raggiunto la quarantina, e la sua traiettoria del tutto eccentrica all’interno del partito (in cui del resto milita da pochi anni) traccia un collegamento tra la sua condizione e quella dei suoi meno esperti compagni.
Tralasciando le vicende del Centro Interno, che esulano dai limiti di questo studio, si può dire che le somiglianze elencate tra GL e nuovo PSI – composizione sociale, età del partito e età dei dirigenti – ne determinino una terza, questa volta meno epidermica. Dal 1930 al 1933 il rinato PSI dà prova di una notevole dose di empirismo ideologico, che si traduce in prese di posizione mutevoli e in parole d’ordine dai molti significati.
Molti studiosi hanno lavorato con impegno a distillare una linea pratica e teorica coerente e intelligibile dai testi e dalle risoluzioni redatti dai socialisti esiliati in questi anni, conseguendo risultati assai brillanti. Ma il fatto stesso che dipanarne un senso abbia richiesto operazioni di tipo esegetico, e talora chiaramente faticose, rivela che le posizioni degli esuli non sono sempre facilmente interpretabili alla sola luce dei loro scritti. E ciò, ritengo, non perché si tratti di posizioni confuse, ma perché riflettono una politica e un’ideologia in divenire. Esattamente come la politica e l’ideologia di GL, pur indirizzate ad altri approdi.
Ricostruendo un partito ex novo, i socialisti fuoriusciti della “seconda generazione” ne ricostruiscono ex novo anche i connotati ideologici. Pochi sono i punti fermi. Tra questi, è stata elencata “l’acquisizione dei valori della democrazia come patrimonio inalienabile della classe operaia”. D’accordo. Ma la nozione di “democrazia” (che già di per sé esprime ben poco) assume contenuti diversi e contrastanti a seconda dei momenti e degli autori, e talora in uno stesso autore. Né è sempre facile arguire se si tratti di democrazia rappresentativa (come è certamente in Saragat e nei socialisti provenienti dal vecchio PSULI) o di democrazia diretta, come il frequente richiamo a Marx e alla Guerra civile in Francia può in qualche caso far pensare. O ancora di interpretazione letterale del termine: potere del demos, degli strati inferiori del popolo. E se non è così, non si comprende perché il PSI avverta il bisogno di aggettivare il vocabolo, coniando espressioni come “democrazia socialista” in riferimento al sistema politico da edificare, che senza precisazioni risultano alquanto fumose. Anzi, non di rado sono proprio le precisazioni ad alimentare l’equivoco:
“II proletariato”, scrive Saragat nel 1933, “deve essere democratico per ragioni esattamente opposte a quelle enumerate nelle teorie del democraticismo di maniera. Non si tratta di imboscarsi nel suffragio universale per eludere gli urti violenti della storia, ma al contrario si tratta di farsi paladini del suffragio universale per poter fare ‘massa’ al momento dell’urto”.
Lo stile è brillante, ma non è che la nozione di democrazia emerga particolarmente chiara da queste parole – tanto più che l’articolo si chiude con un’apologia della rivoluzione violenta, ritenuta inevitabile. In linea di massima, comunque, Saragat considera il sistema democratico come l’humus in cui può fermentare la lotta di classe e maturare la coscienza del proletariato, che in tal modo accumula forze per il passaggio al socialismo. Concezione non dissimile da quella sostenuta dal PSULI, se non fosse per l’aggiunta della rivoluzione che conclude il processo.
Molto meno chiaro è cosa intenda Nenni per “democrazia”, per non parlare degli altri leaders in esilio. II fatto è che, come accennavo, la “seconda generazione” socialista si trova a maneggiare concetti inediti per il movimento operaio, e li formula e li riformula al fine di trarne un quadro programmatico coerente che ponga il partito al riparo dalle lotte di frazione.
Ma tanti tentennamenti, tante teorizzazioni approssimative, tanti concetti presi a prestito da questa o da quell’altra dottrina, finiscono per privare la componente più forte e, fino a quel momento, storicamente più rilevante del movimento operaio italiano – il movimento socialista – di una propria autonoma identità ideologica. In qualche modo, si può ritenere che ciò rappresenti il suicidio definitivo, la suprema autoimmolazione della sinistra non comunista in esilio. Persa la propria base di massa, il movimento socialista rinuncia ora anche al proprio profilo teorico, condannandosi a una vitalità che può parere esuberante, ma che nei fatti lo inchioda alla politica del quotidiano, e gli preclude un avvenire di ampio respiro.
La seconda metà degli anni Trenta vede così il PSI di Nenni e Saragat, partito ormai privo di memoria (e di un programma di azione diretta antifascista, avendolo a suo tempo delegato tutto a GL), in balia di paurose oscillazioni che lo conducono, dopo la rottura con i giellisti, ad aggrapparsi all’unica forza in grado di garantirgli la solidità che gli è negata: il PCI. Avvicinamento che comporta una brusca modificazione di comportamenti e di linguaggi, nonché la scoperta che la “democrazia” tanto ricercata è quella vigente nell’Unione Sovietica di Stalin. Mentre a chi non condivide la scelta sono riservati gli epiteti di “merce fascista”, “spie”, “trockisti” e altre espressioni ancor meno benevole.
Tra questi ultimi figurano i vecchi socialisti massimalisti, prigionieri invece di un eccesso di memoria che li porta a non vedere quanto siano stinte le vecchie bandiere. Animati da troppa coerenza, seguitano a rifiutare ambedue le Internazionali – la Seconda perché a suo tempo tradì il principio della solidarietà universale tra gli operai, e la Terza perché ritengono abbia deturpato, “disumanizzandola”, l’immagine del socialismo. Si trovano così soli, alleati a una coorte di piccoli partiti onesti, e idealmente vicini solo a personalità nobilissime ma isolate, come Victor Serge, Marceau Pivert, Andrés Min, Camillo Berberi. Inutile rammentare la fine di alcuni di costoro, e per mano di chi.
Scoppiata la guerra di Spagna i massimalisti vi accorrono per primi, imitati da Giustizia e Libertà – che con loro condivide una cosa sola, la limpidità morale. E in Spagna assistono al massacro dei militanti del gruppo cui si sono affratellati, il Partido Obrero de Unificación Marxista, per mano degli stalinisti e con l’assenso dei vecchi compagni.
Ridotti a un gruppetto, i massimalisti si spengono tra i tavolini dei bar della banlieu parigina, colpiti dall’unica malattia che Voltaire dice in grado di uccidere gli dei: il fatto che in loro non creda più nessuno. Ma fra. gli stessi tavolini è una concezione del socialismo che si spegne.
In sostanza, la restaurazione operata dal fascismo riesce a conseguire il principale scopo che si prefiggeva: spezzare la storia del movimento operaio italiano, distruggendone l’organizzazione e cancellando in intere generazioni il ricordo delle sue idee e delle sue conquiste. La repressione fisica, poliziesca, si coniuga in questa operazione alla manipolazione culturale, a sua volta sorretta da una ristrutturazione economica tesa a scompaginare i precedenti assetti sociali.
Vincolata a parole d’ordine inattuali, a una visione del reale ostinatamente consolatoria, all’illusione che nulla possa mutare nel profondo, la vecchia guardia sovversiva muore quasi senza accorgersene e, quel che è peggio, senza che nessuno se ne accorga. Sopravvivono solo quelle forze che, dotate di grande disinibizione nei confronti dei modelli passati, non hanno timore a guardare in volto il presente; e soprattutto quelle che, adottata una metodologia rigorosa che le metta al riparo dai soprassalti del quotidiano, sanno coniugare memoria e innovazione, fedeltà ai valori e ricerca di percorsi inesplorati,
E’ grazie a questa sinistra che il fascismo sarà battuto, oltre che sul campo, nella coscienza del proletariato italiano.
Il presente inervento (qui privato delle note) fu presentato dall’autore, in forma di comunicazione, a un convegno di studi sull’antifascismo in Europa, indetto dall’università di Heidelberg nel 1988. E’ inedito in Italia.