Sentieri Selvaggi è una prestigiosa rivista di cinema che, dopo un’iniziale esistenza cartacea, ha trovato nuova vita in forma elettronica. Dalle sue pagine riprendiamo l’articolo che Simone Emiliani ha dedicato al film di Michael Moore Fahrenheit 9/11, vincitore della Palma d’Oro a Cannes. Lo facciamo seguire da un commento di tenore opposto scritto da un altro illustre collaboratore di Sentieri Selvaggi, il critico cinematografico Mauro Gervasini. Questi lo ha fatto pervenire a Carmilla On Line in risposta all’articolo di Giuseppe Genna intitolato A quando il Michael Moore italiano?
Crediamo che, pur nella disparità delle valutazioni, Emiliani, Gervasini e Genna concordino sui benefici di avere un Michael Moore attivo sulla scena del cinema americano e mondiale. (VE)
SIMONE EMILIANI:
Necessario, importantissimo, segno non di un cinema politico ma di una politica fatta attraverso il cinema. Moore apre l’inchiesta soprattutto attraverso immagini d’archivio, montate con una frenesia che provoca immediata adesione
Scottante, indispensabile, necessario. Michael Moore con Fahrenheit 9/11 attraversa gli eventi precedenti e successivi all’11 settembre con una forza provocatoria dirompente, con un’energia capace di catturare attraverso dei documenti di archivio sorprendenti che diventano mezzi per raccontare di come il ruolo maggiore lo abbiano avuto il possesso del petrolio e un sistema capitalistico ancora più rigido. Non è tanto questione di un “cinema politico” — definizione incompleta per sottolineare anche Roger & Me e Bowling a Columbine — quanto di una necessità di fare politica attraverso il cinema. Lo avevano fatto grandi registi statunitensi come Capra e Litvak con la serie Why we fight durante la Seconda guerra mondiale, lo ha fatto e lo continua a fare Godard in gran parte della sua opera. La macchina da presa di Moore continua ad essere spietata come in Bowling a Columbine ma stavolta sono i materiali filmati e rimontati ad aprire interpretazioni sugli eventi che si erano sempre sospettati ma mai provati. Così dalla considerazione che i luoghi che contano di più negli Stati Uniti sono tre (il Watergate, il Kennedy Center e l’ambasciata dell’Arabia), all’attacco di una guerra costruita programmaticamente contro l’Iraq (che non aveva mai mandato nessuna minaccia agli Usa), si passa ad approfondite e continue analisi sulla ripartizione del capitale, tra quelle più evidenti (il petrolio) a quelle più nascoste (solo un figlio di 535 deputati del Governo sono partiti in guerra). Il volto di Bush viene come continuamente deformato, deriso — come nei momenti prima di andare in onda, oppure nella sua “laboriosa” estate del 2003 dove era più facile reperirlo in Texas piuttosto che alla Casa Bianca — e soprattutto immortalato in un inquietante piano nella scena in cui gli è stato comunicato che un secondo aereo ha attaccato le Twin Towers. Il Presidente si trovava in una scuola e, con la sua faccia pensosa, ha continuato a leggere un libro per oltre 10 minuti. Oltre a una densità ricchissima, con metodi di inchiesta anche televisiva ma contenutisticamente sempre efficace, Fahrenheit 9/11 si apre anche a due momenti di grande cinema. Il primo riguarda l’evento dell’attacco dell’11 settembre. Non si vedono le solite immagini più volte viste in televisione. C’è solo uno schermo nero con suoni, rumori, urla, che non si erano mai sentiti. Subito dopo, singole, private immagini di dolre e disperazione, che si dilatano nella forma mélo con cui Moore segue con intimo calore quella concittadina del Michigan a cui è morto il figlio in guerra.
MAURO GERVASINI:
Caro Genna, sono da molto tempo un tuo lettore, ti stimo e spesso, quasi
sempre, condivido le cose che scrivi. Anche per questo ho deciso di
esprimerti il mio totale dissenso circa il contenuto del tuo articolo
intitolato “A quando il Michael Moore italiano?“.
Do per scontato che tu abbia visto Fahrenheit 9/11, dato che sei così sicuro
che abbia meritato la Palma d’oro. E di conseguenza, do per scontato che tu
abbia visto gli altri film del concorso del festival di Cannes, tra i quali,
credimi, ve ne erano alcuni che esprimevano un’autentica “vocazione
politica” al pari di quello di Moore, magari senza bisogno di declamarla
così esplicitamente. E non mi riferisco a I diari della motocicletta, ma per
esempio alle Conseguenze dell’amore di Sorrentino (guarda un po’, italiano)
o al non così disprezzabile The Edukators battente bandiera tedesca.
Tralascio anche il luogo comune sugli artisti europei “invischiati nelle
menate di uno psicologismo autoreferenziale ecc. ecc.” perché è, appunto, un
luogo comune. Il mio dissenso è tutto sull’opera di Moore, certamente
notevole nella prima parte, quella dedicata a Bush, e della quale capisco
anche l’utilità pratica (dimostra, citando fatti e circostanze, cose che la
stragrande maggioranza degli americani neppure sospetta). Vogliamo chiamarlo
“cinema d’inchiesta” senza nessuna accezione negativa? È comunque la
dimostrazione che Michael Moore sa essere un grande documentarista e, ça va
sans dire, un grande cineasta.
Purtroppo, nella seconda parte del film, fa quello che nessuno dovrebbe mai
fare: “aggredisce” il dolore di una madre che ha perduto il figlio in Irak
con una ostinazione che non ha nulla di pudico (o di morale, se preferisci)
e così facendo cade nella trappola del “nemico” utilizzandone lo stesso
strumento per catturare il consenso di chi guarda. Mi riferisco
all’emotività. È facile incutere il terrore nel popolo americano così da
indurlo a “votare” l’uomo-forte; è altrettanto facile fargli cambiare idea
non staccandosi un secondo dal dolore di una madre, vittima di
quell’uomo-forte.
Quando quella donna si piega in due devastata dal dolore nel parco di
Washington senza che Moore senta il bisogno di girarsi dall’altra parte, a
me è venuto in mente il “carrello di Kapò”. Serge Daney credo si sia
rivoltato mille volte nella tomba. Oltretutto, una inquadratura inutile
anche ai fini diciamo così “propagandistici” o “politici” non solo del film
ma della stessa sequenza.
Ci sono almeno un paio di altri motivi a mio parere gravi che mi fanno
considerare Fahrenheit 9/11 un film che non meritava quel premio, ma diciamo
che questo l’ho trovato addirittura “vile”, anche perché fatto dal regista
di Bowling a Columbine.
Per la cronaca, io avrei premiato Clean di Olivier Assayas.
Cordialmente
Mauro Gervasini