di Paolo Persichetti
Che cosa è lo stato di eccezione? Uno spazio vuoto di diritto, una zona in cui tutte le determinazioni giuridiche sono destituite. Per affermarlo e sciogliere così le aporie da cui la teoria moderna dello stato di eccezione non riesce a venir fuori, Giorgio Agamben in un piccolo ma denso volumetto Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri (pp. 120, euro 12) ricorre ad un architetto scovato tra gli istituti del diritto romano: il iustitium. Il termine, costruito come “sol-stitium”, significa letteralmente «arresto, sospensione del diritto». Proclamato dal Senato in caso di tumulto, questo provvedimento instaurava un paradossale istituto giuridico che aveva come unica funzione la produzione di vuoto giuridico. Il paradosso di una situazione che promuove provvedimenti giuridici che non possono essere compresi sul piano del diritto, sembra costituire l’oggetto ibrido dello stato di eccezione.
Una realtà che «ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni», sostiene Agamben dopo aver passato in rassegna le innumerevoli difficoltà incontrate dalla tradizione giuridica di fronte al tentativo di fornirne una definizione concettuale e terminologica certa.
Lo stato di eccezione non è un ritorno al potere assoluto, né tantomeno un modello dittatoriale, non è pienezza bensì vuoto, vuoto del diritto come l’esempio del “iustitium” insegna. Lo stato di eccezione – prosegue l’autore: «ha anzi assunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando all’esterno, il diritto internazionale e producendo all’interno, uno stato di eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto». La conclusione è senza appello, «dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di stato e di diritto».
Dopo aver letto queste parole è inevitabile pensare a quella serie di provvedimenti intrapresi dall’amministrazione Usa dopo l’11 settembre 2001, e che hanno condotto al deserto giuridico di Guantanamo, il più visibile dei luoghi invisibili. L’internamento di individui, non prigionieri accusati, rilancia l’emblema tragico del campo, zona in cui «la nuda vita raggiunge la sua massima indeterminazione». Le nuove dottrine strategiche, riassunte dietro formule come «giustizia infinita» e «guerra preventiva», sembrano voler fare dello stato di eccezione il paradigma di governo che domina quella che da più parti è stata definita “guerra civile mondiale”. Un concetto per nulla nuovo e già apparse, fin dal 1961, in due libri: “sulla rivoluzione” di Hannah Arendt e “teoria del partigiano” di Carl Schmitt; successivamente rielaborato, 1983, da uno studioso tedesco, René Schnur, attraverso la formula «guerra civile legale».
Lo stato di eccezione è presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Dall’inizio del secolo «la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici». Nel corso di una breve ma efficace sintesi storica, di cui è corredato il volume, appare evidentemente come lo stato di eccezione moderno sia una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria. Viene riproposta qui la tesi avanzata già nel 1941 dal filosofo tedesco morto suicida, Walter Benjamin, il quale scriveva: «la tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola». Ciò vuol dire che la tesi di Schmidt, prevalsa sulle teorie che fondavano l’eccezione sullo stato di necessità, è a sua volta invalidata. Secondo il giurista tedesco, infatti, l’ordinamento giuridico riposa in ultima istanza su una dispositivo, lo stato di eccezione, che ha come fine di rendere applicabile la norma sospendendone in modo temporaneo l’esercizio (stato di eccezione fittizio).
Con un linguaggio diverso e partendo da presupposti differenti, la definizione del concetto di stato di eccezione conduce Agamben alle stesse conclusioni cui pervengono autori di altre discipline che, studiando le modificazioni del politico e dei sistemi statuali, osservano un sostanziale svuotamento della partecipazione politica (modificazione delle regole e delle forme della rappresentanza) a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica. Il ricorso sistematico della decretazione d’urgenza e al dispositivo delle deleghe legislative concesse all’esecutivo, tratto peculiare dello stato di eccezione come tecnica di governo, ha accompagnato la progressiva emergenza della nozione di «governabilità» (decisione), a scapito della «partecipazione» (deliberazione), per altro già sorpassata dal nuovo modello di «governance», ovvero il sistema di governo globale prodotto dai luoghi sovranazionali della decisione, che esautora la vecchia governabilità frutto della decisione espresso dai singoli stati nazione. Un lavoro importante, atteso e fecondo quello di Agamben che però lascia irrisolti alcuni problemi.
Interessante sarebbe stato, ad esempio, il raffronto tra i dispositivi intrapresi dall’amministrazione Usa, dopo gli attacchi dell’11 settembre, e le misure introdotte in Europa. Mentre i primi sembrano caratterizzarsi per quella produzione di vuoto giuridico, dove ogni finzione che regola violenza e diritto scompare; l’Europa, al contrario, sembra eccellere per una sovraproduzione di giuridicità differenziata e speciale.
Nel corso della sua esposizione, Agamben mostra efficacemente come tutte quelle teorie che cercano di annettere lo stato di eccezione nel diritto incorrino in insolubili aporie. Ma il problema che qui si pone non è quello della coerenza logica delle teorie che pretendono di rendere legale e legittima l’eccezione, quanto quello delle forme che l’eccezione può assumere. L’esempio recente del regime carcerario differenziato è paradigmatico. Dopo un decennio di continui rinnovi annuali alla fine il trattamento carcerario differenziato è divenuto una misura stabile dell’ordinamento penitenziario. Anche l’inflazione giudiziaria ha introdotto profondi disequilibri sul versante del diritto costituzionale e del diritto pubblico. Il “big judiciary” con le sue politiche della sicurezza come tecnica di governo che mirano a comprendere nel campo della sanzione penale spazi sempre più estesi, in precedenza regolati attraverso forme di mediazione e confronto sociale e politico; la trasformazione progressiva dei contenziosi e dei conflitti in infrazioni ed addirittura la giudiziarizzazione delle controversie storiche e culturali, non suggeriscono anche un’altra immagine della eccezione che, accanto allo spazio vuoto di diritto, vede emergere sempre più una zona piena, pervasa e porosa, di giuridico e giudiziario.
[da ‘Liberazione’]