di Valerio Evangelisti
Daniele Brolli ha tantissimi meriti. Li ha nei riguardi del mondo letterario italiano, che ha contribuito a svecchiare e depurare sia come editore e curatore (sua la scoperta in Italia di Joe R. Lansdale, di Jonathan Carroll, ecc.) che come scrittore e saggista tra i più brillanti (tra gli apporti più recenti, una splendida riedizione da lui curata dell’opera narrativa di Oreste Del Buono). Li ha, nello specifico, nei confronti di Cesare Battisti: fu Brolli a volere fortemente, contro molti pareri ostili, che il romanzo di Battisti L’orma rossa uscisse nella collana Einaudi Vertigo, e a reagire con scandalo quando l’editore censurò parte dell’intervista che corredava il volume.
Proprio per questo ci è dispiaciuto leggere (parlo al plurale perché interpreto il pensiero anche di alcuni altri redattori di questo sito), sul numero 49 di Pulp, un intervento di Brolli, nella rubrica L’angolo della sfinge da lui curata, indegno della sua intelligenza e a tratti davvero gretto.
L’intervento si intitola Il giorno dello sciacallo (ma anche Tutti gli uomini del Presidente). Nelle linee generali difende Battisti contro chi vorrebbe deportarlo in Italia e seppellirlo in un carcere per sempre. Se l’argomentazione complessiva è condivisibile, due passaggi non lo sono.
Il primo. Brolli dice, di Battisti: “Intanto mi sembra fuori luogo definire Cesare un grande scrittore. Non lo è e probabilmente non lo sarà mai. Le traversie e le fughe lo hanno privato della possibilità di scegliersi una lingua sua e tutte quelle a sua disposizione si sono mescolate in un incontrollato, e a volte pieno di luoghi comuni, ‘fritagnolo’ (è così che lo definisce lui stesso, un incrocio, determinato dall’aver vissuto in Messico e a Parigi, tra italiano, spagnolo e francese). Tanto che ogni suo romanzo deve essere lavorato a fondo da un redattore per poter essere pubblicato.”
Ciò è in parte vero, l’italiano di Battisti è contaminato da frasi idiomatiche prese da altre lingue. Ma Brolli ha curato l’editing del suo secondo romanzo, per l’appunto L’orma rossa. Chi scrive ha invece messo per primo le mani sul quarto, L’ultimo sparo. Ebbene, posso assicurare che il problema dell’editing non era affatto così drammatico; anzi, era molto inferiore a quello reso necessario da alcuni giovani autori italiani tra i più cari a Brolli. Del resto, ciò è determinante a decidere della forza letteraria di uno scrittore? Fino alla fine dei suoi giorni Moravia seguitò a mettere la virgola tra soggetto e verbo, eppure il giudizio su di lui (positivo o negativo che sia) non si è mai fondato su quell’elemento.
Che poi Battisti sia “grande” scrittore è tutt’altra questione. Non lo era di sicuro ne L’orma rossa. Ma chi ha letto Le cargo sentimental sospetta che lo sia davvero (chiedere a Mattia Carratello, a Luca Briasco, ad Antonio Riccardi ecc.), e che solo un imbecille (qui non parlo di Brolli, che imbecille non è) possa non accorgersene. Per cui, prima di lanciarsi in giudizi drastici e liquidatori, è forse meglio conoscere l’intera opera di un autore.
Ma non è certo questo il passaggio peggiore dell’articolo. Poco più sotto Brolli scrive:
“Ho invece sentito un’immonda serie di frasi fatte in sua difesa, persino un sito per raccogliere le firme, da chi ha attivato un meccanismo classico: ficcarsi in una controversia che fa molto rumore per approfittare dell’esposizione e della pubblicità indiretta (mettere sempre il proprio nome al centro delle cose). I cosiddetti intellettuali italiani lo hanno difeso in maniera controproducente, cercando spesso la parola a effetto, e con lo scopo non dichiarato di far pubblicità a se stessi.”
Si direbbe che Brolli non abbia letto i giornali né guardato la tv per un paio di mesi. Altrimenti forse si sarebbe accorto che la causa di Cesare Battisti non è tra le più popolari, in Italia; e che la “gloria” che deriva a chi la abbraccia è molto discutibile. Per dirne una, il solo fatto di avere firmato la petizione è costato a Marco Müller ben cinque interrogazioni parlamentari, al punto che è stato costretto a ritirare la firma per non perdere l’incarico di direttore della Mostra del cinema di Venezia. Altri firmatari hanno subito forme varie di boicottaggio (o peggio), su cui non mi soffermo perché facevano parte dei rischi da mettere in conto. La petizione stessa è stata ignorata dalla stampa in generale, o trattata di sfuggita come espressione di “fiancheggiatori” del terrorismo.
Curioso modo di farsi pubblicità. Brolli non trova?
Ma vediamo come sono andate le cose. La petizione “immonda” è nata, il giorno stesso dell’arresto di Cesare, per iniziativa di quattro persone: chi scrive, Giuseppe Genna, Wu Ming 1 (Roberto Bui) e Serge Quadruppani. Brolli crede davvero che qualcuno di noi avesse bisogno di questa specie di “lancio”? Che dovessimo necessariamente legarci al nome di Cesare Battisti per vendere i nostri libri?
Consideri Brolli che tre di noi avevano già promosso, l’anno prima, una raccolta di firme a favore di Paolo Persichetti. Non nota una certa continuità tra un’iniziativa e l’altra? O la vede nel fatto che anche quell’impresa — da tutti i punti di vista disperata — concentrava l’attenzione dei media su chi l’aveva ideata?
Se poi Brolli si riferisce non ai promotori ma ai firmatari, dovrebbe farci capire in che modo Nanni Balestrini e Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Antonio Moresco, vedessero in Cesare Battisti — dipinto da tutti i media italiani quale un truce assassino — l’appiglio per una campagna di autopromozione.
Forse Brolli non ci crederà, ma il giorno in cui hanno arrestato Cesare Battisti noi (intendendo per “noi” non solo i quattro estensori della petizione, ma anche i collaboratori di questo sito, ai suoi occhi così spregevole) stavamo davvero male.
Se Daniele Brolli non riesce a capirlo, lui che come noi conosceva Cesare e, in qualche misura, gli era amico, ci risparmi le prediche, per favore. Non siamo noi i manipolatori dell’editoria con cui se la prende abitualmente. Il cinismo può anche essere salutare, ma, se male indirizzato, rischia di confondersi con la meschinità.