di Luca Masali

diarimoto.jpgNel 1952, il Che ventenne, alla viglia della laurea in medicina, attraversò il Cono Sud, il continente sudamericano, con l’amico Alberto Granado. Un viaggio descritto nel libro Un diario per un viaggio in motocicletta (Feltrinelli) e trasformato in un film dal titolo un po’ meno pedissequo (I diari della motocicletta) dal regista brasiliano Walter Salles.
Otto mesi, più di diecimila chilometri tra le Ande e il Rio delle Amazzoni, partendo dall’Argentina e passando per ì il Cile, il Perù, la Colombia fino a Caracas, la capitale del Venezuela: due amici e una scassatissima moto, La Poderosa, che morirà tristemente da qualche parte del Cile, appiedando il futuro Che (Gael García Bernal) e il povero Granado (Rodrigo De la Serna).

A Sallers va soprattutto il merito di aver evitato abbastanza bene il rischio dell’agiografia, del voler trasformare a tutti i costi un’avventura da adolescenti nell’iniziatico mistico di quella sorta di cristo laico da mettere sulle magliette a cui spesso si riduce Ernesto Guevara. Il Guevara di Sallers è trattato con affettuosa complicità, e si mostra per quello che doveva essere il Che prima di diventare il Che: un ragazzetto idealista sì, ma anche piuttosto fesso e un po’ casinista, avviato a una relazione sentimentale improbabile con una fanciulla scialbetta di buona famiglia, residente in una hacienda che più che nella Pampa sembra essere nell’Oberland bernese.
Ciò non toglie che il “Che Cristo” Salleriano riesca a trovare pure il tempo di fare il suo bravo miracolo, quando convince la bella lebbrosa a farsi operare per salvarsi il braccio, ma un miracolo solo può passare. Più intrigante l’incontro con la Maddalena, quivi incarnata in una giovane prostituta che batte sul battello che fa la spola su e giù per il Rio delle Amazzoni; il nostro Che non ha nessuna voglia di salvarle l’anima, nemmeno quella rivoluzionaria; anzi, rimane il sospetto che avrebbe approfittato volentieri delle di lei grazie, se non fosse che la carne è troppo debole, nel senso che l’asma lo mette cappaò prima di poter consumare. Più vigorosa la carne del Granado, che lascia l’amico a rantolare in cabina e si abbandona volentieri ai ben altri rantoli del commercio carnale. D’altronde, senza il Granado la carrera sudamericana dei due argentini si sarebbe probabilmente arenata alla periferia di Buenos Aires; è lui che si inventa le gabole picaresche per scroccare vitto ne alloggio qua e là per il subcontinente, nonostante i turbamenti morali del Che; scrupoli più che altro di facciata, visto che in Cile il Che non solo si presta volentieri a un’impostura da manuale per gabbare un ingenuo meccanico e farsi aggiustare a gratis la moto, ma poi cerca pure di scopargli la moglie. Tentativo abortito per il troppo alcool che scatena la rissa, non certo per la mancanza di volontà del futuro guerrillero.
Insomma, un Che credibile, diciamo pure godibile; sottotono quel tanto che basta da renderlo vero, come sottotono è la natura dell’America nella fotografia della pellicola. Sottotono, ma non addomesticata: il Rio delle Amazzoni è ritratto come se si girasse un documentario sul Re dei Fossi lodigiano, ma quando è richiesto ridiventa il Rio delle Amazzoni, il fiume dell’ingiustizia, quello che divide coloro che hanno tutto dai lebbrosi, quelli che non hanno mai avuto nulla e perdono anche i pezzi del corpo. Le Ande di Sallers sembrano l’Appennino ligure, lama a parte; ma è proprio in questo panorama volutamente casalingo che arrivano i momenti più “politici” del film, quando il Che incontra una famiglia di minatori in miseria che si dicono orgogliosamente comunisti; qui Guevara tocca con mano la violenza dell’ingiustizia sociale, e si libera simbolicamente — regalandoli- dei 15 dollari che la fidanzata borghese gli aveva dato all’inizio del viaggio, perché lui le comprasse un costume da bagno, nel caso in cui fosse arrivato negli Stati Uniti. Questo è l’incontro che uccide il dottor Guevara e fa nascere il Che; da quel momento, fino al Macchu Picchu e oltre, in ogni successivo incontro il nostro si costruisce pezzo per pezzo il mosaico mentale dei diseredati dell’America e cominciano le prime riflessioni sulla rivoluzione, che “senz’armi non funzionerebbe”; riflessioni oziose da adolescente in vacanza, intercalate dai veri drammi, come la fidanzata che si è stufata del girovago promesso sposo e lo manda al diavolo via lettera. In questo viaggio ondivago tra le sane preoccupazioni piccolo borghesi e lo slancio rivoluzionario sta la grandezza del film: perché testimonia come per trovare la forza di ribellarsi all’ingiustizia non bisogna necessariamente essere “eroi da maglietta”, basta saper ascoltare il ragazzino romantico e casinista che tutti ci portiamo dentro.
Così nasce il Che, e così arriva anche l’ultimo miracolo del Guevara di Sallers: l’ascesa al Cielo, che non ha bisogno di morte e resurrezione ma solo di uno sfasciato aereo Douglas Dc3 dell’aviazione colombiana, che decolla nel tramonto per riportare a casa il Che, gravido di promesse per il futuro. Decollo in cui all’occhio aeronautico del vostro Masali è parso di vedere una certa difficoltà nella retrazione del carrello di sinistra. Sicuramente un guaietto non voluto dalla sceneggiatura, ma un miracolo previsto che miracolo sarebbe?