di Beppe Sebaste (da L’Unità, 3 maggio 2004)
“Papà, perché le cose hanno i contorni?”, chiedeva la piccola Mary Catherine al filosofo e scienziato Gregory Bateson, che dedicò al tema uno dei suoi “metaloghi” in Verso un’ecologia della mente. Dialogo che oscillava, come una poesia di William Blake, tra due estremi indecidibili: “solo i pazzi vedono i contorni”, “solo i saggi vedono i contorni”. Al rassicurante nitore dei contorni dedicai un racconto dopo un viaggio in California, in realtà sulla luce e l’abitare; e non è un caso che l’incanto mi torni dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Joe R. Lansdale, La sottile linea scura (Einaudi).
Come in altri suoi libri la storia si svolge in Texas, polveroso sinonimo di spazio così ampio da dissolverne i contorni, dove l’autore è nato e vive; ma a differenza di altri è dedicata a quell’età tra infanzia e adolescenza capace, come le fiabe, di rendere ogni luogo abitabile e dotato di contorni. E’ una storia di formazione intrecciata con un thriller, che fa scoprire al ragazzo il sesso e la morte, e in generale i casini della vita dei grandi. Ma che rivela presto il vero oggetto e scopo della narrazione: non tanto scoprire la linea di confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, quanto dire la vita e la nostalgia, entrambe refrattarie a contorni e cornici, in un tono così perfettamente controllato (un contorno) da ricordare l’arte del disegno: la sottile linea scura. Se già per gli antichi il talento del pittore consiste nel mostrare l’invisibile, e per Plinio la pittura ha origine nel “rilevare con delle linee l’ombra di un uomo”, Lansdale mostra per le narrazioni la stessa consapevolezza: che la pittura e il disegno hanno a che fare col fantasma, che volto e ritratto sono cose opposte, salvo incontrarsi in qualcosa di ectoplasmico; che soltanto i pazzi vedono i contorni, oppure i più savi (è uguale). Che ciò che conta è avere compiuto abbastanza esperienze per perdersi, e quindi ritrovarsi; e desiderare questo dalla letteratura, perplessità unita a consolazione. Così come — sono le ultime parole del libro — “carne e polvere finiscono per rivelarsi la stessa cosa”.
Due spunti. Il primo: i contorni — “la sottile linea scura” — servono a discriminare carne e polvere? Il saggio (come il pazzo) conosce lo sconfinare dell’una nell’altra, ma si distinguono per l’opportunità (politica) di dirlo. L’esclamazione “il re è nudo” diventerebbe (è accaduto tante volte) “il re è polvere”. Il secondo: ecco qualcosa di cui è difficile tracciare il contorno – la polvere, quell’apeiron (il filologo Giovanni Semerano docet) che per secoli fu idealisticamene tradotto “infinito”, ma che non è che l’innumerevole dei granelli di sabbia del deserto. A meno che non si tracci il contorno del suo fantasma di carne. (Esiste la carne di fantasma? Sulla questione si era espresso il filosofo Maurizio Ferraris sulla Rivista di Estetica). Mentre, per un’estetica della polvere, La polvere nell’arte di Elio Grazioli (Bruno Mondadori) è un interessante excursus di come l’invisibile si rende visibile (da Leonardo a Ground Zero).