di Giuseppe Genna
Negli Stati Uniti si fa un grande parlare del terzo libro di Matthew Sharpe, già notevolissimo autore di Nothing is terrible, che la bibbia di chi va in avanscoperta della nuova letteratura, e cioè BoldType, già segnalò alla nostra attenzione, con estremo piacere da parte nostra (le divagazioni e le sottostorie raccontate da Sharpe, con una capacità affabulatoria che ha pochi pari tra i suoi coetanei americani, variano da vicende di pura psicopatologia clinica criminale alla critica filologica pop). Al terzo libro, Matthew Sharpe ha sbancato Fort Knox: è il nuovo re della letteratura Usa. Un re per nulla nudo, visto che il bambino ce l’ha in mano lui: è il protagonista di The sleeping father, il romanzo che ha incantato gli Usa, un compendio narrativo che mixa i Tenenbaum ai Buddenbrook e ci racconta tutta l’America che non avete mai osato chiedere e sulla quale mai avreste avuto risposta.
La storia di questo romanzo è già di per sé un romanzo ed è soprattutto predittiva di un successo planetario. Come ad alcuni padri nobili, a Sharpe gli editori hanno sbattuto in faccia la porta: più di venti grand commis delle lettere americane si sono permessi il lusso di non riconoscere il Proust statunitense, esattamente come era accaduto a quello francese. Finché si è mossa, manco a dirlo, la Soft Skull Press, di cui Carmilla si è già occupata (qui e qui). Non c’è da meravigliarsi: la Soft Skull è mossa dall’eminenza verde pantone di quel genio di Dennis Cooper (pubblicato da Einaudi Stile Libero che, si prevede, sarà l’editore italiano di The sleeping father), il quale non si lascia certo scappare il maggior talento in circolazione in questo colosso narrativo dai piedi di argilla che è l’America.
Cooper ci ha visto giusto, come testimonia l’impressionante boom critico a cui Matthew Sharpe è andato incontro: praticamente chiunque e qualunque testata contino negli Usa ha celebrato i fasti di The sleeping father. Forse lo sbilanciamento critico decisivo è stato quello del Village Voice, che non si può certo dire incline alle iperboli né tantomeno alle sparate pubblicitarie: “The sleeping father di Matthew Sharpe sono due libri in uno — un capolavoro che racconta l’implosione di una famiglia e commuove almeno quanto The Corrections di Jonathan Franzen; e un’indagine dallo stile adrenalinico sull’universo delle linguaggio”.
L’accostamento con Franzen ha avuto un peso determinante nel fare comprendere la potenza di questo romanzo, che ha entusiasmato schiere di lettori e che, grazie a un passaparola nella “repubblica democratica dei lettori” ha iniziato a macinare posti su posti nelle classifiche dei bestseller, fino a imporsi definitivamente come The King of the Show (l’espressione è di Harold Bloom).
Ciò che conta è che il romanzo di Sharpe è commovente, esilarante, velocissimo, meditativo: è esso stesso un sistema nervoso in azione, un sistema nervoso che è capace di elaborare il trauma e che reagisce all’aggressione di un mondo ostile (dall’interno della sua struttura primaria, la famiglia, e dall’esterno, grazie a un apparato sociale impazzito) mediante le più naturali difese a portata dell’uomo: cioè l’umanità, l’amore e l’odio.
Questo The sleeping father è a mia detta di molto superiore alle produzioni allucinogene della recente narrativa americana, in particolare a Eugenides, Frantzen e Palahniuk. Questa è la grande letteratura, signori, e sta giustamente in vetta alle classifiche americane, come una vendetta non tanto postuma contro il mercato imbecille che i tycoon editoriali d’Oltreoceano pensano di imporre alle masse che considerano idiote.
L’auspicio è che si faccia anche qui, in Italia, dove c’è un disperato bisogno di fare vedere che cos’è un grande romanzo, mentre le barzellette di Totti si autospacciano come letteratura dall’alto del loro milione di copie vendute.